La star del cinema italiano ormai dimenticata

Il concetto di sex symbol è nato negli anni ’50 per connotare quelle donne con una bellezza travolgente, sensuale ed esotica.

Sotto questa categoria possiamo mettere personaggi che spaziano da Sofia Loren fino a Virna Lisi che con i loro sguardi ammiccanti e le movenze da diva hanno cambiato il panorama cinematografico italiano.

Così come la Loren e la Lisi c’era un’attrice di origini Cubane: Chelo Alonso.

Attrice e showgirl si fece notare come ballerina. Proprio grazie alla sua bravura venne reclutata tra le file de Le Folies Bergère a Parigi, nel 1957, dove danzava con movenze esotiche e lussureggianti. Venne paragonata alla famosissima Josephine Baker e rinominata “Cuban H bomb”.

Da qui si affacciò al mondo del cinema che la vide partecipare a diverse produzioni prevalentemente di avventura dove, piuttosto che al talento recitativo, si guardava all’esteriorità. Bellezza esotica, La Alonso era la scelta preferita di numerosi registi che cercavano una presenza femminile forte e sexy. Partecipò a “Il segno di Roma” del ’59, in cui “rubò”, per così dire, il ruolo di sex symbol alla più famosa Anita Ekberg e a numerose altre produzioni quali “Morgan il pirata” del 1960.

Ormai paladina del film italiano, sebbene non riconosciuta per il talento recitativo ma piuttosto per la forte presenza scenica, sposò Aldo Pomilia da cui ebbe un figlio.

Fece un cameo nel film di Clint Eastwood “Il buono, il brutto e il cattivo” del 1966 e continuò l’esperienza del cinema italiano fino al 1969, per poi dedicarsi prevalentemente alla televisione.

Con l’età abbandonò la recitazione per orientarsi su altre attività quali un hotel a quattro stelle.

Visse per la gran parte della sua vita in Italia, innamorata della nazione e delle sue bellezze.

Si spense nel 2019, a 85 anni.

Di lei ci rimane il ricordo di una bellezza fuori dal comune, quasi da principessa orientale e le danze sensuali che hanno fatto sognare un’intera generazione.

La Galleria d’arte che affascinò NY.

291.

Sembrano le tre cifre finali di un numero di telefono. In realtà questo numero indica parte di un indirizzo: il 291 in Fifth Avenue, Midtown Manhattan, NY.

A questo civico era collocata una famosa galleria d’arte, aperta oltre un secolo fa.

291 Midtown Manhattan, NY.

I grandi meriti di questa galleria furono innanzitutto di portare in America la grande tradizione pittorica d’avanguardia Europea. Tra le sue mura vennero infatti esposti i capolavori di Matisse, Picasso, Cezane, Picabia e Duchamp, solo per citarne alcuni.

In secondo luogo, ma non meno importante, espose la fotografia al grande pubblico, conferendogli lo statuto artistico che fino ad allora le mancava.

Alfred Stieglitz e la moglie Georgia O’Keeffe (?), dopo il 1917

Il fondatore della galleria, Alfred Stieglitz, era un fotografo egli stesso.

All’inizio del secolo, però, la fotografia mancava di connotazione artistica, sebbene esistessero già dei premi facoltosi per gli aspiranti fotografi. Venivano infatti allestite piccole esposizioni volte a farla conoscere, ma mai in maniera marcata, lasciandola sempre un po’ da parte, quale arte di serie b.

Fu grazie all’amicizia con Edward Steichen, pittore e fotografo, che Alfred riuscì a trovare un sostenitore alle sue idee rivoluzionarie.

Le prime esposizioni non andarono particolarmente bene e la gente era scettica nel concedergli lo spazio per le stesse.

Fu solo nel 1905 che, grazie all’aiuto dell’amico, fu possibile cominciare a porre le basi per quella che sarebbe diventata una delle gallerie più rilevanti dell’intero secolo. Steichen soggiornava proprio al 291 e aveva notato diverse stanze libere. In cerca di nuovi posti in cui esporre pensò subito all’amico a cui si erano chiuse così tante opportunità. Per un intero anno Alfred affittò tre stanze al 291 che sarebbero servite anche a scopi educazionali, per diffondere la sottile arte della luce.

