Il Getty Museum e quello che rischiamo di perdere

In questi giorni tutto il mondo ha assistito ai terribili fatti della zona di Los Angeles. Tra fotografie di fiamme, distruzione e inferno, un sole nella penombra fumosa rimane rosso come un monito. Il surriscaldamento globale non è una novità, eppure moltissime persone credono ancora che non sia un fatto.

Tra case distrutte, persone che hanno perso ogni cosa, ogni ricordo o la loro stessa vita, sembra impossibile-e infinitamente superficiale- ricordarsi dei luoghi storici, dei custodi dell’arte.

Sullo sfondo di questa devastazione c’è un edificio che racchiude decenni di storia dell’umanità e opere che vanno ben oltre il genio artistico.

J. Paul Getty (15.12.1892-6.6.1976) fu un imprenditore, collezionista e filantropo statunitense. Padrone della Getty Oil Company, nacque in una famiglia facoltosa, da un padre a sua volta protagonista dell’industria del petrolio. I suoi pozzi erano sparsi per tutto il mondo: passando per Texas, Canada, Arabia Saudita fino ad arrivare in Italia dove aveva possedimenti a Gaeta, Ravenna e Milazzo.

Proprietario della villa Odescalchi a Palo Laziale (oggi rinomato hotel di lusso “La posta Vecchia”) fu rapito dalla bellezza e dalla storia del bel paese, tanto da rubarne l’architettura per un suo progetto personale: La villa Getty.

Getty vedeva l’arte come una forma di civilizzazione della società e ne era profondamente affascinato. Decise perciò di creare un’istituzione finalizzata alla ricerca, alla mostra, alla conversazione, alla pubblicazione e all’educazione dei suoi connazionali di quelle che sono alcune delle opere più belle mai realizzate nella storia dell’uomo.

Nel 1953 diede vita al J.Paul Getty Museum Trust e l’anno successivo convertì la sua proprietà a Palisades in un museo. Nel 1968, memore delle antiche ville romane di cui si era innamorato in Italia, decise di allargare il suo ranch come una “Roman Villa” ad immagine della Villa dei Papiri di Ercolano. Solo 6 anni dopo aprì al pubblico.

Getty incontra la morte nel 1976, all’età di 83 anni, lasciando un patrimonio stimato di oltre 700 milioni al fondo, con l’onorevole obiettivo di: “Diffusion of Artistic and General knowledge”.

Nel 1984 venne stabilita la fondazione del museo che grazie all’eredità è diventato il più ricco al mondo (oltre 1,2 miliardi di dollari).

Alla fine degli anni ’80 il museo si espanse su una superficie di 110 acri sulle montagne di santa Monica e prese il nome di Getty Center. L’architetto designato per la mastodontica costruzione fu Richard Meier.

Finalmente il 16 dicembre del ’97, dopo anni di duro lavoro e modifiche, il secondo museo aprì le porte al pubblico.

La villa Getty, Palisades, LA

Ad oggi il museo contiene dipinti, disegni, sculture Romane, Greche ed Etrusche, codici e miniature, arti decorative Europee e fotografie Europee, Asiatiche e Americane.

Al suo interno, ad eccezione delle fotografie, non sono contenute opere d’arte moderna.

Numerose sono però le controversie che circondano l’attività del museo.

Nel 1983 vennero acquistati 144 manoscritti medioevali con miniature dal Ludwig Collection di Aquisgrana che si trovava in serie problematiche economiche; Un’indagine ha riguardato Marion True, curatrice del museo, per l’acquisto sospetto di una corona funeraria Macedone risalente a oltre 2500 anni fa e restituita alle autorità greche nel 2006; una causa con l’Italia per la restituzione di 52 opere trafugate tra cui L’atleta di Fano, conclusasi con un accordo di restituzione di 40 opere.

Il caso più controverso rimane però l’acquisto di un Kouros nel 1984 per 32 miliardi di lire, dichiarato un falso dallo storico Federico Zeri che è stato costretto a non mettere più piede sul suolo Americano.

Anche la figura dell’imprenditore rimane controversa.

Il nipote del noto magnate fu infatti rapito dall’ Ndrangheta e venne richiesto un riscatto di 2 milioni di lire che il vecchio si rifiutò di pagare. Solamente quando gli venne recapitato un orecchio mozzato decise di cedere.

Sembra finita qua, ma non è così. L’uomo chiese indietro l’intera somma al nipote, quasi fosse una sua responsabilità, e vi aggiunse un interesse del 4%.

Nonostante ciò il museo rimane un punto di riferimento della cultura antica su suolo americano e conta ogni anno migliaia di visitatori che differentemente non potrebbero ammirare le famose opere contenute al suo interno.
Ad oggi le opere sono diverse migliaia e tra esse troviamo capolavori come gli “Iris” di Van Gogh (1889), l’Atleta di Fano, il “Velo della Veronica” di Correggio (1521), “Sant’Andrea” di Masaccio (1426), “Venere e Adone” di Tiziano (1555-1560) e l'”Adorazione dei Magi” di Mantegna (1497-1500) e moltissimi altri.

Risulta di vitale importanza perciò, in questo periodo storico delicato in cui gli animi sono confusi e sembra non esserci una prospettiva equilibrata per il futuro, fare un passo indietro, ritornare ad apprezzare la bellezza che ci è stata data e che noi stessi abbiamo creato.

Per ammirarla. Per prendercene cura. E se non altro… per non perderla.

“Venere e Adone”, Tiziano, 1555-1560 ca.
“Iris”, Van Gogh, 1889
The rue Mosnier with Flags, Manet, 1878

Spring, Manet, 1881

Arii Matamoe (the Royal End), Gauguin, 1892

La promenade, Renoir, 1870

Il rapimento di Europa, Rembrandt, 1632

 The Grand Canal in Venice from Palazzo Flangini to Campo San Marcuola, Canaletto, 1738 ca.

Sunrise, Monet, 1873

Donne d’arte: Alessandra Izzo si racconta

Alessandra Izzo, By Francesco Escalar, Los Angeles

Correva l’anno 1982 quando allo Stadio San Paolo di Napoli, tra facce sudate e sguardi sognanti, si esibisce il più grande compositore moderno del ‘900: Frank Zappa.

Tra la folla urlante c’è una giovane donna, appassionata di musica e del baffo più famoso del mondo.

Alessandra Izzo nasce a Napoli e vive a Roma. Ho modo di incontrarla soltanto in videochiamata o al telefono, ma non ci impedisce di scoprire che abbiamo qualcosa in comune. 

È una donna forte Alessandra, un’artista. Della sua poliedricità ha fatto un mestiere e della sua passione la sua vita. 

Ci chiamiamo un venerdì mattina sotto una Milano uggiosa. La sento all’altro capo del telefono: un’esplosione di positività e gioia. Alessandra è così, un vulcano.

Mi racconta della sua vita e della sua passione per la musica, nata in seno alla famiglia. Già dall’infanzia si innamora di quest’arte. “Mia madre cantava” mi dice, “faceva concorsi.” Mi sembra naturale che il suo percorso abbia intrecciato legami e conoscenze con i grandi, anche se è stata la sua determinazione a portarla lontano.

