Danse de Follies! Lo spettacolo più all’avanguardia di New York

Era luglio 1915, quando, tra il caldo infernale della città e i suoi odori acidi, si dava il via allo spettacolo d’avanguardia più spinto dell’epoca.

Florenz Ziegfeld, Jr. era un prominente uomo d’affari newyorkese, l’inventore degli spettacoli d’intrattenimento “Ziegfeld Follies”, ispirati a quelli che si tenevano a Parigi, le Folies Bergère.

Inaugurati nel 1907, avevano abbracciato un nuovo modo di pensare la femminilità e il business, al punto da diventare famosissimi in tutto il paese.

Tra le ragazze che vi lavoravano come chickens”, il livello più basso, o “showgirl”, quello più alto, vi erano alcune delle più importanti stelle di quegli anni: Josephine Baker, Fanny Brice, Louise Brooks, Marion Davies, Nita Naldi, Barbara Stanwyck, Doris Eaton e moltissime altre.

Partecipare come corista agli spettacoli era l’apripista per una carriera brillante nel mondo del cinema o della musica e le giovani ragazze americane sognavano di essere tra le fila delle ballerine, alte uguali, pelle bianchissima, a muoversi all’unisono a tempo di musica.

Ziegfeld avevano notato che dopo gli spettacoli tanto acclamati, la gente se ne andava a trascorrere il resto della serata in altri night club. Così, invogliato ad aumentare i suoi profitti e a far risplendere le sue idee, decise di dare vita a un secondo spettacolo: Danse de Follies!

A termine dello spettacolo principale, bastava prendere l’ascensore e salire sul terrazzo del New Amsterdam Theatre sulla 42° strada, New York. Ad accoglierti sul rooftop garden, definito da alcuni “the meeting place of the world”, musica, danze e champagne a litri.

Lo spettacolo, che cominciava a mezzanotte, era sceneggiato nella parte in disuso del teatro, dove Ziegfeld aveva fatto istallare tavoli e sedie.

La parte più innovativa era il palco meccanizzato, in grado di ritrarsi in modo da lasciare spazio alla pista da ballo. Sopra era stata istallata una passerella trasparente, dove le ragazze potevano ballare ed essere ammirate dagli ospiti sottostanti.

Lo show, poi rinominato The Midnight Frolic, era un po’ più risqué delle Follies.

Le ballerine erano invitate a indossare della biancheria spessa, per protezione, ma questa regola veniva raramente rispettata.

Parte dello spettacolo consisteva nel scegliere la più bella tra le danzatrici e riportarlo su un’apposita scheda fornita dal locale. La vincitrice vedeva il suo stipendio per quello spettacolo raddoppiato.

Margaret Morris, Kay Laurell, and Florence Cripps on the infamous glass walkway in the Ziegfeld Midnight Frolic of 1916. (talesofamadcapheiress.blogspot.com). via Newyorkerstateofmind.com

Lo show più gettonato di tutti era quello delle “ragazze palloncino” che, passando tra i tavoli, invitavano gli uomini a scoppiare il loro palloncino con i sigari, una sorta di preludio alle famose “conigliette” che più di recente hanno popolato il panorama americano.

Ziegfeld girl Olive Thomas wearing her balloon costume on the stage of the New Amsterdam’s rooftop theatre during the original run of the Midnight Frolic. Male patrons were encouraged to use their cigars and cigarettes to pop the balloons. Photo circa 1915. (Pinterest) via Newyorkerstateofmind.com

White Studio (New York, N.Y.). [Sybil Carmen in “Ziegfeld Midnight Frolic”.] 1915. Museum of the City of New York. Gift of Henry Irving Brock, 1959. 59.271.16 ©The New York Public Library

L’avanguardia di questi spettacoli, però, era a caro prezzo. L’ingresso costava 5 dollari, che corrispondo a circa 120 dollari attuali, in aggiunta al prezzo del biglietto.

Se si voleva stare in prima fila per ammirare le ragazze da più vicino, il costo era 3 dollari (55 dollari odierni), mentre i posti in platea costavano 2,5 dollari.

La rivista teatrale divenne subito un successo, al punto tale che anche le celebrità presenziavano come ospiti fissi.

Ziegfeld, molto lungimirante, per evitare ai signori ospiti di farsi male battendo troppo spesso le mani, mise a disposizione dei martelletti ad ogni tavolo, in modo che potessero essere utilizzati al posto degli applausi.

Lo spettacolo era suddiviso in atti in cui si alternavano vari numeri comici, canori e di danza, con protagonisti del calibro di Frances White, Teddy Gerard, Eddie Cantor e molti altri. Durante la pausa, lunga 25 minuti, gli ospiti potevano cenare, danzare, bere e divertirsi in compagnia, ovviamente ad un costo elevato!

Una birra poteva costare fino a 1 dollaro, cioè quasi 25 dollari odierni e per una piccola bottiglia di champagne servivano 2,75 dollari.

Lo sfarzo era senza limiti. Gli chef dello Ziegfeld erano molto rinomati per le loro bistecche, ma per gli ospiti più esigenti e chic erano presenti scorte di caviale Beluga da poter degustare con lo champagne.

Gli abiti e le scene dello spettacolo potevano costare carissime. Si ricorda che durante la prima guerra mondiale, Ziegfeld, per non abbassare lo standard della sua opera, spese 3000 dollari per degli allestimenti in chiffon raggiungendo costi di produzione che contavano sei zeri.

Alfred Cheney Johnston (1885-1971). [Frances White in “Ziegfeld Midnight Frolic”.] 1919. Museum of the City of New York. Gift of Mrs. William R. Stephenson, 1974. 

Il club rimase aperto tutto l’anno per sei anni e nemmeno la prima guerra mondiale riuscì a impattare la produzione. Fu solamente con il proibizionismo che il sogno d’avanguardia si spense, e Ziegfeld fu costretto a malincuore a chiudere i battenti nel 1922.

