Prima delle pagine patinate di Playboy e dell’erotismo moderno esisteva una rivista dal fare peccaminoso, nata in Francia nel 1863.
Si chiamava la Vie Parisienne, la vita Parigina, quasi a voler offrire una finestra sulla realtà di questa bellissima città.
La rivista, pubblicata settimanalmente, continuò ad essere popolare e molto letta sino al 1970, anno in cui non venne più data alle stampe, dopo oltre un secolo di successo.
Nata inizialmente come un mix di diversi aspetti innovativi- dai racconti brevi al gossip e al fashion- nel 1905 prese una direzione totalmente diversa che la orientò su un panorama decisamente erotico per il tempo.
Le pagine peccaminose che ritraevano giovani donne in mise provocanti e seducenti erano viste di cattivo occhio dagli Americani più conservatori durante la I guerra mondiale, tanto che i soldati dell’esercito vennero invitati a non comprare più la rivista, per tutelare il loro spirito.
Elemento importante sono sicuramente le raffigurazioni artistiche realizzate per ciascun numero. Queste inglobano aspetti dell’art Nouveau e Deco ripercorrendo i movimenti artistici del tempo e colorando la scrittura di elementi satirici e intellettuali.
Numerosi scrittori parteciparono alla redazione della rivista, con pubblicazioni occasionali. Tra questi troviamo anche la celeberrima Colette che fu giornalista e scrittrice ed estremamente popolare nel mondo.
Ad oggi la rivista non è più realizzata, ma rimangono delle collezioni sparse per tutto il mondo dove è possibile ammirare i dettagli delle illustrazioni e gli interessi che animavano le persone di cent’anni fa.
Frank Lloyd Wright è sicuramente uno degli esponenti più illustri dell’architettura organica americana.
Nato dopo la prima metà del 1800 da una famiglia abbiente di origini Inglesi e Gallesi, si sposta spesso in gioventù a causa del lavoro del padre. I genitori divorziano quando lui ha solo 18 anni e proprio grazie al cambiamento famigliare così importante si riscopre sempre più profondamente attratto dall’architettura.
Appassionato di arte giapponese, trascorre diversi anni della sua vita nello stesso Giappone dove si lascia influenzare e ispirare per le sue architetture innovative.
Fu un pioniere nell’ambito dell’architettura organica, movimento del XX secolo volto a unire in maniera serena e equilibratal’aspetto architettonico realizzato dall’uomo e la natura circostante.
Questa innovativa corrente di pensiero si trovava in contrasto con il rigore accademico e i classicismi imposti dal secolo precedente. Wright voleva, al contrario, imbrigliare l’essenza delle sue opere in un connubio perfetto di armonia e di rispetto verso l’ambiente circostante. Anche l’arredamento e gli interni risultavano importanti in questa nuova filosofia. Tutto infatti era all’insegna dell’equilibrio per creare uno spazio armonico che non fosse “altro” dall’esterno.
Fece numerosi progetti, oltre 1000, e ne realizzò almeno la metà, in varie parti del mondo.
L’esempio più illustre della sua visione architettonica è sicuramente la casa sulla cascata, o casa Kaufmann.
Questa villa venne realizzata nel ’39 per Edgar J. Kaufmann, un commerciante molto ricco di Pittsburgh, sulle rive del ruscello Bear Run che scorreva liberamente nei boschi dell’ovest della Pennsylvania.
Particolarità della struttura è quella di collocarsi su vari piani sovrapposti che si integrano perfettamente con i cambiamenti naturali del corso d’acqua. Il richiamo alle rocce stratificate circostanti crea un effetto scenico impressionante, dovuto anche alla presenza di una cascata naturale che scorre, quasi letteralmente, attraverso la struttura.
Per la struttura Wright decise di usare del calcestruzzo color beige, in modo da fondere ancora di più l’ambiente architettonico con quello boschivo circostante.