Parliamo di Frank e della musica eclettica che ha creato, di come tutto è cominciato. Al tempo c’erano ancora i vinili con le loro sfolgoranti e magnifiche copertine. Si frequentavano i ragazzi più grandi che portavano i dischi, si ascoltava musica insieme. “Amavo gli Hippie” ricorda, e in quel periodo, gli anni ’70, rappresentavano l’estetica per eccellenza. Un amore nato prima su carta e poi riversatosi nella sua musica considerata da molti come un’innovazione, un’ode del grande guru.

Le chiedo quale sia il suo ricordo più bello con lui. Mi dice che è Viareggio, due anni dopo il loro primo incontro.

“Ha puntato il dito e ha detto “Eccoti, sei tu!”.”

Al tempo è poco più che maggiorenne, ma ricorda ancora l’intensità di quel momento, seguito da altri. Non parla di amore quando si riferisce a lui, ma di un’intensa connessione. A Frank piaceva molto l’Italia e amava le sue origini italiane. Insieme ridevano e avevano trovato dei punti in comune. 

Alessandra con l’allora fidanzato, Il principe Dado Ruspoli, al party di Rocco Barocco, Capri 1989.

Alessandra non è una groupie, ma una donna libera piena di dignità.

Ciononostante mi ritrovo a chiederle di loro, del loro mondo e di come erano viste. Mi dice che è un termine ormai considerato dispregiativo e di come al tempo la parola era odiata. Le vere groupie erano quelle a cavallo degli anni ’60-’70, ben prima della sua entrata nel mondo della musica. Molte donne hanno cavalcato l’onda del termine per potersi fare pubblicità, soprattutto all’estero. Per Alessandra si tratta di qualcosa di diverso, più profondo: dell’amore per la musica e per una band e della sua naturale evoluzione per il cantante. Questo amore si percepisce da come ne parla, dal modo in cui si accende al ricordo del passato. “Siamo donne che amano la musica, non c’è età, religione o colore della pelle.” 

Alessandra non è solo un’appassionata di musica. Giornalista, Corrispondente estera, Autrice teatrale, ha lavorato anche in Radio.

Ha fatto molto in un ambiente tosto, si è scontrata con il sessismo di quegli anni e con le sue limitazioni, ma ne è uscita vincitrice. Parla della luce nuova che risplende con il movimento del girl-power. Parla anche del suo libro, She Rocks!- giornaliste musicali raccontano (Volo Libero). “è dedicato in parte alle donne” e dà voce alle donne nel mondo della musica.

Alessandra, fotografie per la prima del libro su Frank Zappa

Le chiedo se pensa che il femminismo di oggi sia cambiato, si sia un po’ perso insieme alle libertà di un tempo. 

Ripercorre il periodo che ha vissuto con la forza di una leonessa. “Eravamo le ragazze del topless” esordisce, “Sembra di essere tornati indietro di mille anni, una come me si sentiva libera nella mia generazione” sottolinea. Chiacchieriamo ancora di limitazioni, di perbenismo, di politically correct e delle sue implicazioni. “C’era una grande libertà” incalza “che è durata negli anni ’80. Le cose sono cambiate negli ultimi 15 anni, noi facevamo militanza. Io sono felice di aver fatto quelle battaglie che mi hanno dato la libertà. Importa che noi donne siamo libere di fare quello che vogliamo.”

Mi ritrovo appassionata dalle sue parole, smuovono in me un sentimento di appartenenza. È un dono, mi sento capita dal suo flusso di pensiero e dal suo modo di vedere il mondo.

Mi parla del cinema, che ama profondamente, e della scrittura. Mi parla delle donne che ha amato nella sua vita: Monica Vitti, Valeria Golino, Jane Fonda, Julia Roberts e molte altre.

Ha passato vent’anni a scrivere di cinema nell’ufficio stampa di due importanti aziende del settore. Per lei era divertente lavorare, l’appassionava. Ama incontrare le persone, intervistarle ed avere un rapporto con loro. Il suo calore umano si sente anche a kilometri di distanza. 

Ha vissuto negli Stati Uniti, a Los Angeles, NY, Memphis, Nashville, Miami e mantiene un rapporto profondo con la California, la sua “chosen family”.

Stare al telefono con Alessandra porta una ventata di aria fresca. È spensierata, combattiva eppure estremamente radicata. Le sue storie sono coinvolgenti, ti rapiscono. La sua vita sembra un sogno ad occhi aperti, fatto di mille possibilità. Le chiedo se ci sono progetti futuri all’orizzonte, nell’ambito della scrittura o nell’ambito teatrale.

C’è un nuovo libro che ha in mente di scrivere su un personaggio che non è ancora riuscita a incontrare, ma specifica che ci tiene a vivere il rapporto con mano prima di parlarne. 

Prima di lasciarci discutiamo ancora un po’ della vita, dei sogni, delle ambizioni e dei cambiamenti. Parliamo di forza e di motivazione.

“La devi trovare, vai oltre, respira, non staccare mai la tua curiosità.”

Alessandra, fotografia scattata per un magazine Americano, 1989.

Instagram di Alessandra Izzo: https://www.instagram.com/alexizzo1/

Link per acquistare libro: https://www.amazon.it/She-rocks-Giornaliste-musicali-raccontano/dp/8832085135

Link per acquistare libro: https://www.amazon.it/Frank-resto-mondo-Alessandra-Izzo/dp/8897508812

Il giardino dell’Eden

Situato nella moderna Montecito si nasconde un paradiso naturale con una storia centenaria, animato da piante tropicali e subtropicali, piscine di loto e cactus che sembrano pungere il cielo.

Nel 1882 Ralph Kinton Stevens acquistò una proprietà che rinominò Tanglewood e utilizzò come casa di famiglia. Si trattava di un luogo molto grande che poteva ospitare tranquillamente diversi giardini. Alla sua morte la vedova trasformò la residenza in un ranch per ospiti per poi affittarla ad una scuola ed infine venderla nel 1913 a causa dei costi ingenti per il suo mantenimento.

Il nuovo acquirente, il vicino di casa, George Owen Knapp la tenne per soli 3 anni, prima di venderla ai Newyorkesi E. Palmer e Marie Gavit che la rinominarono Cuesta Linda. I coniugi ingaggiarono il famoso architetto Reginald Johnson per la costruzione dell’edificio principale, che completò negli anni ’20. Lo stile fu volutamente un richiamo alla Spagna e ai territori europei che tanto piacevano al tempo.

Fu solamente nel 1941 che la sorte volle cambiare lo status quo delle cose facendo arrivare la persona che avrebbe realizzato il capolavoro che ancora oggi si può ammirare.

La proprietà venne acquistata da una famosa ed eccentrica cantante lirica polacca, interessata alla botanica.

Madame Ganna Walska, 1957, circondata dalla sua iconica collezione di euforbie e cactus, courtesy of Ganna Walska Lotusland.

Ganna Walska, pseudonimo di Hanna Puacz (Brest-Litovsk 1887- 1984) nacque povera, ma questo non le impedì di diventare una delle più celebri socialite del XX secolo.

Hanna si trasferì a San Pietroburgo con lo zio a seguito della morte della madre, avvenuta quando era solo un’adolescente. Qui cominciò gli studi di musica e assunse il nome d’arte che la rese celebre in tutto il mondo. Per i successivi due decenni si esibì come cantante lirica tra New York e Parigi e fece diversi tour in Europa e America.