Come scrisse il New York Times nei suoi anni d’oro:

“One might search the world and not find anything quite as unique or lavish as this midnight revue.”

Actress Kay Laurell standing on glass platform seen from below, from Midnight Frolic of 1915

La casa sull’albero di Brooksville

Situata su un antico albero, si staglia una bellissima Casa Vittoriana che per 30 anni ha popolato l’immaginario della città di Brooksville.

Questa meraviglia architettonica è stata costruita da James Talmage “Tokey” Walker, un veterano della seconda guerra mondiale e allevatore di bestiame.

La sua storia ha origini umili, ma come molti casi diventa motivo di grandezza. James inizialmente si occupa di vendere giornali per permettersi gli studi all’università dell’Alabama, dove intende laurearsi in legge.

Viene assunto nel più grande supermercato della zona, dove ben presto il suo duro lavoro viene riconosciuto, procurandogli una promozione a manager.

Purtroppo, la crisi bancaria della Grande Depressione coinvolge anche Walker, che vede andare in fumo i suoi sogni: tutti i suoi risparmi sono andati persi e la sua vita cambia completamente, prendendo una direzione inaspettata.

Ispirato da un cugino paterno decide di imparare a volare. Con l’aiuto economico di un amico compra il primo velivolo al costo di 600 dollari e come presidente dell’Acme Club, un gruppo simile al rotary, supervisiona la costruzione di un piccolo aeroporto nella zona di Huntsville.

Durante la Seconda Guerra Mondiale si occupa di insegnare volo presso l’University of Georgia Naval ROTC il cui programma è localizzato ad Atene. Al termine di questo periodo di lavoro, si trasferisce con la moglie Sarah a Marietta, Georgia, dove intraprende il lavoro di test pilot per il bombardiere B-29.

Nell’ottobre del 1945, la famiglia si trasferisce a Clearwater dove James dà vita alla Clearwater Flying Company, insieme a Robert J. Word, Roy A. Workman e il figlio Roy Jr.

L’obiettivo della società è quello di affittare e vendere aeroplani e fornire lezioni di volo.

Quando il governo taglia i fondi per le lezioni di volo ai veterani, i proprietari convertono la società nella Metal Industries, adibita alla produzione di schermi di alluminio.

Tokey fu un cittadino rispettato dalla comunità e dedito ad attività filantropiche che gli hanno valso numerosi premi e riconoscimenti come il Golden Flame Philantropy Award nel 2000.

Il suo nome può essere trovato sulla Wall of Honor del National Air and Space Museum a Washington D.C.

Ma facciamo un passo indietro…

Negli anni ’60 Tokey compra un terreno a Brooksville e comincia ad allevare bestiame. Solo negli anni ’80 comincia a costruire l’imponente Victorian House al 17346 Powell Road, Brooksville, Florida.

La dimora, pensata per servire ai nipoti, era provvista di camere da letto, cucina, bagno e tutte le comodità di una casa su terra ed era dipinta di un baby blue che ricorda molto le case delle bambole ottocentesche.

La casa, Abandoned in Florida.com

La casa, Abandoned in Florida.com

La casa, Abandoned in Florida.com

La casa, Abandoned in Florida.com

La casa, Abandoned in Florida.com

La casa, Abandoned in Florida.com

Dopo la sua morte, la proprietà cade in stato di abbandono, anche se rimane formalmente di proprietà della J. T. Walker Industries.

Per oltre 30 anni rimase in piedi, silenziosa ed abbandonata, come una dimora costruita dalle fate nel mezzo della foresta. Nel corso dei decenni la casa subì diversi atti vandalici, fino a diventare un luogo adibito alle colture di Marijuana.

Ad ottobre 2015 la casa, ormai irrecuperabile, viene rasa al suolo, probabilmente dai costruttori.

Photo taken in May 1991 at the Brooksville Treehouse. Photo Courtesy of Deborah Crevier

Di lei rimane solo il ricordo sbiadito presente in qualche fotografia del tempo.

Link utili: abandonedfl.com/brooksville-victorian-treehouse/

Link alle fotografie: https://www.flickr.com/photos/sfldp/8047689947/in/photostream/

Bagni retró: una breve raccolta

A chi non è capitato di usare Pinterest per cercare immagini di design? Qualche volta ci si imbatte in immagini provenienti da un’altra epoca che, come finestre, permettono di guardare a tempi passati che hanno ancora un certo fascino decadente.

E chi non sogna di farsi un bagno caldo in stanze così?!

Per ulteriori immagini: https://www.pinterest.com/vintageadventur/

Oppure: https://vintage-adventures.com

Per il decoro: https://clickamericana.com/topics/home-garden/retro-70s-bathroom-decor-styles-ideas

Oppure https://www.messynessychic.com/2019/10/11/when-sex-kitsch-collide-a-brief-compendium-of-retro-tubs/

Ithell Colquhoun, l’artista tra surrealismo ed occultismo.

Margaret Ithell Colquhoun (Shillong 9.10.1906- Cornovaglia 11.4.1988) nasce da funzionari britannici in Bengala, nell’India Britannica.

In tenera età si trasferisce con i genitori in Inghilterra dove entra nel Chentenham Ladies College e successivamente, nel 1927, alla Slade School of Art di Londra.

Si appassiona di occultismo a 17 anni grazie alla lettura di “Abbey of Thelema” di Aleister Crowley e da questo momento alimenta una ricerca interiore fatta di pratiche esoteriche volte alla conoscenza e alla celebrazione del Femminile Sacro.

Nel 1929 vince lo Slade’s Summer Composition Prize per il suo “Judith Showing the Head of Holofernes” che viene successivamente esposto alla Royal Academy di Londra, un passaggio fondamentale per la sua carriera artistica. In questo periodo Ithell produce molte opere di stampo biblico, con eroine femminili forti e potenti che alcuni credono essere una celebrazione di Artemisia Gentileschi.