La casa rimase una casa vacanze fino ai primi anni ’60 quando venne donata alla Wester Pennsylvania Conservancy che la fece diventare una casa museo aperta al pubblico e ancora totalmente arredata secondo la visione originaria del suo architetto.
Nel corso degli anni si sono resi necessari dei lavori di manutenzione della struttura, che risultava precaria, con inserimenti in acciaio per sostenere le varie deformazioni.
Nel 2019 è stata inserita nell’UNESCO, insieme ad altre opere con la stessa paternità.
Amore, sesso, incesti e storie lussuriose, condite di crudele realismo e a volte di sfrenato umorismo. Tra le infinite pagine, i sei libri, sono racchiuse vicende, impressioni, personaggi e artisti di altri tempi.
“Questo diario è il mio Kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio. È la mia droga e il mio vizio. Invece di scrivere un romanzo, mi sdraio con questo libro e una penna e indulgo in rifrazioni e diffrazioni”
Queste sono le parole che identificano e definiscono le pagine scritte nell’arco di una vita intera da Anaïs Nin.
Nata non lontano da Parigi nel 1908, Anaïs incontra ben presto l’arte della scrittura quando, abbandonata dal padre, intraprende un lungo viaggio verso la grande America ricca di opportunità.
Durante la traversata scrive con meticolosa puntigliosità i dettagli, le impressioni e le esperienze che vive quotidianamente sotto forma di una lettera indirizzata al padre ormai estraneo.
Tornata a Parigi nel 1929 conosce il mondo letterario francese, colorito delle sue incertezze e peccaminose verità.
Si abbandona ben presto a numerosi amanti, nonostante il matrimonio con Hugh Guiler.
Per lei non c’è molta differenza tra uomini o donne. Apertamente bisessuale e fiera di questa sua propensione non si tirerà mai indietro intrecciando, tra l’altro, un sodalizio letterario-amoroso anche con il famoso Henry Miller e la moglie June Mansfield.
Durante la seconda guerra mondiale a Miller vennero commissionati racconti erotici. Stanco della monotonia di questi, chiese alla Nin, ormai amica e confidente, di provvedere alla stesura di alcune piccole opere al posto suo.
Ben presto le richieste divennero costanti e spinte esclusivamente sul versante sessuale, prive di dettagli di natura sentimentale o sensoriale. La Nin rideva di queste richieste cercando di ampliare il suo repertorio con esperienze personali, esperienze di amici e invenzioni esplicite.
La sua abilità nello scrivere però si concretizza in maniera principale tra le pagine del diario, dove dà libero sfogo a pensieri e considerazioni di qualsiasi natura.
Imbastisce la sua scrittura su modello di Miller, con realismo, attenzione e sguardo alla profondità delle cose. Scrisse fino al 1977, anno della sua morte. Si tratta di un’opera monumentale, 15mila pagine in 150 cartelle, che solo negli anni ’60 vide la sua fortunata pubblicazione, rendendola esponente di spicco del movimento femminista.
La Nin analizzò la vita e le sue perversioni in maniera scandalosa ma onesta, rendendosi portavoce di una realtà che era ben conosciuta e popolare negli anni ’30-’40 a Parigi.
L’amore tormentato, i rapporti spinti con uomini e donne e la descrizione del piacere condiscono i volumi monumentali che rapiscono il lettore. I nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy.
Mai banale, metodica, profonda e sensibile, Anaïs si interessò delle vicende umane con uno sguardo innovativo, spiritoso e profondamente tragico allo stesso tempo.
Il concetto di sex symbol è nato negli anni ’50 per connotare quelle donne con una bellezza travolgente, sensuale ed esotica.
Sotto questa categoria possiamo mettere personaggi che spaziano da Sofia Loren fino a Virna Lisi che con i loro sguardi ammiccanti e le movenze da diva hanno cambiato il panorama cinematografico italiano.
Così come la Loren e la Lisi c’era un’attrice di origini Cubane: Chelo Alonso.