Esposizione fotografica alla 291 Gallery

Nella galleria era possibile affittare le stanze per le proprie esposizioni, applicando una percentuale da dare ai proprietari che l’avrebbero immessa nella tesoreria della Photo-seccession, noto movimento di artisti che voleva portare l’attenzione sulla fotografia in un periodo in cui non era ancora considerata al pari della pittura. La prima apertura non ebbe successo, se non nell’ambiente di nicchia da cui provenivano la maggior parte degli espositori.

Seguirono diverse altre istallazioni come quelle di Gertrude Kasebier e Clarence H. White. Con il tempo la galleria ebbe successo e la fotografia fu effettivamente elevata allo statuto artistico che le mancava.

Nel 1908 però l’affitto dei locali venne inaspettatamente raddoppiato causando la chiusura della galleria che non poteva sostenere costi così elevati.

Fortunatamente la chiusura totale e definitiva venne impedita da un neolaureato Harvardiano che, con le ingenti entrate di famiglia, acquistò delle stanze al 293 e le finalizzò all’uso della galleria, permettendo nuova vita alla struttura e alla sua arte. Stieglitz però era rimasto affascinato dall’indirizzo in cui aveva potuto coronare l’inizio della sua avventura e per questo motivo la rinominò 291.

In questo nuovo periodo cominciarono le esposizioni d’arte, arrivando a contare più di 50 mostre l’anno, con artisti di vario calibro. La decisione di orientarsi prevalentemente sull’aspetto della pittura e della scultura non venne vista di buon occhio da tutti. Alcuni appassionati di fotografia si sentirono nuovamente messi in ombra dall’arte che per così tanti anni aveva affascinato i più. Ciò nonostante le mostre continuarono ad andare bene e raccogliere il favore del pubblico che in questo modo poteva conoscere le opere europee e i vari stili artistici che si stavano sviluppando oltre oceano.

Esposizione alla 291 Gallery

291 Gallery, Esposizione di Constantine Brancusi, 1914

Nel 1917 a causa dell’avanzata della prima guerra mondiale e a causa dello scemato entusiasmo per l’arte, la galleria chiuse le sue porte. L’ultima esibizione, proprio di Alfred, si chiamava ” The last days of 291″.

Vi erano ritratti due soldati, uno intento a proteggere l’arte esposta alle sue spalle, e uno ferito quasi mortalmente, proprio mentre compiva il suo sacro dovere di protezione.

Stieglitz aprì altre due gallerie, senza però mai tornare al suo luogo originario, coltivando la sua passione e il suo talento fino all’anno della sua morte, nel 1946.

Esposizione di Elie Nadelman, 1915, 291 Gallery.

J.B. Kerfoot disse:

291 is greater than the sum of all its definitions. For it is a living force, working for both good and evil. To me, 291 has meant an intellectual antidote to the nineteenth century”

L’artista che dipinse il silenzio

Quella che sembra essere una missione impossibile ai più, venne realizzata brillantemente da un artista esponente del realismo americano.

Edward Hopper, annata 1882, fu un grande artista.

Già dalla gioventù manifestò grandi abilità nel disegno e venne incoraggiato dalla famiglia a specializzarsi in questo suo personale talento.

Inizialmente i suoi studi artistici ruotarono attorno ai ritratti e agli autoritratti, soprattutto nel periodo che passò presso la New York School of Arts, dove riuscì a stringere amicizia con vari artisti.

In questo periodo le basi dei suoi dipinti erano di colori particolarmente scuri e le pennellate grosse.

Fu grazie ai numerosi viaggi in varie parti del mondo che lo aiutarono a perfezionare il suo stile e la sua visione. In particolare modo rimase affascinato da Parigi, dove soggiornò in diverse occasioni e per diverso tempo. Qui potè dipingere la vita parigina che scorreva ininterrotta lungo le rive della Senna, con un prospettiva differente rispetto a quella portata avanti da vari artisti che nel medesimo periodo vi soggiornavano.

Vagabondare tra le viuzze pittoresche e trovare un soggetto inaspettato nella quotidianità rappresentavano per Hopper il punto di inizio di un piccolo capolavoro su tela.

Inizialmente i suoi quadri non vendettero ed Edward fu costretto a mantenersi tramite il lavoro di illustratore, che disprezzava.

Per tutta la sua vita rimase affascinato da artisti del calibro di Manet, Monet, Pissarro, Sisley e molti altri, esponenti di una generazione perduta che veniva lentamente rimpiazzata da nuove correnti pittoriche.

Nel 1915 si dedicò brevemente alle incisioni praticando acqueforti per cui ottenne anche svariati premi.