Attratta da tutti i tipi di arte, comincia a scrivere, un’abilità che porta avanti parallelamente alla pittura e al disegno, e pubblica il suo primo articolo, “The Prose of Alchemy”, per la Quest Society, nel 1931 .

“Judith Showing the Head of Holofernes”, Ithell Colquhoun, oil on canvas, 1929.

Una tappa essenziale della sua evoluzione pittorica è il suo peregrinaggio in Europa, dove tocca le sponde di Grecia, Corsica, Tenerife e Francia. In questi territori marittimi e opposti all’uggiosa Inghilterra si esercita nella rappresentazione ad acquarello, documentando fedelmente i suoi viaggi e la realtà attorno a sè. La componente umana è totalmente assente nelle sue opere, ma percettibile. I disegni e gli acquarelli, 91 in totale, sono finestre aperte sugli istanti della vita, sulle tracce dell’uomo e dei suoi gesti passati: un letto disfatto, vestiti dismessi, cancelli ed interni popolano il panorama delle sue tele. Ed è proprio con questa produzione che Ithell sfonda con la sua prima mostra alla Cheltenham Art Gallery nel 1936.

“Bed II-Greece”, Ithell Colquhoun, Watercolor and pencil, 1933.

“Gateway”, Ithell Colquhoun, Watercolour and crayon on two sheets of joined paper, 1937.

Ma è a Parigi che la sua strada prende una svolta importante: introdotta al mondo surrealista dei circoli artistici parigini, Ithell si appassiona di questo filone artistico tanto da farlo proprio per tutta la sua vita. Incontra André Breton e Dalì che diventa l’artista che più di tutti riesce a scuoterla e ispirarla.

Nel ’36 partecipa alla International Surrealist Exhibition e qui assiste alla celebre lezione di Dalì in cui, presentatosi vestito con una tuta da immersione, rischia di soffocare. L’esposizione la motiva ulteriormente e comincia a far maturare dentro di lei la consapevolezza che la porta a rielaborare la sua arte da realismo a surrealismo.

I soggetti che dipinge sono piante e fiori, simbolo di fertilità, creatività e sessualità, dove applica strenuamente e con precisione le tecniche apprese.

Innamorata dell’idea surrealista, si unisce al British Surrealist Group nel ’39 e, sempre nello stesso anno, espone con Roland Penrose 14 dipinti a olio e due oggetti alla Mayor Gallery.

Il gruppo surrealista, però, impone l’esclusività e l’artista non può partecipare a nessun altro gruppo, indipendentemente dalla sua natura. Questo limita Ithell che si considera libera e a causa della sua partecipazione ad altri gruppi di stampo occultista, viene espulsa solo un anno dopo.

“Birds of Paradise Flowers”, Ithell Colquhoun, oil on board, c.1936.

“Flowers in a Greenhouse”, Ithell Colquhoun, oil on cavas, 1934.

Ithell non demorde e continua per la sua strada praticando l’arte surrealista a suo modo, sia con le tecniche apprese dai maestri, sia con altre inventate da lei.

Colquhoun infatti utilizza diversi metodi: la decalcomania nell’opera “Gorgone” del 1946; il superautomatismo nell’opera “Curving Forms in skein shapes” del 1948; la stillomanzia nell’opera “Horus” del 1957; il parsemage nell’opera “Sea Mother” del 1950; la grafomania entottica nell’opera “Torn Veil” del 1947 e molte altre.

“Gorgone”, Ithell Colquhoun, oil on board, 1946

“Curving forms in skein shapes”, Ithell Colquhoun, ink, c.1948.

“Horus”, Ithell Colquhoun, ink and wash, c.1957.

“Torn Veil”, Ithell Colquhoun, ink drawing, 1947.

Nel 1943 sposa Toni del Renzo, artista e critico d’arte, che inizialmente aveva recensito una sua mostra. Il matrimonio dura solo quattro anni e si conclude con un aspro divorzio.

Parallelamente all’attività pittorica si dedica alla poesia e alla prosa, che ritiene forme di espressione altrettanto surrealiste.

Durante gli anni ’50 abbandona la pittura. Di questo periodo si contano anni senza una singola produzione.

Nel 1955 pubblica “The Crying of the Wind”, un diario di viaggio; nel 1973 il “Grimore of the entangled Thicket” una raccolta di poesie e disegni ispirato a favole Gallesi pre cristiane, nel 1983 “Osmazone”, un’antologia di prosa e poesia.

Nel 1957 si trasferisce a Paul, in Cornovaglia, dove trascorre i restanti anni della sua vita.

Negli ultimi anni ritorna alle rappresentazioni naturali che continuano a ricalcare il suo mondo interiore. Le tecniche sono le stesse imparate negli anni della gioventù, in particolare la decalcomania, mentre la componente sessuale che contraddistingueva i suoi primi lavori, qui risulta diminuita o totalmente assente. Le composizioni sono semplici ed immediate, come in “A Rose is a Rose is a Rose” del 1980. Anche la tecnica del collage diventa predominante nei suoi lavori. Ne sono un esempio “Cornish Landscape” del 1971 e “Bird of Passage” del 1963.

“A Rose is a Rose is a Rose”, Ithell Colquhoun, Acrylic on board, 1980.

“Birds of Passage”, Ithell Colquhoun, Collage, 1963.

Alla sua morte lascia i diritti delle sue opere all’associazione The Samaritans, il suo lavoro sull’occulto alla Tate e le restanti opere al National Trust.

Nel 2019 Tate compra la partecipazione delle opere del National Trust.

Ithell fu un’artista autodidatta, come disse lei:

“I am teaching myself to carve and to write. Sometimes I copy nature, sometimes imagination: they are equally useful.” 1

Le sue opere nascono nei temi classici del surrealismo: il subconscio, i sogni, la psicanalisi tanto cara agli esponenti di questo movimento, ma si incarnano profondamente in temi come il genere e la sessualità, il Divino Femminile, l’ordine del cosmo, la transizione e la trasformazione così come l’influenza orientale.