A detta di molti fu grazie alla mastodontica pubblicità che le fece il marito Harold McCormick, sposato nel 1922 e molto ricco, che riuscì a cavarsela. Divenne allieva di Cècile Gilly che però dichiarò che Ganna non fosse portata per la musica. In molti, a dispetto di quello che sosteneva lei stessa, dissero che a cantare fosse terribile, ma questo non la fece desistere in nessun modo, anzi la spinse ancora di più ad esplorare la sua vena artistica.

Intelligente, sofisticata e molto attenta al denaro, divenne ben presto popolare nelle élite più in voga (e molto chiacchierata dai tabloid!) e a detta di Charles Wagner nel 1928:

“Aveva Qualcosa che teneva destava la loro attenzione, che faceva drizzare le orecchie se veniva nominata”.

Ganna Waska in costume, Bettmann, Getty Images

Capelli corvini, anticonformismo, acume e bellezza la fecero padrona delle mode e degli sguardi di numerosi scapoli ricchi con cui spesso aveva flirt.

Ben presto Ganna, dall’animo curioso e anticipatore delle mode, abbandonò la religione cattolica per darsi al misticismo orientale e allo yoga. Si sposò sei volte, di cui 4 con uomini facoltosi e una con un maestro yogi.

Fu proprio grazie alle pratiche orientali e al matrimonio con Theos Bernard che la sua strada incrociò i 37 acri di Cuesta Linda che comprò e che cominciò ad alimentare in un turbinio di colori e fantasie.

L’idea che abbracciò inizialmente fu quella di creare un luogo per i ritiri spirituali, dove si potessero studiare le Sacre Scritture tramite i Lama Tibetani. Il nome scelto fu Tibetland, a richiamare il suo profondo amore per l’Oriente. 

Per la modernizzazione del giardino venne assunto l’architetto Lockwood de Forest Jr. e nel 1942 la conformazione venne rinnovata una seconda volta, introducendo numerosi cactus, i più famosi protagonisti di tutti i 15 ettari.

Ganna Waska Lotusland, source unknown.

Furono avviati diversi progetti di miglioria operati da Ralph Stevens, figlio del proprietario originale, che progettò i cancelli in ferro sulla Sycamore Canyon Road, la Piscina e la Spiaggia di Conchiglie, la Grotta, Il Teatro e i Giardini Blu dedicati alle piante a foglia glauca, come la Palma Blu del Messico e numerose Agavi.

Il progetto di Tibetland come ritrovo spirituale libero non vide mai la luce a causa dello scoppio della II guerra mondiale. Ganna tuttavia non si fermò, nemmeno quando il marito le chiese l’ennesimo divorzio. Rinominò l’oasi Lotusland in onore del Loto Sacro che cresceva in una delle numerose vasche che coloravano il paesaggio.

Ganna Walska nella piscina del Loto, source unknown.

Fu in questi anni che la donna si reinventò completamente. Secondo la filosofia del massimalismo e spinta da un forte carisma e molta creatività, cominciò a dare vita a qualcosa di straordinario, combinando conoscenze botaniche e artistiche e facendosi aiutare dai migliori dell’epoca. 

Lotusland, source unknown.

Nel ’58 l’artista locale Joseph Knowles Sr. venne ingaggiato per modificare la Piscina nel Giardino Aloe, aggiungendo Conchiglie di Abalone sul bordo e creando suggestive Fontane di Corallo.

Negli anni ’70 venne aggiunto un Giardino Giapponese all’imponente struttura, ormai carica di ornamenti naturali provenienti da ogni parte della terra, alcuni rarissimi o estinti, e allestiti con una vena teatrale e audace.

Veduta aerea del Topiary Garden, dedicato allo stile anti-naturalistico dell’ars topiaria risalente agli antichi romani, dal libro “Lotusland” (Marc Appleton, Rizzoli New York), Lisa Romerein.

Quello che ne uscì fu un paradiso tropicale, un luogo mistico ai limiti del terreno, con oltre migliaia di specie diverse combinate in un insieme eclettico e paradisiaco. Walka realizzò un giardino eccentrico che secondo Marc Appleton, autore del libro Lotusland (Rizzoli, New York)

“sfugge a ogni ordine tradizionale e a ogni logica”.

Per finanziare le ingenti spese che il giardino le richiedeva, Ganna mise all’asta la sua collezione di gioielli tra cui i suoi stimatissimi Fabergè. L’asta, tenuta da Sotheby’s, vide protagoniste diverse gemme dalla preziosità incommensurabile tra cui un diamante briolette da novantacinque carati, una rara selezione di gioielli indiani, collane Cartier e uno smeraldo intagliato Mogul.

La sua mastodontica opera botanica continuò fino alla sua morte, avvenuta il 2 marzo 1984.

La lavorazione dell’oasi naturale continua tuttora come da volere della proprietaria e il suo ingente patrimonio di vestiti (tra cui pezzi di Ertè e delle Callot Soeurs) sono esposti al Los Angeles County Museum of Art.

A detta di Marc Appleton:

“La sua eredità più duratura si è rivelata essere non sul palco, bensì nella terra”

Ganna Walska in her garden, courtesy of Ganna Walska Lotusland.

Per saperne di più: https://www.ad-italia.it/gallery/giardino-botanico-ganna-walska-libro-lotusland/

Altro: https://www.messynessychic.com/2018/04/24/the-diva-who-grew-her-own-exotic-kingdom/

Il sito ufficiale: https://www.lotusland.org/about/madame-ganna-walska/

Il libro: https://www.amazon.it/Lotusland-Botanical-Paradise-Marc-Appleton/dp/084786989X/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&crid=20T2LE6GXVHFG&dib=eyJ2IjoiMSJ9.uyyH53a5nnILCSF34fnMUfi5u5qKuC0sp1TtbACx6WXDevSrLiRs0BRwCKMJlrgFniCpEctqvTWDzJ0fViLfJL2SvVeOS0cfcbrU_Gxz38Ge-ZvWI4qJD59o4e4FYFq6svxXJerGTzOYZwtJ7eXloHplnS0TB9LOk-J5EHGcYJKoKnd5-9wVFHi5WGC5MLDq4ILgI0p-OPxFI4iHd0O26sawkAM0cT03tB2Yszk6-hrnvf0fuFmKFJpA78LtVufpWRJidcdDHDH4XGQcOpCF0N7dOs3xp80DVeuM5356hxI.j7xsI2tvfEctdVb6qhkLWNJ7QN8iEnwJVudbAJTFi9w&dib_tag=se&keywords=lotusland&qid=1729616874&sprefix=lotusland%2Caps%2C91&sr=8-1

Instagram ufficiale: https://www.instagram.com/lotusland_gannawalska/

Il Victoria’s Secret Fashion Show di cui (forse) non avevamo bisogno

Martedi 15 Ottobre 2024 si è tenuto il nuovo famosissimo show nella grande mela. Tra gli ospiti vecchi angeli illustri che hanno fatto la storia del brand – ma non solo- e nuovi volti con buoni propositi e tanta curiosità.

Sulla scia delle edizioni passate (e che edizioni!) il Victoria’s Secret Fashion Show 2024 ha dichiarato di impegnarsi in un tema attuale di vitale importanza: l’inclusività.

Ma al di là delle buone intenzioni (con un pizzico o più di marketing vista la situazione disastrosa in cui verte il brand), non è riuscito a stimolare la fantasia dello spettatore come faceva nel suo passato illustre.