Nel 1918 entrò a far parte del Whitney Studio Club, un famoso club di artisti americani, e nel 1920 fece la sua prima mostra con loro. Il quadro esposto era “Soir Bleu”, titolo ispirato al primo verso della poesia “Sensation” di Rimbaud.

Soir Bleu, Edward Hopper,1914

Il fallimento della sua esposizione fu così clamoroso che, per la rabbia, Hopper rifiutò la sua stessa opera, arrotolandola e confinandola in un angolo del suo appartamento, dove fu trovata post mortem.

Il quadro rappresentava una terrazza parigina con vari personaggi intenti a bere, fumare e giocare. L’eterogeneità dei suoi soggetti e il senso di inquietudine che permea dal disegno rimangono un segno distintivo della poetica di Hopper.

Ma la fortuna, ad un certo punto, doveva cominciare a girare.

Nel 1924 alcuni suoi acquerelli vennero esposti a Gloucester dove riscossero un successo inaspettato.

Fu così grande il suo successo e così clamoroso che nel 1925 “Apartment Houses” venne acquistato dalla Pennsylvania Academy e nel 1930 ” Casa Lungo la ferrovia”, che ispirò Hitchcock per la realizzazione della casa di Psycho, divenne parte del MoMA.

Casa lungo la ferrovia, Edward Hopper, 1925, olio su tela.

Hopper morì nel 1967.

Ad oggi di lui rimangono numerose opere di una bellezza devastante.

Facendo un’analisi approssimativa dei suoi quadri si può notare come il filo conduttore della sua poetica sia il senso di inquietudine e la solitudine, specialmente quella Americana, che contraddistingue i suoi personaggi.

Il tema della luce rimase per Edward di fondamentale importanza e fu proprio la volontà di studiarne le sfaccettature che fece da protagonista in tutti i suoi viaggi, specialmente quelli Francesi.

Gli spazi che ritrae sono sempre piuttosto semplici, bar, cafè, case, ma portano a galla un significato metafisico che sembra non essere, a tratti, pertinente con la loro realtà.

I soggetti che ritrae rimangono vicini sì, fisicamente, ma lontani sul piano delle relazioni, estranei in un contenitore unico, che li raggruppa, ma non li avvicina a livello di anima.

Il fascino della notte viene espresso in diverse opere, come ne “I nottambuli”, dove emerge tutta la forza espressiva di questo talentoso artista.

Edward Hopper, I nottambuli, 1942, olio su tela.

Se fosse accostabile a delle sensazioni, Hopper sarebbe in grado di regalarci il senso di vuoto, di malinconia, di estraneità, di solitudine, vera e profonda, di fronte alla quotidianità della vita.

La capacità di dipingere il silenzio, che gli venne attribuita da diversi critici, è in effetti la caratteristica più peculiare dei suoi lavori, sin dalla gioventù, in particolar modo nel periodo maturo.

Night Windows, Edward Hopper, 1928

Forse la sua abilità stava proprio nel captare quelle sensazioni dell’animo umano che celiamo a noi stessi e dipingerle su tela con pennellate vigorose e precise, metodiche, mai approssimative.

Come lui stesso disse:

“Non dipingo quello che vedo, dipingo quello che provo”

Gas, Edward Hopper, 1940, olio su tela

Automat, Edward Hopper, 1927

L’ultima principessa Inca

Yma Súmac fu una cantante peruviana e negli anni ’50 fu l’esponente più illustre della musica esotica.

Le origini di questa straordinaria voce angelica sono avvolte nel mistero.

Alcuni studiosi collocano la sua data di nascita nel 1921, altri nel ’23, altri ancora nel ’29.

Si sa poco anche del suo luogo di nascita. Si presuppone sia il Perù, forse a Lima, per altri invece si trattava di una donna Newyorkese o Canadese che aveva ribaltato il suo nome da Amy Camus al più famoso Yma Súmac.

Di lei si scrissero numerose storie.

Per moltissimo tempo si pensò che fosse una principessa Inca, l’ultima discendente di Atahualpa in persona e che per questo avesse sangue blu e grandi possibilità, colorando la sua storia con l’elemento leggendario.

Quello che sappiamo per certo è che la Sumac fu un’eccellente cantante che sapeva abbracciare note da tessitura di sopranino, soprano, mezzo soprano, contralto, tenore, baritono e basso.

La sua voce si estendeva dalle quattro alle cinque ottave (per alcuni studiosi in certe esibizioni raggiunse le sei ottave) e produsse la nota più acuta mai registrata nella canzone “Chuncho”.