Troviamo però anche temi politici come in “Tepid Waters” per la guerra civile spagnola.

Ithell è rimasta per tutta la vita legata al surrealismo e alle sue tradizioni rappresentative. L’occultismo, una parte fondamentale della sua vita, si è articolato perfettamente nelle sue opere dove ha realizzato opere fortemente simboliche e ricche di significato.

È possibile vedere le sue opere nella mostra “Ithell Colquhoun: Between Worlds”, Tate, fino al 5 maggio 2025.

  1. Colquhoun, I. “What do I need to paint a picture?” London Bulletin, No. 17, 15th June 1939. p13 ↩︎

Il Getty Museum e quello che rischiamo di perdere

In questi giorni tutto il mondo ha assistito ai terribili fatti della zona di Los Angeles. Tra fotografie di fiamme, distruzione e inferno, un sole nella penombra fumosa rimane rosso come un monito. Il surriscaldamento globale non è una novità, eppure moltissime persone credono ancora che non sia un fatto.

Tra case distrutte, persone che hanno perso ogni cosa, ogni ricordo o la loro stessa vita, sembra impossibile-e infinitamente superficiale- ricordarsi dei luoghi storici, dei custodi dell’arte.

Sullo sfondo di questa devastazione c’è un edificio che racchiude decenni di storia dell’umanità e opere che vanno ben oltre il genio artistico.

J. Paul Getty (15.12.1892-6.6.1976) fu un imprenditore, collezionista e filantropo statunitense. Padrone della Getty Oil Company, nacque in una famiglia facoltosa, da un padre a sua volta protagonista dell’industria del petrolio. I suoi pozzi erano sparsi per tutto il mondo: passando per Texas, Canada, Arabia Saudita fino ad arrivare in Italia dove aveva possedimenti a Gaeta, Ravenna e Milazzo.

Proprietario della villa Odescalchi a Palo Laziale (oggi rinomato hotel di lusso “La posta Vecchia”) fu rapito dalla bellezza e dalla storia del bel paese, tanto da rubarne l’architettura per un suo progetto personale: La villa Getty.

Getty vedeva l’arte come una forma di civilizzazione della società e ne era profondamente affascinato. Decise perciò di creare un’istituzione finalizzata alla ricerca, alla mostra, alla conversazione, alla pubblicazione e all’educazione dei suoi connazionali di quelle che sono alcune delle opere più belle mai realizzate nella storia dell’uomo.

Nel 1953 diede vita al J.Paul Getty Museum Trust e l’anno successivo convertì la sua proprietà a Palisades in un museo. Nel 1968, memore delle antiche ville romane di cui si era innamorato in Italia, decise di allargare il suo ranch come una “Roman Villa” ad immagine della Villa dei Papiri di Ercolano. Solo 6 anni dopo aprì al pubblico.

Getty incontra la morte nel 1976, all’età di 83 anni, lasciando un patrimonio stimato di oltre 700 milioni al fondo, con l’onorevole obiettivo di: “Diffusion of Artistic and General knowledge”.

Nel 1984 venne stabilita la fondazione del museo che grazie all’eredità è diventato il più ricco al mondo (oltre 1,2 miliardi di dollari).

Alla fine degli anni ’80 il museo si espanse su una superficie di 110 acri sulle montagne di santa Monica e prese il nome di Getty Center. L’architetto designato per la mastodontica costruzione fu Richard Meier.

Finalmente il 16 dicembre del ’97, dopo anni di duro lavoro e modifiche, il secondo museo aprì le porte al pubblico.

La villa Getty, Palisades, LA

Ad oggi il museo contiene dipinti, disegni, sculture Romane, Greche ed Etrusche, codici e miniature, arti decorative Europee e fotografie Europee, Asiatiche e Americane.

Al suo interno, ad eccezione delle fotografie, non sono contenute opere d’arte moderna.

Numerose sono però le controversie che circondano l’attività del museo.

Nel 1983 vennero acquistati 144 manoscritti medioevali con miniature dal Ludwig Collection di Aquisgrana che si trovava in serie problematiche economiche; Un’indagine ha riguardato Marion True, curatrice del museo, per l’acquisto sospetto di una corona funeraria Macedone risalente a oltre 2500 anni fa e restituita alle autorità greche nel 2006; una causa con l’Italia per la restituzione di 52 opere trafugate tra cui L’atleta di Fano, conclusasi con un accordo di restituzione di 40 opere.

Il caso più controverso rimane però l’acquisto di un Kouros nel 1984 per 32 miliardi di lire, dichiarato un falso dallo storico Federico Zeri che è stato costretto a non mettere più piede sul suolo Americano.

Anche la figura dell’imprenditore rimane controversa.

Il nipote del noto magnate fu infatti rapito dall’ Ndrangheta e venne richiesto un riscatto di 2 milioni di lire che il vecchio si rifiutò di pagare. Solamente quando gli venne recapitato un orecchio mozzato decise di cedere.

Sembra finita qua, ma non è così. L’uomo chiese indietro l’intera somma al nipote, quasi fosse una sua responsabilità, e vi aggiunse un interesse del 4%.

Nonostante ciò il museo rimane un punto di riferimento della cultura antica su suolo americano e conta ogni anno migliaia di visitatori che differentemente non potrebbero ammirare le famose opere contenute al suo interno.
Ad oggi le opere sono diverse migliaia e tra esse troviamo capolavori come gli “Iris” di Van Gogh (1889), l’Atleta di Fano, il “Velo della Veronica” di Correggio (1521), “Sant’Andrea” di Masaccio (1426), “Venere e Adone” di Tiziano (1555-1560) e l'”Adorazione dei Magi” di Mantegna (1497-1500) e moltissimi altri.