Attrice e showgirl si fece notare come ballerina. Proprio grazie alla sua bravura venne reclutata tra le file de Le Folies Bergère a Parigi, nel 1957, dove danzava con movenze esotiche e lussureggianti. Venne paragonata alla famosissima Josephine Baker e rinominata “Cuban H bomb”.
Da qui si affacciò al mondo del cinema che la vide partecipare a diverse produzioni prevalentemente di avventura dove, piuttosto che al talento recitativo, si guardava all’esteriorità. Bellezza esotica, La Alonso era la scelta preferita di numerosi registi che cercavano una presenza femminile forte e sexy. Partecipò a “Il segno di Roma” del ’59, in cui “rubò”, per così dire, il ruolo di sex symbol alla più famosa Anita Ekberg e a numerose altre produzioni quali “Morgan il pirata” del 1960.
Ormai paladina del film italiano, sebbene non riconosciuta per il talento recitativo ma piuttosto per la forte presenza scenica, sposò Aldo Pomilia da cui ebbe un figlio.
Fece un cameo nel film di Clint Eastwood “Il buono, il brutto e il cattivo” del 1966 e continuò l’esperienza del cinema italiano fino al 1969, per poi dedicarsi prevalentemente alla televisione.
Con l’età abbandonò la recitazione per orientarsi su altre attività quali un hotel a quattro stelle.
Visse per la gran parte della sua vita in Italia, innamorata della nazione e delle sue bellezze.
Si spense nel 2019, a 85 anni.
Di lei ci rimane il ricordo di una bellezza fuori dal comune, quasi da principessa orientale e le danze sensuali che hanno fatto sognare un’intera generazione.
Sembrano le tre cifre finali di un numero di telefono. In realtà questo numero indica parte di un indirizzo: il 291 in Fifth Avenue, Midtown Manhattan, NY.
A questo civico era collocata una famosa galleria d’arte, aperta oltre un secolo fa.
I grandi meriti di questa galleria furono innanzitutto di portare in America la grande tradizione pittorica d’avanguardia Europea. Tra le sue mura vennero infatti esposti i capolavori di Matisse, Picasso, Cezane, Picabia e Duchamp, solo per citarne alcuni.
In secondo luogo, ma non meno importante, espose la fotografia al grande pubblico, conferendogli lo statuto artistico che fino ad allora le mancava.
Il fondatore della galleria, Alfred Stieglitz, era un fotografo egli stesso.
All’inizio del secolo, però, la fotografia mancava di connotazione artistica, sebbene esistessero già dei premi facoltosi per gli aspiranti fotografi. Venivano infatti allestite piccole esposizioni volte a farla conoscere, ma mai in maniera marcata, lasciandola sempre un po’ da parte, quale arte di serie b.
Fu grazie all’amicizia con Edward Steichen, pittore e fotografo, che Alfred riuscì a trovare un sostenitore alle sue idee rivoluzionarie.
Le prime esposizioni non andarono particolarmente bene e la gente era scettica nel concedergli lo spazio per le stesse.
Fu solo nel 1905 che, grazie all’aiuto dell’amico, fu possibile cominciare a porre le basi per quella che sarebbe diventata una delle gallerie più rilevanti dell’intero secolo. Steichen soggiornava proprio al 291 e aveva notato diverse stanze libere. In cerca di nuovi posti in cui esporre pensò subito all’amico a cui si erano chiuse così tante opportunità. Per un intero anno Alfred affittò tre stanze al 291 che sarebbero servite anche a scopi educazionali, per diffondere la sottile arte della luce.
Nella galleria era possibile affittare le stanze per le proprie esposizioni, applicando una percentuale da dare ai proprietari che l’avrebbero immessa nella tesoreria della Photo-seccession, noto movimento di artisti che voleva portare l’attenzione sulla fotografia in un periodo in cui non era ancora considerata al pari della pittura. La prima apertura non ebbe successo, se non nell’ambiente di nicchia da cui provenivano la maggior parte degli espositori.