Fu nel 1950 che ebbe l’apice del suo successo. Firmò infatti con la Capitol Records come esponente della musica Inca e Sudamericana.

Interpretò anche due film.

La sua prima esibizione è da collocare nel 1942, in radio, dove stupì e meravigliò il pubblico e cominciò a farsi strada nel mondo artistico dell’epoca.

Negli anni ’70, persa gran parte della notorietà, si diede a un disco rock.

Nella sua carriera fece anche 5 anni di tour mondiale fino all’unione sovietica e si fece conoscere per popolarità in tutto il mondo.

Spirò nel 2008 dopo una lunga battaglia contro il cancro.

Ad oggi rimane la sua incredibile voce, registrata in video YouTube sgranati e preistorici e il suo stile femminile ed esotico che ci perviene dalle innumerevoli fotografie e ci permette di ricordare la vera diva che fu.

Il palazzo in un sogno incantato

Questa fu la definizione che scaturì dalla bocca del re Edoardo VIII quando decise di soggiornare presso l’immensa struttura dello Chateau de L’Horizon nel 1936.

La villa era stata terminata nel 1933 e voluta interamente dalla personalità di Maxine Elliott.

Maxine, nome d’arte di Jessie Dermot, era stata, alla fine del ‘800, una delle dieci attrici teatrali più note al mondo. Aveva avuto una brillante carriera nel mondo dello spettacolo, in gran parte dovuta alla sua bellezza fisica e agli occhi del colore dell’alessandrite.

Dopo aver dato l’addio ufficiale alla recitazione e dopo aver viaggiato in lungo e in largo per i vari continenti, decise di soggiornare definitivamente in Costa Azzurra, luogo magico e dallo spirito fatato.

Qui cominciò la costruzione di una dimora da regina, in stile minimalista, amalgamata perfettamente al paesaggio roccioso circostante. L’architetto ideatore fu Barry Dierks, che seppe realizzare prontamente e puntigliosamente una struttura bassa, bianca e dalle fattezze mediterranee, che potesse essere l’approdo della gente bene di tutto il mondo.

La villa, denominata Chateau de L’Horizon, costruita sulla cresta della roccia, si stagliava sul più blu dei mari, come galleggiante sulla superficie dell’acqua cristallina.

Presentava una piscina, sapientemente organizzata per confondersi con l’orizzonte marino e collegata all’acqua sottostante mediante uno scivolo che permetteva agli ospiti di tuffarsi in mare.

La terrazza, enorme, rappresentava il cuore della vita estiva della casa. Vi erano tende parasole e tavolini disposti all’ombra per permettere il gioco durante i lunghi pomeriggi estivi.

I mobili, da campagna inglese, adornavano ogni angolo delle numerosissime stanze della magione. Gli ospiti fissi, infatti, non erano in grado di dire quante suite e camere da letto- tutte dotate di balcone e bagno privato- ci fossero effettivamente nella struttura.

Swimming pool on Prince Ali Khan’s estate, The Chateau de l’Horizon. (Photo by John Swope/Getty Images)

Winston Churchill presso la villa

La vita allo chateau scorreva lenta e festosa.

La colazione si teneva privatamente, ogni ospite presso la propria stanza da letto ordinava il cibo che desiderava e lo consumava sul balcone privato, in un rito che sembra ricordare la discrezione di molti hotel di lusso.

Si procedeva quindi a scendere verso la zona della terrazza, si faceva un bagno in piscina, mettendo in mostra i costumi di moda al tempo e i lunghi parasole di seta orientale.

Il pranzo si teneva alle 13 e di solito vedeva la partecipazione di 30 o 40 commensali ogni giorno.

Il pomeriggio si trascorreva giocando a Bridge, a bazzica a sei mazzi o a backgammon, oziando sdraiati al sole o tuffandosi in mare.

La cena era rigorosamente servita alle 21 e si teneva sotto la pineta della villa, in abito da sera.

Durante le sere estive si poteva ammirare il paesaggio sotto la luce argentea della luna, che quando mancava, veniva sostituita da una finta luna elettrica posta sull’albero più alto.

Lo chateau era immerso nel verde, nel blu e nella tranquillità della costa francese.

Lontano da sguardi invadenti, si prospettava come il luogo ideale per diplomatici, politici e personalità di spicco europee e americane.

Famosi erano i cocktail party che si svolgevano presso le sue bianche mura.

Caratterizzati da stuzzichini e fiumi di champagne, si protraevano per l’intera giornata, a bordo piscina.