Risulta di vitale importanza perciò, in questo periodo storico delicato in cui gli animi sono confusi e sembra non esserci una prospettiva equilibrata per il futuro, fare un passo indietro, ritornare ad apprezzare la bellezza che ci è stata data e che noi stessi abbiamo creato.

Per ammirarla. Per prendercene cura. E se non altro… per non perderla.

“Venere e Adone”, Tiziano, 1555-1560 ca.
“Iris”, Van Gogh, 1889
The rue Mosnier with Flags, Manet, 1878

Spring, Manet, 1881

Arii Matamoe (the Royal End), Gauguin, 1892

La promenade, Renoir, 1870

Il rapimento di Europa, Rembrandt, 1632

 The Grand Canal in Venice from Palazzo Flangini to Campo San Marcuola, Canaletto, 1738 ca.

Sunrise, Monet, 1873

Donne d’arte: Alessandra Izzo si racconta

Alessandra Izzo, By Francesco Escalar, Los Angeles

Correva l’anno 1982 quando allo Stadio San Paolo di Napoli, tra facce sudate e sguardi sognanti, si esibisce il più grande compositore moderno del ‘900: Frank Zappa.

Tra la folla urlante c’è una giovane donna, appassionata di musica e del baffo più famoso del mondo.

Alessandra Izzo nasce a Napoli e vive a Roma. Ho modo di incontrarla soltanto in videochiamata o al telefono, ma non ci impedisce di scoprire che abbiamo qualcosa in comune. 

È una donna forte Alessandra, un’artista. Della sua poliedricità ha fatto un mestiere e della sua passione la sua vita. 

Ci chiamiamo un venerdì mattina sotto una Milano uggiosa. La sento all’altro capo del telefono: un’esplosione di positività e gioia. Alessandra è così, un vulcano.

Mi racconta della sua vita e della sua passione per la musica, nata in seno alla famiglia. Già dall’infanzia si innamora di quest’arte. “Mia madre cantava” mi dice, “faceva concorsi.” Mi sembra naturale che il suo percorso abbia intrecciato legami e conoscenze con i grandi, anche se è stata la sua determinazione a portarla lontano.

Parliamo di Frank e della musica eclettica che ha creato, di come tutto è cominciato. Al tempo c’erano ancora i vinili con le loro sfolgoranti e magnifiche copertine. Si frequentavano i ragazzi più grandi che portavano i dischi, si ascoltava musica insieme. “Amavo gli Hippie” ricorda, e in quel periodo, gli anni ’70, rappresentavano l’estetica per eccellenza. Un amore nato prima su carta e poi riversatosi nella sua musica considerata da molti come un’innovazione, un’ode del grande guru.

Le chiedo quale sia il suo ricordo più bello con lui. Mi dice che è Viareggio, due anni dopo il loro primo incontro.

“Ha puntato il dito e ha detto “Eccoti, sei tu!”.”

Al tempo è poco più che maggiorenne, ma ricorda ancora l’intensità di quel momento, seguito da altri. Non parla di amore quando si riferisce a lui, ma di un’intensa connessione. A Frank piaceva molto l’Italia e amava le sue origini italiane. Insieme ridevano e avevano trovato dei punti in comune. 

Alessandra con l’allora fidanzato, Il principe Dado Ruspoli, al party di Rocco Barocco, Capri 1989.

Alessandra non è una groupie, ma una donna libera piena di dignità.

Ciononostante mi ritrovo a chiederle di loro, del loro mondo e di come erano viste. Mi dice che è un termine ormai considerato dispregiativo e di come al tempo la parola era odiata. Le vere groupie erano quelle a cavallo degli anni ’60-’70, ben prima della sua entrata nel mondo della musica. Molte donne hanno cavalcato l’onda del termine per potersi fare pubblicità, soprattutto all’estero. Per Alessandra si tratta di qualcosa di diverso, più profondo: dell’amore per la musica e per una band e della sua naturale evoluzione per il cantante. Questo amore si percepisce da come ne parla, dal modo in cui si accende al ricordo del passato. “Siamo donne che amano la musica, non c’è età, religione o colore della pelle.” 

Alessandra non è solo un’appassionata di musica. Giornalista, Corrispondente estera, Autrice teatrale, ha lavorato anche in Radio.

Ha fatto molto in un ambiente tosto, si è scontrata con il sessismo di quegli anni e con le sue limitazioni, ma ne è uscita vincitrice. Parla della luce nuova che risplende con il movimento del girl-power. Parla anche del suo libro, She Rocks!- giornaliste musicali raccontano (Volo Libero). “è dedicato in parte alle donne” e dà voce alle donne nel mondo della musica.

Alessandra, fotografie per la prima del libro su Frank Zappa

Le chiedo se pensa che il femminismo di oggi sia cambiato, si sia un po’ perso insieme alle libertà di un tempo. 

Ripercorre il periodo che ha vissuto con la forza di una leonessa. “Eravamo le ragazze del topless” esordisce, “Sembra di essere tornati indietro di mille anni, una come me si sentiva libera nella mia generazione” sottolinea. Chiacchieriamo ancora di limitazioni, di perbenismo, di politically correct e delle sue implicazioni. “C’era una grande libertà” incalza “che è durata negli anni ’80. Le cose sono cambiate negli ultimi 15 anni, noi facevamo militanza. Io sono felice di aver fatto quelle battaglie che mi hanno dato la libertà. Importa che noi donne siamo libere di fare quello che vogliamo.”

Mi ritrovo appassionata dalle sue parole, smuovono in me un sentimento di appartenenza. È un dono, mi sento capita dal suo flusso di pensiero e dal suo modo di vedere il mondo.

Mi parla del cinema, che ama profondamente, e della scrittura. Mi parla delle donne che ha amato nella sua vita: Monica Vitti, Valeria Golino, Jane Fonda, Julia Roberts e molte altre.