Abituate com’eravamo a vedere modelle uscire da giochi di ombre, scatole regalo natalizie, su note coinvolgenti e sexy, questo nuovo spettacolo ha avuto pochissimo a che fare con le stravaganze del passato, con i glitter delle edizioni in cui Taylor Swift dominava la passerella, con il mistero creato dalla chiusura della sfilata operata da Rihanna.

Ci troviamo nella mitica New York, una passerella lunga e colorata di rosa – il classico colore del brand- con una Gigi Hadid che apre lo show sulle musiche di Lisa, con poca convinzione e una camminata traballante che ha poco a che fare con l’alta moda di cui è abituata. La prima sfilata, all’insegna del tipico colore, viene chiusa da una Adriana Lima decisamente cambiata da piccole e studiate iniezioni al viso, ben lontana dal look fresco che portava in passerella nei tempi d’oro della sua carriera.

Il secondo momento, coronato da una straordinaria Tyla, si popola di bianco e vede alcune storiche modelle ricalcare le orme del passato. Una Candice sempre straordinaria, anche se decisamente nervosa, una bellissima Barbara, che con il corpo a pera che ha poteva benissimo essere valorizzata da lingerie studiata ad hoc invece che dal vestito lungo e coprente che ne ha mascherato la fisicità tonica e sana.

La terza sfilata vede come protagonista assoluta una Kate Moss fiacca che apre le danze con poca verve e coinvolgimento. Una storica Behati anch’essa coperta da un abito lungo, una Irina che riesce a risollevare il ritmo della narrazione.

Ritorna quindi Lisa con una melodia dai toni più soavi, e qui vediamo diverse modelle Plus size calcare la passerella portando avanti la nuova concezione inclusiva del brand. Ad aprire, una non proprio in forma Ashley Graham, decisamente oltre il concetto di plus size abbracciato dall’azienda. In questo pezzo emergono anche volti storici come Eva Herzigova e Carla Bruni a fare da padroni a completini di pizzo nero e vene più sensuali e mature.

È ora la volta della performance più attesa: Una Cher che pare in forma, sul pezzo, ma che si riduce a cantare in playback mentre un coro di ballerini le fa da sfondo per creare movimento. Apre quindi la sezione rossa, che vede ancora una volta protagonista l’italiana Vittoria Ceretti ed infine l’attesissima – e segretissima- Bella Hadid a chiusura dello spezzone. Una mossa geniale, considerata la portata di questa top model, nominata la modella del decennio, con alle spalle collaborazioni che hanno fatto la storia delle passerelle. 

Prima dell’atto finale, ecco emergere dal pavimento una Tyra Banks, l’unica forse in tutta la sfilata, ad avere la grinta necessaria a portare avanti una camminata su passerella. La vera plus size, dai tempi passati degli storici show in giro per il mondo, riesce a strappare un sorriso e un che di ammirazione. In forma smagliante, con un corpo proprio che va oltre i canoni estetici portati avanti dalla Heroin chic degli anni ’90, regala una performance che vale tutto lo show. 

Di fronte a questo cosa pensa il pubblico? A leggere i commenti americani nessuno aveva bisogno di questo show. A tratti sconnesso, poco entusiasmante, con artisti di un livello inferiore a ciò a cui eravamo abituati, lascia desiderare anche nel design delle ali e della lingerie. Lo sfondo della sfilata, senza alcun tipo di gioco di luci, colori, animazione, rende tutto piatto, statico, una performance che non coinvolge e soprattutto non convince. Le modelle, a tratti atletiche e dai fisici sani, portavoci di uno stile di vita fatto a favore del benessere, vengono mischiate a fisici decisamente scarni, poco salutari, o in certi casi troppo in carne, promuovendo ancora una volta una narrazione dell’eccesso. Non c’è via di mezzo. Troppo magre o troppo grasse. Viene da chiedersi dove siano finiti i modelli dell’antica Grecia: un corpo tonico -ognuno con le sue caratteristiche e peculiarità- portato al miglioramento perché ci si vuole bene e ci si prende cura di sé. 

Nel 2024 abbiamo davvero bisogno di questo messaggio impoverito, ancora una volta ai limiti? Non eravamo troppo magre allora e non siamo troppo grasse adesso

Forse l’inclusività non è abbracciare ogni eccesso come se fosse la normalità, mapromuovere uno stile di vita sano, uno stile di vita sportivo dove l’indulgenza di un cheeseburger o due va a braccetto con frutta e verdura, dove bere una bibita o una birra non significa abusarne, dove non c’è spazio per droghe, Ozempic, o due dita in gola, ma solo la buona volontà di fare qualcosa per sé stesse perché è molto più remunerativo e soddisfacente.

Nel complesso lo show regala momenti indimenticabili, soprattutto con le “veterane” di questa passerella, ma in ultimo rimane una mossa di marketing deludente e sotto le righe. 

Ci aspettiamo ancora una Adriana Lima che entra da una porta gigantesca con ali nere, Una Gisele vestita da regalo di Natale, Una Tyra che sulle note di Bang Bang di Nancy Sinatra popola l’immaginario femminile dell’erotismo e della sensualità, tutte cose ben lontane dal Victoria’s Secret Fashion Show 2024.

Breve Compendio di mare e di conchiglie

Da sempre ricca di fascino, la conchiglia incarna una serie di significati variegati e legati perlopiù al mondo delle emozioni e dell’inconscio.

Portatrice di bellezza raggiunge l’apice della perfezione nella sua struttura equilibrata e matematica, fonte di ispirazione per artisti e studiosi di ogni epoca.

Rinascita, fecondità, profondità di animo, mistero, femminilità, amore sono solo alcuni dei significati che le sono stati attribuiti nel corso dei secoli. Non resta che meravigliarsi di fronte alla bellezza di questa creazione ricalcata nell’arte di molti.

Home of Pierre Le Tan as seen by Duncan Grant featuring a grotto chair and a seventeen century Venice console. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Portrait of a lady in an allegorical guise, holding a dish of pearls, Pierre Mignard I. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Ancient Egyptian gold cosmetics vessels. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Syrinx Aruanus. Photo from 1950. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Detail from Persia and Andromeda, Joachim Wtewael, 1911. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Nautilus Cup, Holbein Bowl, Glass Goblet and Fruit Dish, detail, Willem Kalf, 1678. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Casa Nautilus, Città del Messico.

Wedgwood collection of pearlware shell plates. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

L’artista tra genio e pazzia

Tra tutti gli artisti del ‘900 uno in particolare conquistò l’interesse di André Breton che arrivò a studiarne la personalità e la produzione.

Adolf Wölfli (Bowli 29.02.1864- Berna 06.11.1930) fu l’esempio vivente del rapporto viscerale tra genio e follia.

General View of the Island Neveranger, Adolf Wölfli, 1911

Nato in una famiglia contadina povera, ultimo di sette fratelli, sin dall’infanzia incontra terribili difficoltà. Il padre, alcolizzato, finisce in prigione e abbandona la famiglia quando Adolf ha soli 6 anni. La madre, lavandaia, non può permettersi di mantenere sette figli così, nel 1873, il piccolo Adolf viene venduto come bracciante.

Alla morte della madre, insorta l’anno dopo, Adolf viene affidato a diverse famiglie che spesso lo maltrattano e abusano di lui.

Responsabile di diversi tentativi di stupro (alcuni ai danni di bambine di 3 e 5 anni) finisce nel manicomio Waldau nel 1895.