Per tutti gli anni ’30, lo chateau, rimase il luogo preferito in cui soggiornare non solo da Winston Churchill, ma anche da Elsa Maxwell, Aga Khan, Cecile Beaton, Beatrice Guinness e molti altri.

La villa garantiva la pace di cui gli ospiti avevano bisogno e ogni comfort per poter saziare le loro aspettative di lusso.

Fu acquistata da Aly Khan negli anni ’40 e qui venne celebrato il matrimonio- definito del secolo- con la bella Rita Hayworth. La piscina fu interamente riempita di acqua di colonia per diffondere il profumo a tutta la villa.

La struttura originaria oggi è stata completamente rivisitata. Difficile scorgere le trame del castello bianco che per oltre 20 anni è stato l’assoluto protagonista della riviera francese. Il giardino grande e ben curato è stato assorbito da nuove costruzioni ampie e moderne.

Lo stile di vita è sempre dedito al lusso, ma forse un lusso decisamente meno sofisticato di quello voluto dalla sua storica proprietaria.

Case melodiose per artisti alternativi

Los Angeles, California.

Tra le fastose dimore di ricchi imprenditori e celebrità annoiate si trova una dimora che ha tutta l’aria di essere un piccolo gioiello destinato a vita eterna.

Costruita su ben 15 mila metri quadrati, con una piscina enorme che confonde il suo azzurro con quello del cielo, la casa ha un che di particolare che interessa i più curiosi fan del Grande Liberace.

Strutturata con stanze in stile barocco, affrescata come un paradiso in terra, piena di specchi e chincaglierie di ogni genere, ha la particolarità di avere pianoforti ovunque.

Non solo il celebre strumento per suonare melodie chopeniane, ma proprio pezzi di arredo marmorei ispirati alla struttura stessa del pianoforte… e una piscina piano.

Dettagli della stanza da letto di Liberace, in una delle sue famose case.

Stanza di una delle dimore di Liberace

Sì, può sembrare un’esagerazione ai più, ma cosa ci puoi davvero fare con oltre 110 milioni di patrimonio?

La casa è la famosa dimora dell’altrettanto famoso compositore, musicista, attore, showman che è conosciuto con il nome di Liberace.

Enfant prodige della musica- cominciò a 4 anni- ha costruito una solida carriera, facendo della professione di musicista una miniera d’oro.

Liberace, che di nome faceva Walter, cominciò a suonare con la Chicago Symphony Orchestra a soli 20 anni.

La sua arte inizialmente consisteva nel suonare le grandi composizioni classiche. Annoiato dalla monotonia di queste ultime cominciò ben presto a inserire del Pop all’interno del suo repertorio, mixando a suo piacere quelle che erano tradizioni musicali diverse, creando un meraviglioso assetto melodico che incantava il pubblico.

Fu anche la sua abilità di disegnatore di abiti a farlo emergere.

Realizzava infatti costumi di scena elaboratissimi, cosparsi di diamanti e di bottoni d’oro che servivano a valorizzarlo sul palco insieme ad anelli grossi come un dito intero.

Anche la sua nuova concezione di spettacolo lo portò al successo.

Intratteneva gli spettatori e parlava con loro, chiedendo cosa preferissero che suonasse, dando piccole lezioni e esempi di virtuosismo e lasciandosi addirittura abbracciare e baciare dalle fan ammaliate dal suo talento.

Il suo stile eclettico, barocco, prontato sull’immagine di una grande superstar si riflette nelle sue numerose dimore, sparse tra Los Angeles e Las Vegas.

Per un tour completo:

Jeanne e Modì : la storia d’amore più tragica di tutti i tempi

Amedeo ama dipingere.

Amedeo è bravissimo e realizza in una velocità impressionante le sue opere, senza mai ritoccarle una volta terminate.

Amedeo però non è un artista con molti soldi e tanto successo nella Parigi logora di alcol e droghe in cui vive.

Predilige i volti o i nudi di donna che riesce a cristallizzare sulla tela insieme all’essenza stessa delle modelle che posano per lui.

Gli occhi sono allungati, definiti, ma non troppo dettagliati. Modì, così lo chiamano gli amici, si discosta dalla tradizione perfetta di un’arte lirica e romantica.

Per lui il concetto stesso di arte è diverso.

Lui vuole imbrigliare le anime delle proprie muse nella tela e lo fa attraverso la semplicità del disegno.