Ha passato vent’anni a scrivere di cinema nell’ufficio stampa di due importanti aziende del settore. Per lei era divertente lavorare, l’appassionava. Ama incontrare le persone, intervistarle ed avere un rapporto con loro. Il suo calore umano si sente anche a kilometri di distanza. 

Ha vissuto negli Stati Uniti, a Los Angeles, NY, Memphis, Nashville, Miami e mantiene un rapporto profondo con la California, la sua “chosen family”.

Stare al telefono con Alessandra porta una ventata di aria fresca. È spensierata, combattiva eppure estremamente radicata. Le sue storie sono coinvolgenti, ti rapiscono. La sua vita sembra un sogno ad occhi aperti, fatto di mille possibilità. Le chiedo se ci sono progetti futuri all’orizzonte, nell’ambito della scrittura o nell’ambito teatrale.

C’è un nuovo libro che ha in mente di scrivere su un personaggio che non è ancora riuscita a incontrare, ma specifica che ci tiene a vivere il rapporto con mano prima di parlarne. 

Prima di lasciarci discutiamo ancora un po’ della vita, dei sogni, delle ambizioni e dei cambiamenti. Parliamo di forza e di motivazione.

“La devi trovare, vai oltre, respira, non staccare mai la tua curiosità.”

Alessandra, fotografia scattata per un magazine Americano, 1989.

Instagram di Alessandra Izzo: https://www.instagram.com/alexizzo1/

Link per acquistare libro: https://www.amazon.it/She-rocks-Giornaliste-musicali-raccontano/dp/8832085135

Link per acquistare libro: https://www.amazon.it/Frank-resto-mondo-Alessandra-Izzo/dp/8897508812

Il giardino dell’Eden

Situato nella moderna Montecito si nasconde un paradiso naturale con una storia centenaria, animato da piante tropicali e subtropicali, piscine di loto e cactus che sembrano pungere il cielo.

Nel 1882 Ralph Kinton Stevens acquistò una proprietà che rinominò Tanglewood e utilizzò come casa di famiglia. Si trattava di un luogo molto grande che poteva ospitare tranquillamente diversi giardini. Alla sua morte la vedova trasformò la residenza in un ranch per ospiti per poi affittarla ad una scuola ed infine venderla nel 1913 a causa dei costi ingenti per il suo mantenimento.

Il nuovo acquirente, il vicino di casa, George Owen Knapp la tenne per soli 3 anni, prima di venderla ai Newyorkesi E. Palmer e Marie Gavit che la rinominarono Cuesta Linda. I coniugi ingaggiarono il famoso architetto Reginald Johnson per la costruzione dell’edificio principale, che completò negli anni ’20. Lo stile fu volutamente un richiamo alla Spagna e ai territori europei che tanto piacevano al tempo.

Fu solamente nel 1941 che la sorte volle cambiare lo status quo delle cose facendo arrivare la persona che avrebbe realizzato il capolavoro che ancora oggi si può ammirare.

La proprietà venne acquistata da una famosa ed eccentrica cantante lirica polacca, interessata alla botanica.

Madame Ganna Walska, 1957, circondata dalla sua iconica collezione di euforbie e cactus, courtesy of Ganna Walska Lotusland.

Ganna Walska, pseudonimo di Hanna Puacz (Brest-Litovsk 1887- 1984) nacque povera, ma questo non le impedì di diventare una delle più celebri socialite del XX secolo.

Hanna si trasferì a San Pietroburgo con lo zio a seguito della morte della madre, avvenuta quando era solo un’adolescente. Qui cominciò gli studi di musica e assunse il nome d’arte che la rese celebre in tutto il mondo. Per i successivi due decenni si esibì come cantante lirica tra New York e Parigi e fece diversi tour in Europa e America.

A detta di molti fu grazie alla mastodontica pubblicità che le fece il marito Harold McCormick, sposato nel 1922 e molto ricco, che riuscì a cavarsela. Divenne allieva di Cècile Gilly che però dichiarò che Ganna non fosse portata per la musica. In molti, a dispetto di quello che sosteneva lei stessa, dissero che a cantare fosse terribile, ma questo non la fece desistere in nessun modo, anzi la spinse ancora di più ad esplorare la sua vena artistica.

Intelligente, sofisticata e molto attenta al denaro, divenne ben presto popolare nelle élite più in voga (e molto chiacchierata dai tabloid!) e a detta di Charles Wagner nel 1928:

“Aveva Qualcosa che teneva destava la loro attenzione, che faceva drizzare le orecchie se veniva nominata”.

Ganna Waska in costume, Bettmann, Getty Images

Capelli corvini, anticonformismo, acume e bellezza la fecero padrona delle mode e degli sguardi di numerosi scapoli ricchi con cui spesso aveva flirt.

Ben presto Ganna, dall’animo curioso e anticipatore delle mode, abbandonò la religione cattolica per darsi al misticismo orientale e allo yoga. Si sposò sei volte, di cui 4 con uomini facoltosi e una con un maestro yogi.

Fu proprio grazie alle pratiche orientali e al matrimonio con Theos Bernard che la sua strada incrociò i 37 acri di Cuesta Linda che comprò e che cominciò ad alimentare in un turbinio di colori e fantasie.

L’idea che abbracciò inizialmente fu quella di creare un luogo per i ritiri spirituali, dove si potessero studiare le Sacre Scritture tramite i Lama Tibetani. Il nome scelto fu Tibetland, a richiamare il suo profondo amore per l’Oriente. 

Per la modernizzazione del giardino venne assunto l’architetto Lockwood de Forest Jr. e nel 1942 la conformazione venne rinnovata una seconda volta, introducendo numerosi cactus, i più famosi protagonisti di tutti i 15 ettari.

Ganna Waska Lotusland, source unknown.