Qui la diagnosi di schizofrenia sembra chiarire la condizione dell’uomo che spesso è fortemente agitato, violento e sente le voci.

Nei 35 anni trascorsi all’interno della struttura, passa la totalità del tempo a disegnare e realizzare una biografia monumentale di oltre 25mila pagine.

Il disegno, incoraggiato anche dai terapeuti e dallo psichiatra responsabile, Walter Morgenthaler, sembra calmarlo e dargli un obiettivo di vita che prende seriamente a cuore e che persegue facendosi mettere spesso in isolamento per avere la concentrazione adatta a immergersi nel suo personalissimo mondo.

Irren Anstalt Brand Hain, Adolf Wölfli, 1910

Adolf prende spunto da ogni cosa: riviste, atlanti, cartoline, libri… reinventa la sua vita, il suo passato e il suo futuro nell’ottica, un po’ infantile, di un mondo altro, immaginario, in cui lui stesso è il protagonista unico e assoluto.

Crea parole, immagini, disegni, collage, spartiti musicali che diligentemente assembla nella sua biografia chiamata “Leggenda di Sant’Adolfo”.

Inizialmente scrive con lo pseudonimo di Doufi, nomignolo di quando era bambino, successivamente adotta il nome d’arte di St. Adolf II, protagonista di una battaglia cosmica creata dalla sua mente geniale.

London North, Adolf Wölfli, 1910

Adolf viene studiato per tutta la sua vita. Il dottor Morgenthaler ne scrive una biografia nel 1921, attribuendo al paziente un’abilità artistica innata, forse germogliata proprio in seno alla malattia, mentre Freud ne rimane affascinato.

Wölfi era incolto anche se alcune fonti riferiscono che avesse avuto un umile approccio scolastico finendo i primi anni di scuola. Sicuramente inesperto d’arte, divenne nel corso dei decenni uno dei principali esponenti dell’Art Brut, avvicinandosi alle neoavanguardie del ‘900.

Holy St. Adolf Tower, Adolf Wölfli, 1919

La sua opera è caratterizzata da un estremo ornamento, spesso incorniciato, in cui ritrae con diverse tecniche la realtà. La ripetizione è la chiave del suo lavoro e si mostra meticolosa anche se a tratti infantile, mancando un vero e proprio apporto prospettico alle opere. Dettagli, ghirigori e simboli sono fortemente presenti nell’opera di Wölfi e contribuiscono a creare il mondo immaginario dello stesso artista.

Pioniere rispetto ai tempi in cui viveva, Adolf utilizza la fotografia della lattina di zuppa di pomodoro Campbell nel 1929, Andy Warhol farà lo stesso solo trent’anni dopo.

Campbell’s Tomato Soup, Adolf Wölfli, 1929

Alla sua morte, avvenuta a causa di un tumore allo stomaco, Wölfi viene dimenticato.

Riscoperto da Jean Dubuffet nel 1945, ritorna in auge e viene esposto nel 1972.

Di lui ci rimangono 1300 disegni, quaderni scritti in parole e musica e 25mila pagine di biografia (i cui quaderni raggiungono l’altezza di oltre due metri!).

La sua storia, intrecciata con le vicende personali difficili, violente e illegali, sembra sottolineare uno stretto rapporto tra l’atto creativo e le facoltà mentali.

In quest’ottica Adolf Wölfi rappresenta in tutto e per tutto l’epiteto del genio folle, della visione creativa che nasce e si nutre della pazzia e dei disturbi mentali e che tuttavia rimane una caratteristica innata propria dell’individuo che ancora ci meraviglia e ci stupisce, nascosta nell’intricato mistero della mente umana.

La sua arte è esposta al museo des Beaux-Arts di Berna. Qui il link: https://www.adolfwoelfli.ch

OZ: the revolution

La storia di Oz è una storia che abbraccia un decennio e che ha coinvolto personalità del mondo della musica, dell’arte e della letteratura underground.

Issue three: the Mona Lisa cover. Photograph: University of Wollongong Archives

Durante gli anni ’60 erano molte le riviste eclettiche che popolavano il panorama underground: Friends, The Oracle of Southern California, Wendingen e molte altre. Tra queste spiccava però la rivista “OZ”, nata dalle menti geniali di Richard Neville, caporedattore, Richard Walsh e Martin Sharp, il direttore artistico.

Ci troviamo nell’Australia del 1963, un paese benpensante in cui la mentalità alternativa e controcorrente rappresentava ancora un problema per la società.

In questo contesto rigido nasceva però un filone del dissenso, della provocazione e della satira: nasceva OZ.

The first issue of British OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Lo staff era composto principalmente da personaggi del mondo dell’arte e della letteratura quali Robert Hughes e Bob Ellis.

Il primo numero fu lanciato il giorno del pesce d’Aprile del 1963. Con un totale di sole 16 pagine e 6000 copie portava in copertina la notizia fasulla del crollo del The Sydney Harbour Bridge e al suo interno la storia della cintura di castità e un racconto veritiero sull’aborto (ancora illegale al tempo).

L’uscita del primo numero fece tale scalpore che il Daily Mirror cancellò il contratto con la rivista e minacciò di licenziamento Peter Grose, uno dei suoi dipendenti che collaborava con la rivista.

In quel primo anno OZ ricevette la sua prima denuncia per oscenità. Il direttore e i collaboratori si dichiararono colpevoli evitando la pena detentiva ma nel 1964 una seconda denuncia li costrinse ai lavori forzati.

I temi che avevano introdotto erano visti in maniera negativa. La censura, l’odio, il sesso, la brutalità della polizia, il razzismo, la guerra in Vietnam e la ridicolizzazione delle istituzioni rappresentavano una provocazione alla mentalità chiusa del tempo, che non voleva saperne di tutto ciò che la rivoluzione hippy stava portando alla luce.

Sharp e Neville decisero di partire nel 1966. La meta designata era Londra, dove le tematiche erano sentite maggiormente dai giovani e dove, grazie alla stampa offset, era possibile arricchire la rivista in bellezza.

La nuova versione inglese fu fondata quello stesso anno in uno scantinato di Notting Hill arredato con oggetti di culto e poster psichedelici. Tra i fondatori comparve anche Jim Anderson.

Richard Neville (left) and later editors, Felix Dennis, and Jim Anderson, at the close of the trial, 1971.  JONES/DAILY EXPRESS/GETTY IMAGES

Nel numero 11 della rivista vennero introdotti adesivi psichedelici rossi, verdi e gialli, nonché disegni alternativi e provocanti.

Il numero 16, chiamato Magic Theatre, pubblicato nel novembre 1968, era composto da sola grafica realizzata dalla mente di Sharp e Philippe Mora e venne definito “Il più grande successo della stampa alternativa britannica”.

La rivista raccolse consensi tra varie personalità, inclusi John Lennon e Yoko Ono nonché Mick Jagger e vi comparvero interviste di Pete Townsend, Jimmy Page e Andy Warhol.

Nel 1970 i fondatori decisero di fare un numero curato da bambini selezionati e venne chiamato Schoolkids OZ.

I bambini vennero prima interrogati sulle loro opinioni in educazione, politica e società, nonché su sesso, droga e rock ‘n’ roll.

Il numero 28, che vendette poche copie, presentava una parodia di sesso esplicito di Rupert The Bear, voluta proprio da uno dei piccoli scrittori e causò un dissenso tale da provocare il più grande scandalo per oscenità di tutta l’Inghilterra.