Seguirono diverse altre istallazioni come quelle di Gertrude Kasebier e Clarence H. White. Con il tempo la galleria ebbe successo e la fotografia fu effettivamente elevata allo statuto artistico che le mancava.
Nel 1908 però l’affitto dei locali venne inaspettatamente raddoppiato causando la chiusura della galleria che non poteva sostenere costi così elevati.
Fortunatamente la chiusura totale e definitiva venne impedita da un neolaureato Harvardiano che, con le ingenti entrate di famiglia, acquistò delle stanze al 293 e le finalizzò all’uso della galleria, permettendo nuova vita alla struttura e alla sua arte. Stieglitz però era rimasto affascinato dall’indirizzo in cui aveva potuto coronare l’inizio della sua avventura e per questo motivo la rinominò 291.
In questo nuovo periodo cominciarono le esposizioni d’arte, arrivando a contare più di 50 mostre l’anno, con artisti di vario calibro. La decisione di orientarsi prevalentemente sull’aspetto della pittura e della scultura non venne vista di buon occhio da tutti. Alcuni appassionati di fotografia si sentirono nuovamente messi in ombra dall’arte che per così tanti anni aveva affascinato i più. Ciò nonostante le mostre continuarono ad andare bene e raccogliere il favore del pubblico che in questo modo poteva conoscere le opere europee e i vari stili artistici che si stavano sviluppando oltre oceano.
Nel 1917 a causa dell’avanzata della prima guerra mondiale e a causa dello scemato entusiasmo per l’arte, la galleria chiuse le sue porte. L’ultima esibizione, proprio di Alfred, si chiamava ” The last days of 291″.
Vi erano ritratti due soldati, uno intento a proteggere l’arte esposta alle sue spalle, e uno ferito quasi mortalmente, proprio mentre compiva il suo sacro dovere di protezione.
Stieglitz aprì altre due gallerie, senza però mai tornare al suo luogo originario, coltivando la sua passione e il suo talento fino all’anno della sua morte, nel 1946.
J.B. Kerfoot disse:
“291 is greater than the sum of all its definitions. For it is a living force, working for both good and evil. To me, 291 has meant an intellectual antidote to the nineteenth century”
Quella che sembra essere una missione impossibile ai più, venne realizzata brillantemente da un artista esponente del realismo americano.
Edward Hopper, annata 1882, fu un grande artista.
Già dalla gioventù manifestò grandi abilità nel disegno e venne incoraggiato dalla famiglia a specializzarsi in questo suo personale talento.
Inizialmente i suoi studi artistici ruotarono attorno ai ritratti e agli autoritratti, soprattutto nel periodo che passò presso la New York School of Arts, dove riuscì a stringere amicizia con vari artisti.
In questo periodo le basi dei suoi dipinti erano di colori particolarmente scuri e le pennellate grosse.
Fu grazie ai numerosi viaggi in varie parti del mondo che lo aiutarono a perfezionare il suo stile e la sua visione. In particolare modo rimase affascinato da Parigi, dove soggiornò in diverse occasioni e per diverso tempo. Qui potè dipingere la vita parigina che scorreva ininterrotta lungo le rive della Senna, con un prospettiva differente rispetto a quella portata avanti da vari artisti che nel medesimo periodo vi soggiornavano.
Vagabondare tra le viuzze pittoresche e trovare un soggetto inaspettato nella quotidianità rappresentavano per Hopper il punto di inizio di un piccolo capolavoro su tela.
Inizialmente i suoi quadri non vendettero ed Edward fu costretto a mantenersi tramite il lavoro di illustratore, che disprezzava.
Per tutta la sua vita rimase affascinato da artisti del calibro di Manet, Monet, Pissarro, Sisley e molti altri, esponenti di una generazione perduta che veniva lentamente rimpiazzata da nuove correnti pittoriche.
Nel 1915 si dedicò brevemente alle incisioni praticando acqueforti per cui ottenne anche svariati premi.