Furono avviati diversi progetti di miglioria operati da Ralph Stevens, figlio del proprietario originale, che progettò i cancelli in ferro sulla Sycamore Canyon Road, la Piscina e la Spiaggia di Conchiglie, la Grotta, Il Teatro e i Giardini Blu dedicati alle piante a foglia glauca, come la Palma Blu del Messico e numerose Agavi.

Il progetto di Tibetland come ritrovo spirituale libero non vide mai la luce a causa dello scoppio della II guerra mondiale. Ganna tuttavia non si fermò, nemmeno quando il marito le chiese l’ennesimo divorzio. Rinominò l’oasi Lotusland in onore del Loto Sacro che cresceva in una delle numerose vasche che coloravano il paesaggio.

Ganna Walska nella piscina del Loto, source unknown.

Fu in questi anni che la donna si reinventò completamente. Secondo la filosofia del massimalismo e spinta da un forte carisma e molta creatività, cominciò a dare vita a qualcosa di straordinario, combinando conoscenze botaniche e artistiche e facendosi aiutare dai migliori dell’epoca. 

Lotusland, source unknown.

Nel ’58 l’artista locale Joseph Knowles Sr. venne ingaggiato per modificare la Piscina nel Giardino Aloe, aggiungendo Conchiglie di Abalone sul bordo e creando suggestive Fontane di Corallo.

Negli anni ’70 venne aggiunto un Giardino Giapponese all’imponente struttura, ormai carica di ornamenti naturali provenienti da ogni parte della terra, alcuni rarissimi o estinti, e allestiti con una vena teatrale e audace.

Veduta aerea del Topiary Garden, dedicato allo stile anti-naturalistico dell’ars topiaria risalente agli antichi romani, dal libro “Lotusland” (Marc Appleton, Rizzoli New York), Lisa Romerein.

Quello che ne uscì fu un paradiso tropicale, un luogo mistico ai limiti del terreno, con oltre migliaia di specie diverse combinate in un insieme eclettico e paradisiaco. Walka realizzò un giardino eccentrico che secondo Marc Appleton, autore del libro Lotusland (Rizzoli, New York)

“sfugge a ogni ordine tradizionale e a ogni logica”.

Per finanziare le ingenti spese che il giardino le richiedeva, Ganna mise all’asta la sua collezione di gioielli tra cui i suoi stimatissimi Fabergè. L’asta, tenuta da Sotheby’s, vide protagoniste diverse gemme dalla preziosità incommensurabile tra cui un diamante briolette da novantacinque carati, una rara selezione di gioielli indiani, collane Cartier e uno smeraldo intagliato Mogul.

La sua mastodontica opera botanica continuò fino alla sua morte, avvenuta il 2 marzo 1984.

La lavorazione dell’oasi naturale continua tuttora come da volere della proprietaria e il suo ingente patrimonio di vestiti (tra cui pezzi di Ertè e delle Callot Soeurs) sono esposti al Los Angeles County Museum of Art.

A detta di Marc Appleton:

“La sua eredità più duratura si è rivelata essere non sul palco, bensì nella terra”

Ganna Walska in her garden, courtesy of Ganna Walska Lotusland.

Per saperne di più: https://www.ad-italia.it/gallery/giardino-botanico-ganna-walska-libro-lotusland/

Altro: https://www.messynessychic.com/2018/04/24/the-diva-who-grew-her-own-exotic-kingdom/

Il sito ufficiale: https://www.lotusland.org/about/madame-ganna-walska/

Il libro: https://www.amazon.it/Lotusland-Botanical-Paradise-Marc-Appleton/dp/084786989X/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&crid=20T2LE6GXVHFG&dib=eyJ2IjoiMSJ9.uyyH53a5nnILCSF34fnMUfi5u5qKuC0sp1TtbACx6WXDevSrLiRs0BRwCKMJlrgFniCpEctqvTWDzJ0fViLfJL2SvVeOS0cfcbrU_Gxz38Ge-ZvWI4qJD59o4e4FYFq6svxXJerGTzOYZwtJ7eXloHplnS0TB9LOk-J5EHGcYJKoKnd5-9wVFHi5WGC5MLDq4ILgI0p-OPxFI4iHd0O26sawkAM0cT03tB2Yszk6-hrnvf0fuFmKFJpA78LtVufpWRJidcdDHDH4XGQcOpCF0N7dOs3xp80DVeuM5356hxI.j7xsI2tvfEctdVb6qhkLWNJ7QN8iEnwJVudbAJTFi9w&dib_tag=se&keywords=lotusland&qid=1729616874&sprefix=lotusland%2Caps%2C91&sr=8-1

Instagram ufficiale: https://www.instagram.com/lotusland_gannawalska/

Il Victoria’s Secret Fashion Show di cui (forse) non avevamo bisogno

Martedi 15 Ottobre 2024 si è tenuto il nuovo famosissimo show nella grande mela. Tra gli ospiti vecchi angeli illustri che hanno fatto la storia del brand – ma non solo- e nuovi volti con buoni propositi e tanta curiosità.

Sulla scia delle edizioni passate (e che edizioni!) il Victoria’s Secret Fashion Show 2024 ha dichiarato di impegnarsi in un tema attuale di vitale importanza: l’inclusività.

Ma al di là delle buone intenzioni (con un pizzico o più di marketing vista la situazione disastrosa in cui verte il brand), non è riuscito a stimolare la fantasia dello spettatore come faceva nel suo passato illustre.

Abituate com’eravamo a vedere modelle uscire da giochi di ombre, scatole regalo natalizie, su note coinvolgenti e sexy, questo nuovo spettacolo ha avuto pochissimo a che fare con le stravaganze del passato, con i glitter delle edizioni in cui Taylor Swift dominava la passerella, con il mistero creato dalla chiusura della sfilata operata da Rihanna.