The teenage contributors to the 28th issue of OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Schoolkids OZ, numero 28, 1970.

A cropped section of the cover of the 28th issue of OZ magazine, which features blue women in the nude.

I tre principali autori vennero considerati i responsabili di tutto quanto fosse riportato in quel numero, sebbene fossero stati dei minorenni a scriverlo, e vennero accusati di oscenità e oltraggio al pudore, nonché cospirazione atta alla corruzione della morale pubblica, capi d’accusa che prevedevano il carcere.

L’opinione pubblica si spezzò. Alcuni credevano che la rivista provocasse una deviazione morale non indifferente e che il numero 28 in particolare potesse portare all’omosessualità i giovani e causare dei gravi problemi psicologici; altri, come Lennon e Ono, lo difesero a spada tratta, fino a registrare una canzone intitolata God Save OZ e poi cambiata in God Save Us per raccogliere fondi.

Il Times of London dichiarò di aver ricevuto più lettere sul processo che sulla crisi di Suez e un’effige del giudice venne bruciata davanti alle aule del tribunale in segno di protesta.

I tre furono scagionati dall’accusa di cospirazione, ma ritenuti responsabili di due reati minori per cui era previsto il carcere. Qui gli vennero tagliati i capelli lunghi, causando ulteriori proteste da parte della comunità underground e hippy della Swinging London.

Oz Obscenity Trial Invitation issued by editors of Oz Magazine, 1 October, 1971. © Victoria and Albert Museum, London

Nella storia orale di Jonathan Green, Neville dichiarò in merito alla nascita della rivista:

“I sensed there was a substratum of genuine irritation with the society. There was no access to rock ‘n’ roll, pirate radio had gone, women couldn’t get abortions. This again was something which seem like another piece of repressive puritical behavior that one wanted to fight”.

La passione di Neville però si stava spegnendo:

“Mi sembrò che stessi diventando sempre più propagandista, non più l’autore di una rivista che provava a offrire una piattaforma per scrittori e fumettisti.”

Alla revisione del processo i tre vennero rilasciati definitivamente.

La rivista chiuse i battenti nel 1973 con il numero 48. La causa ufficiale fu la bancarotta.

Gli scrittori e i collaboratori erano poco pagati- o per nulla- e non giravano molti soldi a causa dello scarso numero di copie vendute (circa 30000) anche se i lettori effettivi erano molti di più.

Dennis, uno dei collaboratori, ormai divenuto miliardario nel mondo editoriale, dichiarò riferendosi alla figura carismatica di Neville:

” No one else would avere have managed to get me working for nothing.”

La fine della rivista rappresentò la fine di un momento storico nato in seno agli anni ’60 e fortemente voluto dai giovani del tempo che non si rispecchiavano nelle visioni più conservative.

OZ, V&A archives

Diary of Felix Dennis for the period of 14 – 27 December, 1970 covering police raid on Oz offices. © Victoria and Albert Museum, London
Guest editors of Oz #28 – School Kids Issue, 1970. © Victoria and Albert Museum, London

Una frase rimase emblematica all’interno della rivista:

“TAKE THE PLUNGE! commit a revolutionary act. Subscribe to OZ”

Ad oggi è possibile trovare i numeri della rivista in questo archivio: https://ro.uow.edu.au/ozsydney/

Altri articoli sul tema: https://canal-mag.com/l-incredibile-oz-mitico-magazine-australiano/ https://www.atlasobscura.com/articles/oz-magazine-obscenity-trial https://www.anothermanmag.com/life-culture/9936/why-oz-was-the-most-controversial-magazine-of-the-1960s

https://www.messynessychic.com/2020/05/07/that-1960s-revolution-of-underground-press-is-still-alive-well/

Isadora Duncan: la sacerdotessa della danza moderna

If we seek the real source of the dance, if we go to nature, we find the dance of the future is the dance of the past, the dance of Eternity, and has been and always will be the same.

The movement of waves, of winds, of the Earth is ever the same lasting Harmony”

The Art of Dance, p. 54

Duncan Isadora, portrait photograph, Genthe Arnold between 1916-1918. Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Isadora Duncan nasce a San Francisco il 27 maggio 1877. Ultima di quattro figli, cresce in un contesto fortemente artistico voluto dalla mamma Irlandese e dal padre Scozzese che li abbandona quando Isadora ha un paio di anni.

Il padre, un banchiere, era amante della cultura Greca e aveva scritto un poema intitolato “Intaglio: Lines on Beautiful Greek Antique” che Isadora prende a cuore e da cui inizia a conoscere la cultura Greca che diventerà il perno fondante tutta la sua filosofia di vita.

Nel 1899, poco più che ventenne, arriva a Londra con la famiglia. Qui passa le sue giornate al British Museum per i primi quattro mesi di soggiorno. L’appuntamento quotidiano serviva ad alimentare la sua curiosità e la sua ispirazione, nonché la sua mente colta e raffinata per la storia.

Trasferitasi a Parigi qualche anno dopo, si immerge nelle sale del Louvre, dove scopre inestimabili tesori Greci che diventano la salda e principale ispirazione per i suoi movimenti, poi fotografati dal fratello Raymond.

Isadora Duncan, Unknown.

Fondatrice di un movimento artistico a tutti gli effetti, tiene le prime esibizioni in terra natia, dove ottiene scarso successo. In Europa, al contrario, viene apprezzata come una visionaria della danza e portavoce di uno stilema innovativo e unico.

Isadora Duncan dancing, Genthe Arnold, between 1916-1942 from a negative taken between 1916-1918.  Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Il suo messaggio voleva essere controcorrente rispetto al rigore accademico che vigeva in quegli anni nel mondo del balletto, contornato da costumi stretti e scarpette da punta.

Isadora utilizza abiti semplici e leggeri, molto simili ai pepli greci e danza a piedi nudi, con i capelli sciolti, un’assoluta novità nel panorama di quegli anni.

Il suo metodo è basato sulla creazione di Danze Libere: improvvisazioni emotive suscitate dalla musica di artisti quali Chopin, Beethoven e Gluck.

Fondamentale il sentimento alla base del movimento e la forza della musica.

Le sue idee nascono in seno alla tradizione antica Greca, per cui lei ha sviluppato con gli anni una totale ossessione.

“To bring to life again, the ancient ideal! I do not mean to say, copy it, imitate it; but to breathe its life, to recreate it in one’s self, with personal inspiration: to start from its beauty and then go toward the future”

The Art of Dance, p.96

Isadora Duncan Dancer, Genthe Arnold, between 1915-1923. Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Nel 1903 tiene un convegno a Berlino, il tema è la danza del futuro e da molti sarà visto come il Manifesto della Danza Moderna.

Nel 1904 fa una tournée a San Pietroburgo, dove influenza fortemente la compagnia dei Balletti Russi.

Fonda diverse scuole in Europa e in Russia, dove porta avanti il suo metodo basato sulla ricerca del movimento libero e naturale.

Isadora Duncan dancer, Genthe Arnold, between 1916-1918. Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Isadora è anche pioniera di una nuova visione della donna. Staccatesi dai corpetti stretti a seguito della prima guerra mondiale, le donne volevano dare spazio alla propria fisicità senza costrizioni di genere. Isadora diviene un punto di riferimento per la rivoluzione di costume di quegli anni e la sua libertà spaziò molto anche nell’ambito del matrimonio, fino ad allora considerato sacro e imperituro.