In quest’arte è bravissimo, forse il migliore di Montparnasse e forse ne è addirittura consapevole.

La sera si reca al solito bar a bere assenzio o qualsiasi tipo di alcol per cercare l’ispirazione.

I borghesi, si sa, non sono in grado di comprendere come un grande artista possa trovare la sua luce per una nuova opera. Giudicano e lo giudicano. Ma ad Amedeo non interessa.

Usa droghe, in continuazione, anche questo è parte del delicato equilibrio che ricerca per la sua arte. Ha anche tante donne diverse, amanti, con cui consuma le notti fredde di Parigi.

Amedeo Modigliani at his studio in Paris Ca. 1915, Photo by Paul Guilliaume. Beatrice hastings and Raymond portraits can be seen

Rimane però un volto a colpirlo più di ogni altro.

Si tratta del volto di Jeanne, una giovane ragazza, timida, posata, che ha già fatto da modella per Foujito.

Anche lei è a Montparnasse per dipingere.

Vuole diventare una pittrice e Parigi negli anni ’20 è il posto migliore per essere qualsiasi cosa.

Lei è brava, appassionata e Amedeo la rispetta come artista.

Si apprezzano e si innamorano.

è dolce e intenso stare accanto a Modigliani, poterlo abbracciare e rimanere con lui a combattere la malinconia delle lunghe notti francesi. Però è anche difficile. Modì beve tanto e usa tanta droga e questo lo rende instabile.

Diventa plateale nelle sue sbronze e questo a Jeanne non piace. Non piace nemmeno ai suoi genitori che sono contrari alla coppia.

Però il loro amore è forte, saldo e lei sente di avere bisogno di lui almeno tanto quanto lui ha bisogno di lei.

Presto li attende una bambina, Jeanne anch’essa, che li lieta con la sua presenza.

Sono felici anche se gli affari non sembrano andare per un po’.

Poi ecco che Jeanne è di nuovo incinta.

Sono emozionati all’idea di allargare la loro famiglia e credono che presto le cose si sistemeranno e che Amedeo venderà i suoi quadri e si berrà champagne e si farà festa perché tutto va bene. Va come deve andare.

Ma nel Gennaio del 1920 Amedeo si ammala gravemente. La tubercolosi diventa una meningite che lo porta al delirio. Sdraiato su un letto si sta abbandonando alla morte circondato da bottiglie vuote e scatolette di sardine aperte.

In questo momento sembra fragile, consumato dalla sofferenza. Una eco lontana del grande artista che animava le serate dei Bistrot.

Lo portano in ospedale e Jeanne è spaventata.

Il 24 Gennaio Modì spira. E Jeanne entra nella più totale disperazione.

I genitori la portano via, ma ecco che lei incinta e prossima al parto si sente mancare l’aria.

Quel grande artista che ha avuto come compagno è svanito.

E non importano le scene, i litigi, la sofferenza e probabilmente i molti tradimenti. Lei sente di appartenergli e nemmeno l’amore per la piccola Jeanne e per il bambino che porta in grembo sembrano sufficienti.

Così si butta, dal quinto piano, nel vuoto.

E così Jeanne se ne va.

Per anni i due furono tenuti divisi dalla famiglia di lei che non voleva concedere alla figlia defunta di riposare accanto al caro amato.

Dopo dieci anni i due poterono ricongiungersi, in morte, al cimitero di Pere Lachaise.

E la lapide di Jeanne recita:

“Devoted companion to the extreme sacrifice”

Hedy, il genio più bello del mondo

Hedy Lamarr è principalmente nota per la sua carriera cinematografica.

Negli anni ’40 realizzò centinaia di produzioni come protagonista assoluta, insieme alla sua bellezza esotica che stupiva e incantava lo spettatore.

Pseudonimo di Hedwig Eva Maria Kiesler, Hedy, crebbe in Austria dove si affacciò al mondo della recitazione sin dai 16 anni.

La sua più famosa recitazione rimarrà quella nel film “Estasi” del 1932, che la vide impegnata in una scena di nudo quasi integrale che destò moltissimo scalpore e bloccò la circolazione del film per diversi anni.

La Lamarr disse di non essere a conoscenza della scena stessa che doveva svolgersi in un fiume e che fu principalmente il regista che la sollecitò ad esporsi in quanto sotto contratto.

Hedy non rimase sicuramente felice della scelta, ma tuttavia si mostrava molto naturale nei confronti dell’aspetto amoroso-sessuale e non fu mai restia a mostrarsi o a celebrare questo aspetto della vita umana.