Ci troviamo nella mitica New York, una passerella lunga e colorata di rosa – il classico colore del brand- con una Gigi Hadid che apre lo show sulle musiche di Lisa, con poca convinzione e una camminata traballante che ha poco a che fare con l’alta moda di cui è abituata. La prima sfilata, all’insegna del tipico colore, viene chiusa da una Adriana Lima decisamente cambiata da piccole e studiate iniezioni al viso, ben lontana dal look fresco che portava in passerella nei tempi d’oro della sua carriera.

Il secondo momento, coronato da una straordinaria Tyla, si popola di bianco e vede alcune storiche modelle ricalcare le orme del passato. Una Candice sempre straordinaria, anche se decisamente nervosa, una bellissima Barbara, che con il corpo a pera che ha poteva benissimo essere valorizzata da lingerie studiata ad hoc invece che dal vestito lungo e coprente che ne ha mascherato la fisicità tonica e sana.

La terza sfilata vede come protagonista assoluta una Kate Moss fiacca che apre le danze con poca verve e coinvolgimento. Una storica Behati anch’essa coperta da un abito lungo, una Irina che riesce a risollevare il ritmo della narrazione.

Ritorna quindi Lisa con una melodia dai toni più soavi, e qui vediamo diverse modelle Plus size calcare la passerella portando avanti la nuova concezione inclusiva del brand. Ad aprire, una non proprio in forma Ashley Graham, decisamente oltre il concetto di plus size abbracciato dall’azienda. In questo pezzo emergono anche volti storici come Eva Herzigova e Carla Bruni a fare da padroni a completini di pizzo nero e vene più sensuali e mature.

È ora la volta della performance più attesa: Una Cher che pare in forma, sul pezzo, ma che si riduce a cantare in playback mentre un coro di ballerini le fa da sfondo per creare movimento. Apre quindi la sezione rossa, che vede ancora una volta protagonista l’italiana Vittoria Ceretti ed infine l’attesissima – e segretissima- Bella Hadid a chiusura dello spezzone. Una mossa geniale, considerata la portata di questa top model, nominata la modella del decennio, con alle spalle collaborazioni che hanno fatto la storia delle passerelle. 

Prima dell’atto finale, ecco emergere dal pavimento una Tyra Banks, l’unica forse in tutta la sfilata, ad avere la grinta necessaria a portare avanti una camminata su passerella. La vera plus size, dai tempi passati degli storici show in giro per il mondo, riesce a strappare un sorriso e un che di ammirazione. In forma smagliante, con un corpo proprio che va oltre i canoni estetici portati avanti dalla Heroin chic degli anni ’90, regala una performance che vale tutto lo show. 

Di fronte a questo cosa pensa il pubblico? A leggere i commenti americani nessuno aveva bisogno di questo show. A tratti sconnesso, poco entusiasmante, con artisti di un livello inferiore a ciò a cui eravamo abituati, lascia desiderare anche nel design delle ali e della lingerie. Lo sfondo della sfilata, senza alcun tipo di gioco di luci, colori, animazione, rende tutto piatto, statico, una performance che non coinvolge e soprattutto non convince. Le modelle, a tratti atletiche e dai fisici sani, portavoci di uno stile di vita fatto a favore del benessere, vengono mischiate a fisici decisamente scarni, poco salutari, o in certi casi troppo in carne, promuovendo ancora una volta una narrazione dell’eccesso. Non c’è via di mezzo. Troppo magre o troppo grasse. Viene da chiedersi dove siano finiti i modelli dell’antica Grecia: un corpo tonico -ognuno con le sue caratteristiche e peculiarità- portato al miglioramento perché ci si vuole bene e ci si prende cura di sé. 

Nel 2024 abbiamo davvero bisogno di questo messaggio impoverito, ancora una volta ai limiti? Non eravamo troppo magre allora e non siamo troppo grasse adesso

Forse l’inclusività non è abbracciare ogni eccesso come se fosse la normalità, mapromuovere uno stile di vita sano, uno stile di vita sportivo dove l’indulgenza di un cheeseburger o due va a braccetto con frutta e verdura, dove bere una bibita o una birra non significa abusarne, dove non c’è spazio per droghe, Ozempic, o due dita in gola, ma solo la buona volontà di fare qualcosa per sé stesse perché è molto più remunerativo e soddisfacente.

Nel complesso lo show regala momenti indimenticabili, soprattutto con le “veterane” di questa passerella, ma in ultimo rimane una mossa di marketing deludente e sotto le righe. 

Ci aspettiamo ancora una Adriana Lima che entra da una porta gigantesca con ali nere, Una Gisele vestita da regalo di Natale, Una Tyra che sulle note di Bang Bang di Nancy Sinatra popola l’immaginario femminile dell’erotismo e della sensualità, tutte cose ben lontane dal Victoria’s Secret Fashion Show 2024.

Breve Compendio di mare e di conchiglie

Da sempre ricca di fascino, la conchiglia incarna una serie di significati variegati e legati perlopiù al mondo delle emozioni e dell’inconscio.

Portatrice di bellezza raggiunge l’apice della perfezione nella sua struttura equilibrata e matematica, fonte di ispirazione per artisti e studiosi di ogni epoca.

Rinascita, fecondità, profondità di animo, mistero, femminilità, amore sono solo alcuni dei significati che le sono stati attribuiti nel corso dei secoli. Non resta che meravigliarsi di fronte alla bellezza di questa creazione ricalcata nell’arte di molti.

Home of Pierre Le Tan as seen by Duncan Grant featuring a grotto chair and a seventeen century Venice console. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Portrait of a lady in an allegorical guise, holding a dish of pearls, Pierre Mignard I. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Ancient Egyptian gold cosmetics vessels. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Syrinx Aruanus. Photo from 1950. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Detail from Persia and Andromeda, Joachim Wtewael, 1911. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Nautilus Cup, Holbein Bowl, Glass Goblet and Fruit Dish, detail, Willem Kalf, 1678. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Casa Nautilus, Città del Messico.

Wedgwood collection of pearlware shell plates. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/