Isadora infatti si sposa tre volte. Dalla prima relazione con Edward Gordon Graig nasce la figlia Deirdre. Dal secondo matrimonio con Paris Eugene Singer, il fondatore dell’omonima azienda di macchine da cucire, nasce il figlio Patrick.

Nel 1913 però la tragedia la colpisce in maniera dura e inaspettata.

Durante una passeggiata in auto sulla Senna, l’auto che trasportava i figlioletti e la governante si guastò. Il conducente scese per cercare di avviare il motore a manovella, ma dimenticò di inserire il freno a mano e l’auto scivolò nel fiume.

L’anno dopo, da una breve relazione con un Italiano, dà alla luce un terzo figlio, che muore poco dopo il parto.

Presa dalla disperazione per il lutto, Isadora si dà all’alcol e smette di praticare come un tempo.

Gli amici fanno da scudo attorno a lei e se ne prendono cura. In particolare Eleonora Duse, che la ospita a Viareggio per diversi mesi.

Successivamente si sposa una terza volta con il Russo Sergey Esenin, di diciotto anni più giovane, che non parlava una singola parola di inglese. Isadora sapeva poche parole di russo e il matrimonio dura solo 15 mesi a causa del carattere turbolento del compagno, dedito alle scenate a causa dell’abuso di alcol. Esenin la lascia e due anni dopo si suicida.

Con fatica Duncan riprende la forza di danzare e di occuparsi delle sue allieve, chiamate le “Isadorables”, e della sua attività.

La nuova tournée americana è un nuovo fiasco e le vengono mosse pesanti critiche sul suo aspetto fisico, compromesso dall’abuso di alcol e dalla depressione.

Trascorre gli ultimi due anni della sua vita tra Nizza e Parigi.

Il 14 Settembre 1927, Benoit Falchetto, un amico e amante di Isadora, passa a prenderla con la sua Bugatti Type 35 ad un ristorante sulla Promenade Anglais a Nizza.

Isadora indossa una lunga sciarpa a frange che lascia volare libera al vento.

Prima che la macchina parta, saluta gli amici, alcuni dicono con la frase ” Adieu, mes Amis. Je vais à la glorie!”, altri dicono con “Je vais à l’amour!”.

Subito dopo accade l’inverosimile: la sciarpa si impiglia nei raggi della ruota dell’auto, spezzandole l’osso del collo di netto.

La fine tragica di Isadora afflisse tutto il panorama artistico di quegli anni, compresa Gertrude Stein.

Rimane tutt’oggi una delle più grandi artiste del panorama del balletto, una mente vivace, introspettiva, pronta al contatto con la natura e al contatto con il proprio sè. Pioniera di una rivoluzione del movimento che continuerà per tutto il novecento, riportò in auge l’antichità classica conferendole un valore inestimabile.

“The true dance is expression of serenity. it is controlled by the profound rhythm of inner emotion. emotion does not reach the moment of frenzy out of a spurt of action. it broods first, it sleeps like the life in the seed, and it unfolds with a gentle slowness.

The Greek understood the continuing beauty of a movement that mounted, that spread, that ended with a promise of rebirth.

The Dance- it is the rhythm of all that dies in order to live again; it is the eternal rising of the sun.”

The Art of Dance, p.99

The World of Tomorrow

Era il 1939 quando al Flushing Meadows-Corona Park nel Queens (NY) veniva organizzata la seconda fiera americana più cara di sempre, con un costo di oltre 67 milioni di dollari.

Ma facciamo un passo indietro.

Nel 1935, ancora in ballo nella Grande Depressione, diversi businessmen NewYorkesi decisero di fondare la New York World’s Fair Corporation, con uffici ai piani alti dell’Empire State Building.

Il presidente eletto fu Grover Whalen, politico e uomo di affari, e tra i partecipanti alla corporazione vi era anche il Sindaco Fiorello la Guardia che rimase in carica fino al ’46.

L’obiettivo di questi imprenditori e uomini d’affari era quello di portare una ventata di fresca economia a New York favorendo il commercio e lo scambio internazionale.

La Corporation decise quindi di inaugurare una fiera aprendo i cancelli il giorno del 150° anniversario dell’inaugurazione di George Washington come presidente degli Stati Uniti e chiamandola “The World of Tomorrow”.

Si trattava di un evento di portata stratosferica, il più importante in maniera indiscussa dalla prima guerra mondiale.

Il presidente Whalen aveva idee precise in merito alla tematica della fiera: i beni di consumo. Emblematica fu l’introduzione della televisione come oggetto ormai alla portata di tutti.

Per farsi pubblicità utilizzarono delle fasce disposte sul braccio sinistro degli atleti dei Brooklyn Dodgers, NY Giants e NY Yankees, oltre alla sponsorizzazione in giro per il mondo operata da Howard Hughes con il suo aereo.

L’apertura ufficiale fu fissata il 30 aprile 1939, una domenica nuvolosa. Solo il primo giorno arrivarono ai cancelli 206mila persone.

Diverse personalità presenziarono con discorsi di varia natura. Da Roosevelt ad Einstein, per passare a diverse star del cinema.

All’interno erano presenti diversi padiglioni provenienti da tutte le parti del mondo e dal design diverso e innovativo.

7 erano le zone tematiche, diverse architettonicamente, alcune costruite in maniera semicircolare attorno al centro realizzato da W. Harrison e M. Abramovitz che consisteva in due bianchi edifici chiamati Trylon e Perisphere ( all’interno di quest’ultimo vi era un modellino della città del futuro).

Il padiglione italiano, costato oltre 3 milioni, era caratterizzato da uno stile romano integrato con l’architettura più moderna. Una fontana alta 61 metri ne coronava l’entrata ed era dedicata a Guglielmo Marconi. Nella Hall of Nations il pavimento a mosaico circondava una statua della Lupa, madre di Romolo, tutt’intorno sulle pareti vi erano raffigurazioni dell’impero moderno realizzate in marmo nero e stucco romano bianco. Al centro della Hall troneggiava una statua in bronzo di Benito Mussolini realizzata da Romano Romanelli.

Il famoso ristorante italiano ospitato nel padiglione aveva invece l’aspetto di una lussuosa nave da crociera per mimare la tradizione italiana.

Tra gli altri luoghi di interesse c’era sicuramente la Westinghouse Time Capsule, destinata ad essere aperta solamente nel 6939 e contenente scritti di Einstein, Mann, copie di Life Magazine, un orologio di Mickey Mouse, un rasoio Gillette, un dollaro, un pacchetto di sigarette Camel, semi di varie specie tra cui cotone, soia, carota e tabacco e molto altro.

Nella Westinghouse era presente anche “Elektro the Moto Man”. Si trattava di un robot alto 2,1 metri in grado di parlare e fumare.

A sud della fiera c’era il World’s Fair Boulevard con l’area Amusement, decisamente la preferita dai visitatori. Qui potevano intrattenersi su montagne russe, attrazioni di varia natura come una torre da cui paracadutarsi e repliche di vari luoghi naturali come le Victoria Falls. In questa zona vi erano anche esibizioni di uccelli e animali rari, un orangotango addomesticato, tre elefanti performanti e la possibilità di fare dei brevi viaggi sul dorso dei cammelli.

Per intrattenere il pubblico venivano organizzati anche spettacoli esotici, con donne in topless o in costume.