Nel 1918 entrò a far parte del Whitney Studio Club, un famoso club di artisti americani, e nel 1920 fece la sua prima mostra con loro. Il quadro esposto era “Soir Bleu”, titolo ispirato al primo verso della poesia “Sensation” di Rimbaud.
Il fallimento della sua esposizione fu così clamoroso che, per la rabbia, Hopper rifiutò la sua stessa opera, arrotolandola e confinandola in un angolo del suo appartamento, dove fu trovata post mortem.
Il quadro rappresentava una terrazza parigina con vari personaggi intenti a bere, fumare e giocare. L’eterogeneità dei suoi soggetti e il senso di inquietudine che permea dal disegno rimangono un segno distintivo della poetica di Hopper.
Ma la fortuna, ad un certo punto, doveva cominciare a girare.
Nel 1924 alcuni suoi acquerelli vennero esposti a Gloucester dove riscossero un successo inaspettato.
Fu così grande il suo successo e così clamoroso che nel 1925 “Apartment Houses” venne acquistato dalla Pennsylvania Academy e nel 1930 ” Casa Lungo la ferrovia”, che ispirò Hitchcock per la realizzazione della casa di Psycho, divenne parte del MoMA.
Hopper morì nel 1967.
Ad oggi di lui rimangono numerose opere di una bellezza devastante.
Facendo un’analisi approssimativa dei suoi quadri si può notare come il filo conduttore della sua poetica sia il senso di inquietudine e la solitudine, specialmente quella Americana, che contraddistingue i suoi personaggi.
Il tema della luce rimase per Edward di fondamentale importanza e fu proprio la volontà di studiarne le sfaccettature che fece da protagonista in tutti i suoi viaggi, specialmente quelli Francesi.
Gli spazi che ritrae sono sempre piuttosto semplici, bar, cafè, case, ma portano a galla un significato metafisico che sembra non essere, a tratti, pertinente con la loro realtà.
I soggetti che ritrae rimangono vicini sì, fisicamente, ma lontani sul piano delle relazioni, estranei in un contenitore unico, che li raggruppa, ma non li avvicina a livello di anima.
Il fascino della notte viene espresso in diverse opere, come ne “I nottambuli”, dove emerge tutta la forza espressiva di questo talentoso artista.
Se fosse accostabile a delle sensazioni, Hopper sarebbe in grado di regalarci il senso di vuoto, di malinconia, di estraneità, di solitudine, vera e profonda, di fronte alla quotidianità della vita.
La capacità di dipingere il silenzio, che gli venne attribuita da diversi critici, è in effetti la caratteristica più peculiare dei suoi lavori, sin dalla gioventù, in particolar modo nel periodo maturo.
Forse la sua abilità stava proprio nel captare quelle sensazioni dell’animo umano che celiamo a noi stessi e dipingerle su tela con pennellate vigorose e precise, metodiche, mai approssimative.
Come lui stesso disse:
“Non dipingo quello che vedo, dipingo quello che provo”
Yma Súmac fu una cantante peruviana e negli anni ’50 fu l’esponente più illustre della musica esotica.
Le origini di questa straordinaria voce angelica sono avvolte nel mistero.
Alcuni studiosi collocano la sua data di nascita nel 1921, altri nel ’23, altri ancora nel ’29.
Si sa poco anche del suo luogo di nascita. Si presuppone sia il Perù, forse a Lima, per altri invece si trattava di una donna Newyorkese o Canadese che aveva ribaltato il suo nome da Amy Camus al più famoso Yma Súmac.
Di lei si scrissero numerose storie.
Per moltissimo tempo si pensò che fosse una principessa Inca, l’ultima discendente di Atahualpa in persona e che per questo avesse sangue blu e grandi possibilità, colorando la sua storia con l’elemento leggendario.
Quello che sappiamo per certo è che la Sumac fu un’eccellente cantante che sapeva abbracciare note da tessitura di sopranino, soprano, mezzo soprano, contralto, tenore, baritono e basso.