Ebrea di nascita, fu costretta a fuggire su un transatlantico verso l’America quando le cose in Europa cominciarono a diventare difficili.

Durante la seconda guerra mondiale, pur recitando in diverse produzioni, rimase molto ancorata alle sue capacità logiche che in passato l’avevano vista cominciare la facoltà di ingegneria all’università e le avevano conferito l’appellativo di “genio”.

Hedy infatti aveva un quoziente intellettivo estremamente alto e veniva considerata una promessa della scienza oltre che bellissima.

Fu proprio grazie alle sue capacità analitiche e alla sua perspicacia che nel 1941 depositò il brevetto n. 2.292.387 per aiutare durante la guerra che stava imperversando in tutta Europa.

La sua idea era basata principalmente su nozioni apprese autonomamente e sui discorsi che aveva potuto sentire in casa del primo marito, Fritz Mandl, armiere, che l’aveva abbandonata nel ’38, facendo sciogliere il matrimonio per motivi razziali.

Il brevetto che depositò insieme all’amico George Antheil, compositore di avanguardia vicino al movimento surrealista, venne bocciato dalla marina militare e considerato inutilizzabile per i fini bellici.

Questo prevedeva la possibilità di un salto di frequenza per contrastare i segnali radio dei nemici.

Inutile dire che l’invenzione si rivelò utile in seguito: nel ’62 la sua idea venne utilizzata sulle navi impegnate nel Blocco di Cuba.

Nel 1985 il suo brevetto finalmente venne riconosciuto meritevole, anche con premi in denaro e riconoscimenti pubblici, uno dei quali fu l’istituzione del “giorno degli inventori” in Austria, Svizzera e Germania, il 9 Novembre, giorno del suo compleanno.

La sua vita fu difficile. Come disse lei la sua bellezza e il suo sex-appeal la fecero sfondare nel mondo del cinema, ma in ultimo, come ogni attrice del periodo, fu sottoposta a diete ferree per il controllo dell’aspetto e all’assunzione di droghe pesanti per poter sostenere gli estenuanti ritmi di lavoro sui set.

Fu considerata per gran parte della sua vita una sciocca attrice, priva di vero talento, propensa solo a mostrarsi nuda di fronte alla moralità imperante del tempo.

In realtà fu un’inventrice brillante, una lettrice accanita, sia di opere letterario-artistiche che di materiale tecnico, e fu sicuramente una grande personalità sullo schermo.

Morì nel 2000 di un infarto, lasciando un ricordo indelebile per coloro che hanno avuto il privilegio di vederla dal vivo o assaporare le sue considerazioni in merito ad ogni aspetto della vita.

I mondi fantastici di Errol Le Cain

Un tempo sfogliando i libri per bambini si potevano trovare delle illustrazioni di pregiatissima fattura. Lontane dalla mondanità banale che impervia in ogni ambiente, tramite questo grande artista abbiamo ancora uno scorcio di romanticismo verso il passato.

Errol John Le Cain nacque nel lontano 1941.

La sua vita fu ispirata dai numerosi luoghi in cui visse in gioventù.

Da Singapore ad Agra, per poi sbarcare a Londra, Errol assorbì tutte le sfumature di colore e fantasia che riuscì a scovare nei suoi peregrinaggi con la famiglia.

Già all’età di 11 anni esplorò la realizzazione del suo primo film, in 8 mm, chiamato “The Enchanted Mouse”.

L’animazione fu il suo primo amore che coltivò con molta dedizione durante tutto il corso della sua vita, arrivando a lavorare come freelancer nel 1969 con la BCC.

Lavorò alla realizzazione di “The Snow Queen” di Anderson, dove recitavano attori su sfondi realizzati dalla sua mano abile ed esperta.

Pubblicò 3 libri di sua invenzione e ne illustrò 48 a partire dal 1979.

Errol venne a mancare in giovane età a causa di una malattia, nel 1987.

Guardando le sue illustrazioni si può ritrovare la tradizione orientale che accompagnò i suoi lavori, ispirata proprio dall’ambiente in cui visse nei primi anni di vita.

L’elemento fantastico che emerge in maniera esotica non appesantisce la storia, ma piuttosto la integra per colorarla di aspetti e sfumature che permangono nella mente dell’osservatore.

Niki De Saint Phalle, pioniera del nuovo realismo

Pseudonimo di Catherine Marie Agnès Fal de Saint Phalle, Niki per coloro che la conoscono con il suo nome d’arte, nacque sulla fine di un Ottobre freddo, nel 1930, in Francia.