Nella zona Acquacade venivano realizzati musical con giochi d’acqua e coreografie irriverenti al costo di 80 cent.

Ogni giorno all’interno della fiera era a tema. Per esempio il 3 Giugno 1940 fu il “Superman Day”, in cui si realizzò un Contest atletico e ci fu la presenza dello stesso Superman, probabilmente interpretato da Bud Collyer.

Tra istallazioni per il divertimento, ristoranti, padiglioni coronati da sculture e fontane di rara bellezza come “The Fountain of Atom” realizzata da Wayland Gregory in ceramica, padiglioni realizzati da Salvador Dali o altri personaggi di un certo spessore, un planetario e varie istallazioni artistiche, rimaneva poco spazio per la scienza e l’innovazione.

Alcune delle introduzioni che vennero fatte furono la luce fluorescente, il nylon, i set televisivi, una macchina futuristica, un temperino e poco altro.

Fortemente voluta per la classe media emergente e per superare le avversità della Grande Depressione, ospitò oltre 44 milioni di visitatori e durò da Aprile ad Ottobre 1939 e da Aprile a Ottobre del 1940.

Con un guadagno di soli 48 milioni di dollari di fronte alla spesa di oltre 67, chiuse ufficialmente i battenti il 27 Ottobre 1940 a causa della bancarotta.

Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
The General Motors Pavilion is a popular site at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The National Cash Register building shows the number of persons in attendance at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Wonder Bakery displays a wheat field exhibit at the 1939 World’s Fair. The model, Penelope Shoo, is wearing an outfit designed by Hattie Carnegie. The wheat field was billed as “the first planted in New York City since 1875.” (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Ford Cars Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
An aerial view of the 1939 World’s Fair shows the music hall advertising Hot Mikado with Bill Robinson. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)

Two women pose on a Kodak photo posing stand during the 1939 New York World’s Fair. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A statue decorates the entrance to the Maritime Transport and Commerce Pavilion at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The General Motors Pavilion is a popular site at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
General Motors displays a transparent car in the pavilion at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Glass Incorporated Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Aquacade Floor Show at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Ford Car Parts Display at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Tomas Bata exhibit, in the Czechoslovakian Pavilion, at the 1939 World’s Fair. Bata (1828-1932) was a Czech industrialist who founded a large shoe factory. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A model of New York as the “City of Light,” in the Consolidated Edison Pavilion, at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
“Futurama” model in the General Motors Pavailion at the 1939 New York World’s Fair. The exhibit was designed by Norman Bel Geddes. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Stuffed Moose in Canadian Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Lucky Strike Cigarettes and Wonderbread buildings are shown illuminated at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Electric Utilities Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Firestone Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The General Electric and Westinghouse pavilions are attractions at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A statue of a Pony Express carrier being ambushed by Native Americans, at the American Telephone and Telegraph Pavilion, at the 1939 World’s Fair. | Located in: American Telephone and Telegraph Pavilion. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Chrysler Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Time and the Fates of Man sculpture and the Perisphere, at the 1939 New York World’s Fair. | Detail of: ‘Time and the Fates of Man’ by Paul Manship. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A row of statues leads to the Perisphere and Trylon at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Lucky Strike Cigarettes, Wonder Bread Bakery, and Sheffield Farms buildings stand on part of the grounds of the 1939 New York World’s Fair. Peter Campbell / Corbis via Getty

The Life Savers Candy Parachute Jump. Adults paid 40 cents a trip; children paid 25 cents. After the fair, the ride was moved to Coney Island, where it operated on and off until the 1960s. Peter Campbell / Corbis via Getty

People visit the Trylon and Perisphere at the 1939 New York World’s Fair. Inside the Perisphere was a diorama of a futuristic utopian city named Democracity. After viewing, visitors would leave by descending a long spiral walkway named the Helicline.Peter Campbell / Corbis via Getty

Donne d’arte: la prosa di Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese.

Nata il 13 Giugno del 1914, Anna Maria Ortese trascorre la vita migrando da una città all’altra. La sua formazione scolastica è minima, senza picchi artistici, ma è la sua volontà di imparare da autodidatta che le permette di crescere artisticamente sin dalla tenera età.

Una vita difficile quella di Anna Maria, che subisce due lutti importanti in famiglia. La morte degli amati fratelli Emanuele nel ’33 e il gemello Antonio nel ’37, lascia in lei un profondo senso di tristezza e solitudine che alimenta la sua scrittura e plasma il suo carattere. 

Lei stessa arriva a dire “I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può davvero trovarsi”. Una porta aperta, una mano tesa per coloro che come lei sono stati toccati dalla potenza distruttiva dell’esistenza.

Nel ’37 pubblica la sua prima raccolta, “Angelici Dolori” che viene accolta in maniera divisiva.

Dal 1939 comincia a scrivere per diverse riviste come il Mattino, Il Messaggero e il Corriere della Sera affinando la sua abilità.  

È nel 1945 che inizia il suo sodalizio d’oro, non con un autore, bensì con una città di cui Ortese si innamora perdutamente e che comincia a descrivere nei suoi racconti come una casa ritrovata, un luogo che si esprime chiaramente nella sua confusione e che definisce eccezionale: Napoli. 

È proprio da questo rapporto viscerale che nasce “Il mare non bagna Napoli” che vince il premio speciale per la narrativa al Premio Viareggio del 1953. Una raccolta di racconti evocativi con protagonista la città dilaniata dal dopoguerra, in cui vivono ancora intellettuali e letterati che l’autrice ritrae nelle loro miserie e nelle loro gioie.

Questa raccolta la porta ad una rottura con le personalità di Napoli e a un successivo trasferimento al nord dove, nonostante tutto, non riesce mai a dimenticare la città amata.

Nel 1967 pubblica il romanzo “Poveri e Semplici” che vince il Premio Strega, un altro importante traguardo della sua carriera. Nel 1975 si trasferisce a Rapallo, luogo che ospiterà le sue spoglie mortali fino all’ultimo giorno della sua esistenza, il 9 marzo 1998.

La vita di Anna Maria è coronata dalla sofferenza, dallo sradicamento e dal bisogno di scrivere come modo per ritornare a casa. Una sorta di riparazione alla vita, all’essere in vita, che comporta un costo, un dispendio di una parte di noi che viene inevitabilmente persa negli eventi caotici che ci toccano. La sua arte abbraccia l’invisibile come parte del reale e si accosta al realismo magico, al surrealismo, senza però venirne definita appieno.

Ortese concretizza il suo apice artistico nella forma del racconto breve, con virgole frequenti; una scrittura moderna e metamorfica, in cui le metafore servono a comprendere il mondo e sé stessi in maniera profonda e a radicarsi in qualsiasi cosa ci possa offrire accoglienza. 

Come una sorta di rivoluzionaria Leopardi si immerge nel suo dolore ma lo tramuta, lo specchia nella struttura stessa della città di Napoli, una città che definisce grigia, ma intensa di colori, ricca e piena di contraddizioni.

Accostabile alla pittura di Thomas Jones, che ritrae Napoli usando proprio quel grigiume e quella pietra che Anna Maria ricalca nei suoi scritti, Ortese realizza un perfetto ritratto di Napoli, della donna come condizione sovversiva e di sé stessa come animo gentile, ma bestiale, che scava nel profondo della realtà per trovare una comunione con il cosmo intero.