La sua voce si estendeva dalle quattro alle cinque ottave (per alcuni studiosi in certe esibizioni raggiunse le sei ottave) e produsse la nota più acuta mai registrata nella canzone “Chuncho”.
Fu nel 1950 che ebbe l’apice del suo successo. Firmò infatti con la Capitol Records come esponente della musica Inca e Sudamericana.
Interpretò anche due film.
La sua prima esibizione è da collocare nel 1942, in radio, dove stupì e meravigliò il pubblico e cominciò a farsi strada nel mondo artistico dell’epoca.
Negli anni ’70, persa gran parte della notorietà, si diede a un disco rock.
Nella sua carriera fece anche 5 anni di tour mondiale fino all’unione sovietica e si fece conoscere per popolarità in tutto il mondo.
Spirò nel 2008 dopo una lunga battaglia contro il cancro.
Ad oggi rimane la sua incredibile voce, registrata in video YouTube sgranati e preistorici e il suo stile femminile ed esotico che ci perviene dalle innumerevoli fotografie e ci permette di ricordare la vera diva che fu.
Questa fu la definizione che scaturì dalla bocca del re Edoardo VIII quando decise di soggiornare presso l’immensa struttura dello Chateau de L’Horizon nel 1936.
La villa era stata terminata nel 1933 e voluta interamente dalla personalità di Maxine Elliott.
Maxine, nome d’arte di Jessie Dermot, era stata, alla fine del ‘800, una delle dieci attrici teatrali più note al mondo. Aveva avuto una brillante carriera nel mondo dello spettacolo, in gran parte dovuta alla sua bellezza fisica e agli occhi del colore dell’alessandrite.
Dopo aver dato l’addio ufficiale alla recitazione e dopo aver viaggiato in lungo e in largo per i vari continenti, decise di soggiornare definitivamente in Costa Azzurra, luogo magico e dallo spirito fatato.
Qui cominciò la costruzione di una dimora da regina, in stile minimalista, amalgamata perfettamente al paesaggio roccioso circostante. L’architetto ideatore fu Barry Dierks, che seppe realizzare prontamente e puntigliosamente una struttura bassa, bianca e dalle fattezze mediterranee, che potesse essere l’approdo della gente bene di tutto il mondo.
La villa, denominata Chateau de L’Horizon, costruita sulla cresta della roccia, si stagliava sul più blu dei mari, come galleggiante sulla superficie dell’acqua cristallina.
Presentava una piscina, sapientemente organizzata per confondersi con l’orizzonte marino e collegata all’acqua sottostante mediante uno scivolo che permetteva agli ospiti di tuffarsi in mare.
La terrazza, enorme, rappresentava il cuore della vita estiva della casa. Vi erano tende parasole e tavolini disposti all’ombra per permettere il gioco durante i lunghi pomeriggi estivi.
I mobili, da campagna inglese, adornavano ogni angolo delle numerosissime stanze della magione. Gli ospiti fissi, infatti, non erano in grado di dire quante suite e camere da letto- tutte dotate di balcone e bagno privato- ci fossero effettivamente nella struttura.
La vita allo chateau scorreva lenta e festosa.
La colazione si teneva privatamente, ogni ospite presso la propria stanza da letto ordinava il cibo che desiderava e lo consumava sul balcone privato, in un rito che sembra ricordare la discrezione di molti hotel di lusso.
Si procedeva quindi a scendere verso la zona della terrazza, si faceva un bagno in piscina, mettendo in mostra i costumi di moda al tempo e i lunghi parasole di seta orientale.
Il pranzo si teneva alle 13 e di solito vedeva la partecipazione di 30 o 40 commensali ogni giorno.
Il pomeriggio si trascorreva giocando a Bridge, a bazzica a sei mazzi o a backgammon, oziando sdraiati al sole o tuffandosi in mare.
La cena era rigorosamente servita alle 21 e si teneva sotto la pineta della villa, in abito da sera.