Sin da bambina manifestò la sua naturale ribellione ai sistemi e alle norme impostale, cambiando spesso scuola proprio a causa delle sue idee radicali e dei suoi comportamenti selvaggi.

Ad 11 anni rimase traumatizzata dal tentativo di abuso da parte del padre, tentativo che lei stessa cercò di esorcizzare in moltissime sue opere posteriori.

Inizialmente, data la sua naturale bellezza fisica, cominciò una carriera come fotomodella presso Vogue e Life, carriera che però non fu l’unico approccio al mondo dell’arte.

Niki fu poliedrica nella sua visione del mondo. Non fu mai solo una cosa, solo una fotomodella, solo un’artista, ma esplorò nel corso degli anni ogni possibilità che riuscisse a nutrire il suo animo ferito.

Proprio dall’estremo dolore patito in gioventù a causa delle colpe familiari, nel 1952 soffrì di un terribile esaurimento nervoso che la vide chiedere aiuto in una clinica per disturbi mentali, dove soggiornò diverso tempo.

Proprio in questo contesto per niente fastoso, l’artista riuscì veramente a concentrare le sue energie sul lavoro artistico, realizzando opere che come lei stessa definì, erano una sorta di medicina per lo spirito.

E fu così che trovò la sua chiamata.

A partire dagli anni ’60 cominciò a realizzare opere denominate “shooting paintings”. Il nome, chiaro, rappresenta dei quadri realizzati sparando con una carabina a dei sacchetti di colore, che si spandono sulla tela come ferite e squarci.

Spesso, sullo sfondo della tela, Niki disegnò una figura maschili, memore della figura paterna che fu protagonista della tragedia.

A questo punto della sua carriera, la De Saint Phalle, veicolò nel suo lavoro tutto il suo stato emotivo, portando avanti un’arte concettuale di estremo valore che la vide anche partecipe di un gruppo d’avanguardia: i “Nouveaux realistes”.

Fu solo a partire dal 1965 che decise di introdurre figure femminili nelle sue opere.

Da qui incominciò la realizzazione di grandi strutture, denominate la “Nana”, in cui prevalevano le fattezze femminili e i colori sgargianti.

Fu l’anno successivo che la vide protagonista della realizzazione di un’opera monumentale di straordinaria importanza. Il Moderna Museet di Stoccolma le chiese infatti un’opera da poter esporre tra le sue sale e Niki seppe perfettamente cosa creare.

Si trattava di una Nana di 28 metri di lunghezza, 6 di altezza e 9 di lunghezza che rappresentava una donna in procinto di partorire e rinominata “She- a Cathedral”.

Nel seno sinistro della struttura femminile fu inserito un planetario e in quello destro un bistrot per gli ospiti che potevano calorosamente entrare attraverso la vagina della statua.

La cattedrale doveva rappresentare la figura femminile e la sua potenza creatrice.

Dopo il matrimonio con Jean Tinguely cominciò la realizzazione del “Giardino dei Tarocchi”, a Garavicchio, Capalbio (Toscana). Il lavoro la impegnò per 17 lunghi anni, in cui dispose le strutture base di cemento armato e cominciò a ricoprirle di pezzi di vetro, mosaici e ceramiche colorate, conferendo all’opera un aspetto variegato, mai banale, alternativo e fantasioso.

Il costo del parco fu decisamente alto e per finanziarsi Niki decise di pubblicare libri e creare una sua personale linea di profumi.

Proprio per questi motivi non può essere considerata un’artista convenzionale.

I temi principali delle sue opere rimangono di carattere mitologico, principalmente esasperando il tema della vendetta, del dolore e della paura, ma apportando altrettanta importanza a significati ricchi in positività.

Usò sempre colori vivi, per arrivare allo spettatore più facilmente, e carichi di significati metafisici.

Il rosso era il rosso della forza creatrice, innovativa e potente, vibrante e immediata; il verde rappresentava la vitalità, il blu la profondità di pensiero e la forza di volontà che contraddistingue l’essere umano; il bianco la purezza, il nero il dolore ed infine l’oro, colore dell’intelligenza e della spiritualità.

Niki morì nel 2002 per problemi respiratori. Dopo la sua morte fu onorata come artista di grandissima importanza in tutto il mondo, partendo dal MoMa di New York che tenne diverse mostre su di lei e sulla sua produzione.