Durante le sere estive si poteva ammirare il paesaggio sotto la luce argentea della luna, che quando mancava, veniva sostituita da una finta luna elettrica posta sull’albero più alto.
Lo chateau era immerso nel verde, nel blu e nella tranquillità della costa francese.
Lontano da sguardi invadenti, si prospettava come il luogo ideale per diplomatici, politici e personalità di spicco europee e americane.
Famosi erano i cocktail party che si svolgevano presso le sue bianche mura.
Caratterizzati da stuzzichini e fiumi di champagne, si protraevano per l’intera giornata, a bordo piscina.
Per tutti gli anni ’30, lo chateau, rimase il luogo preferito in cui soggiornare non solo da Winston Churchill, ma anche da Elsa Maxwell, Aga Khan, Cecile Beaton, Beatrice Guinness e molti altri.
La villa garantiva la pace di cui gli ospiti avevano bisogno e ogni comfort per poter saziare le loro aspettative di lusso.
Fu acquistata da Aly Khan negli anni ’40 e qui venne celebrato il matrimonio- definito del secolo- con la bella Rita Hayworth. La piscina fu interamente riempita di acqua di colonia per diffondere il profumo a tutta la villa.
La struttura originaria oggi è stata completamente rivisitata. Difficile scorgere le trame del castello bianco che per oltre 20 anni è stato l’assoluto protagonista della riviera francese. Il giardino grande e ben curato è stato assorbito da nuove costruzioni ampie e moderne.
Lo stile di vita è sempre dedito al lusso, ma forse un lusso decisamente meno sofisticato di quello voluto dalla sua storica proprietaria.
Tra le fastose dimore di ricchi imprenditori e celebrità annoiate si trova una dimora che ha tutta l’aria di essere un piccolo gioiello destinato a vita eterna.
Costruita su ben 15 mila metri quadrati, con una piscina enorme che confonde il suo azzurro con quello del cielo, la casa ha un che di particolare che interessa i più curiosi fan del Grande Liberace.
Strutturata con stanze in stile barocco, affrescata come un paradiso in terra, piena di specchi e chincaglierie di ogni genere, ha la particolarità di avere pianoforti ovunque.
Non solo il celebre strumento per suonare melodie chopeniane, ma proprio pezzi di arredo marmorei ispirati alla struttura stessa del pianoforte… e una piscina piano.
Sì, può sembrare un’esagerazione ai più, ma cosa ci puoi davvero fare con oltre 110 milioni di patrimonio?
La casa è la famosa dimora dell’altrettanto famoso compositore, musicista, attore, showman che è conosciuto con il nome di Liberace.
Enfant prodige della musica- cominciò a 4 anni- ha costruito una solida carriera, facendo della professione di musicista una miniera d’oro.
Liberace, che di nome faceva Walter, cominciò a suonare con la Chicago Symphony Orchestra a soli 20 anni.
La sua arte inizialmente consisteva nel suonare le grandi composizioni classiche. Annoiato dalla monotonia di queste ultime cominciò ben presto a inserire del Pop all’interno del suo repertorio, mixando a suo piacere quelle che erano tradizioni musicali diverse, creando un meraviglioso assetto melodico che incantava il pubblico.
Fu anche la sua abilità di disegnatore di abiti a farlo emergere.
Realizzava infatti costumi di scena elaboratissimi, cosparsi di diamanti e di bottoni d’oro che servivano a valorizzarlo sul palco insieme ad anelli grossi come un dito intero.
Anche la sua nuova concezione di spettacolo lo portò al successo.
Intratteneva gli spettatori e parlava con loro, chiedendo cosa preferissero che suonasse, dando piccole lezioni e esempi di virtuosismo e lasciandosi addirittura abbracciare e baciare dalle fan ammaliate dal suo talento.
Il suo stile eclettico, barocco, prontato sull’immagine di una grande superstar si riflette nelle sue numerose dimore, sparse tra Los Angeles e Las Vegas.
Amedeo è bravissimo e realizza in una velocità impressionante le sue opere, senza mai ritoccarle una volta terminate.
Amedeo però non è un artista con molti soldi e tanto successo nella Parigi logora di alcol e droghe in cui vive.
Predilige i volti o i nudi di donna che riesce a cristallizzare sulla tela insieme all’essenza stessa delle modelle che posano per lui.
Gli occhi sono allungati, definiti, ma non troppo dettagliati. Modì, così lo chiamano gli amici, si discosta dalla tradizione perfetta di un’arte lirica e romantica.
Per lui il concetto stesso di arte è diverso.
Lui vuole imbrigliare le anime delle proprie muse nella tela e lo fa attraverso la semplicità del disegno.
In quest’arte è bravissimo, forse il migliore di Montparnasse e forse ne è addirittura consapevole.
La sera si reca al solito bar a bere assenzio o qualsiasi tipo di alcol per cercare l’ispirazione.
I borghesi, si sa, non sono in grado di comprendere come un grande artista possa trovare la sua luce per una nuova opera. Giudicano e lo giudicano. Ma ad Amedeo non interessa.
Usa droghe, in continuazione, anche questo è parte del delicato equilibrio che ricerca per la sua arte. Ha anche tante donne diverse, amanti, con cui consuma le notti fredde di Parigi.
Rimane però un volto a colpirlo più di ogni altro.
Si tratta del volto di Jeanne, una giovane ragazza, timida, posata, che ha già fatto da modella per Foujito.
Anche lei è a Montparnasse per dipingere.
Vuole diventare una pittrice e Parigi negli anni ’20 è il posto migliore per essere qualsiasi cosa.
Lei è brava, appassionata e Amedeo la rispetta come artista.
Si apprezzano e si innamorano.
è dolce e intenso stare accanto a Modigliani, poterlo abbracciare e rimanere con lui a combattere la malinconia delle lunghe notti francesi. Però è anche difficile. Modì beve tanto e usa tanta droga e questo lo rende instabile.
Diventa plateale nelle sue sbronze e questo a Jeanne non piace. Non piace nemmeno ai suoi genitori che sono contrari alla coppia.
Però il loro amore è forte, saldo e lei sente di avere bisogno di lui almeno tanto quanto lui ha bisogno di lei.
Presto li attende una bambina, Jeanne anch’essa, che li lieta con la sua presenza.
Sono felici anche se gli affari non sembrano andare per un po’.
Poi ecco che Jeanne è di nuovo incinta.
Sono emozionati all’idea di allargare la loro famiglia e credono che presto le cose si sistemeranno e che Amedeo venderà i suoi quadri e si berrà champagne e si farà festa perché tutto va bene. Va come deve andare.
Ma nel Gennaio del 1920 Amedeo si ammala gravemente. La tubercolosi diventa una meningite che lo porta al delirio. Sdraiato su un letto si sta abbandonando alla morte circondato da bottiglie vuote e scatolette di sardine aperte.
In questo momento sembra fragile, consumato dalla sofferenza. Una eco lontana del grande artista che animava le serate dei Bistrot.
Lo portano in ospedale e Jeanne è spaventata.
Il 24 Gennaio Modì spira. E Jeanne entra nella più totale disperazione.
I genitori la portano via, ma ecco che lei incinta e prossima al parto si sente mancare l’aria.
Quel grande artista che ha avuto come compagno è svanito.
E non importano le scene, i litigi, la sofferenza e probabilmente i molti tradimenti. Lei sente di appartenergli e nemmeno l’amore per la piccola Jeanne e per il bambino che porta in grembo sembrano sufficienti.
Così si butta, dal quinto piano, nel vuoto.
E così Jeanne se ne va.
Per anni i due furono tenuti divisi dalla famiglia di lei che non voleva concedere alla figlia defunta di riposare accanto al caro amato.
Dopo dieci anni i due poterono ricongiungersi, in morte, al cimitero di Pere Lachaise.