Case melodiose per artisti alternativi

Los Angeles, California.

Tra le fastose dimore di ricchi imprenditori e celebrità annoiate si trova una dimora che ha tutta l’aria di essere un piccolo gioiello destinato a vita eterna.

Costruita su ben 15 mila metri quadrati, con una piscina enorme che confonde il suo azzurro con quello del cielo, la casa ha un che di particolare che interessa i più curiosi fan del Grande Liberace.

Strutturata con stanze in stile barocco, affrescata come un paradiso in terra, piena di specchi e chincaglierie di ogni genere, ha la particolarità di avere pianoforti ovunque.

Non solo il celebre strumento per suonare melodie chopeniane, ma proprio pezzi di arredo marmorei ispirati alla struttura stessa del pianoforte… e una piscina piano.

Dettagli della stanza da letto di Liberace, in una delle sue famose case.

Stanza di una delle dimore di Liberace

Sì, può sembrare un’esagerazione ai più, ma cosa ci puoi davvero fare con oltre 110 milioni di patrimonio?

La casa è la famosa dimora dell’altrettanto famoso compositore, musicista, attore, showman che è conosciuto con il nome di Liberace.

Enfant prodige della musica- cominciò a 4 anni- ha costruito una solida carriera, facendo della professione di musicista una miniera d’oro.

Liberace, che di nome faceva Walter, cominciò a suonare con la Chicago Symphony Orchestra a soli 20 anni.

La sua arte inizialmente consisteva nel suonare le grandi composizioni classiche. Annoiato dalla monotonia di queste ultime cominciò ben presto a inserire del Pop all’interno del suo repertorio, mixando a suo piacere quelle che erano tradizioni musicali diverse, creando un meraviglioso assetto melodico che incantava il pubblico.

Fu anche la sua abilità di disegnatore di abiti a farlo emergere.

Realizzava infatti costumi di scena elaboratissimi, cosparsi di diamanti e di bottoni d’oro che servivano a valorizzarlo sul palco insieme ad anelli grossi come un dito intero.

Anche la sua nuova concezione di spettacolo lo portò al successo.

Intratteneva gli spettatori e parlava con loro, chiedendo cosa preferissero che suonasse, dando piccole lezioni e esempi di virtuosismo e lasciandosi addirittura abbracciare e baciare dalle fan ammaliate dal suo talento.

Il suo stile eclettico, barocco, prontato sull’immagine di una grande superstar si riflette nelle sue numerose dimore, sparse tra Los Angeles e Las Vegas.

Per un tour completo:

Jeanne e Modì : la storia d’amore più tragica di tutti i tempi

Amedeo ama dipingere.

Amedeo è bravissimo e realizza in una velocità impressionante le sue opere, senza mai ritoccarle una volta terminate.

Amedeo però non è un artista con molti soldi e tanto successo nella Parigi logora di alcol e droghe in cui vive.

Predilige i volti o i nudi di donna che riesce a cristallizzare sulla tela insieme all’essenza stessa delle modelle che posano per lui.

Gli occhi sono allungati, definiti, ma non troppo dettagliati. Modì, così lo chiamano gli amici, si discosta dalla tradizione perfetta di un’arte lirica e romantica.

Per lui il concetto stesso di arte è diverso.

Lui vuole imbrigliare le anime delle proprie muse nella tela e lo fa attraverso la semplicità del disegno.

In quest’arte è bravissimo, forse il migliore di Montparnasse e forse ne è addirittura consapevole.

La sera si reca al solito bar a bere assenzio o qualsiasi tipo di alcol per cercare l’ispirazione.

I borghesi, si sa, non sono in grado di comprendere come un grande artista possa trovare la sua luce per una nuova opera. Giudicano e lo giudicano. Ma ad Amedeo non interessa.

Usa droghe, in continuazione, anche questo è parte del delicato equilibrio che ricerca per la sua arte. Ha anche tante donne diverse, amanti, con cui consuma le notti fredde di Parigi.

Amedeo Modigliani at his studio in Paris Ca. 1915, Photo by Paul Guilliaume. Beatrice hastings and Raymond portraits can be seen

Rimane però un volto a colpirlo più di ogni altro.

Si tratta del volto di Jeanne, una giovane ragazza, timida, posata, che ha già fatto da modella per Foujito.

Anche lei è a Montparnasse per dipingere.

Vuole diventare una pittrice e Parigi negli anni ’20 è il posto migliore per essere qualsiasi cosa.

Lei è brava, appassionata e Amedeo la rispetta come artista.

Si apprezzano e si innamorano.

è dolce e intenso stare accanto a Modigliani, poterlo abbracciare e rimanere con lui a combattere la malinconia delle lunghe notti francesi. Però è anche difficile. Modì beve tanto e usa tanta droga e questo lo rende instabile.

Diventa plateale nelle sue sbronze e questo a Jeanne non piace. Non piace nemmeno ai suoi genitori che sono contrari alla coppia.

Però il loro amore è forte, saldo e lei sente di avere bisogno di lui almeno tanto quanto lui ha bisogno di lei.

Presto li attende una bambina, Jeanne anch’essa, che li lieta con la sua presenza.

Sono felici anche se gli affari non sembrano andare per un po’.

Poi ecco che Jeanne è di nuovo incinta.

Sono emozionati all’idea di allargare la loro famiglia e credono che presto le cose si sistemeranno e che Amedeo venderà i suoi quadri e si berrà champagne e si farà festa perché tutto va bene. Va come deve andare.

Ma nel Gennaio del 1920 Amedeo si ammala gravemente. La tubercolosi diventa una meningite che lo porta al delirio. Sdraiato su un letto si sta abbandonando alla morte circondato da bottiglie vuote e scatolette di sardine aperte.

In questo momento sembra fragile, consumato dalla sofferenza. Una eco lontana del grande artista che animava le serate dei Bistrot.

Lo portano in ospedale e Jeanne è spaventata.

Il 24 Gennaio Modì spira. E Jeanne entra nella più totale disperazione.

I genitori la portano via, ma ecco che lei incinta e prossima al parto si sente mancare l’aria.

Quel grande artista che ha avuto come compagno è svanito.

E non importano le scene, i litigi, la sofferenza e probabilmente i molti tradimenti. Lei sente di appartenergli e nemmeno l’amore per la piccola Jeanne e per il bambino che porta in grembo sembrano sufficienti.

Così si butta, dal quinto piano, nel vuoto.

E così Jeanne se ne va.

Per anni i due furono tenuti divisi dalla famiglia di lei che non voleva concedere alla figlia defunta di riposare accanto al caro amato.

Dopo dieci anni i due poterono ricongiungersi, in morte, al cimitero di Pere Lachaise.

E la lapide di Jeanne recita:

“Devoted companion to the extreme sacrifice”

Hedy, il genio più bello del mondo

Hedy Lamarr è principalmente nota per la sua carriera cinematografica.

Negli anni ’40 realizzò centinaia di produzioni come protagonista assoluta, insieme alla sua bellezza esotica che stupiva e incantava lo spettatore.

Pseudonimo di Hedwig Eva Maria Kiesler, Hedy, crebbe in Austria dove si affacciò al mondo della recitazione sin dai 16 anni.

La sua più famosa recitazione rimarrà quella nel film “Estasi” del 1932, che la vide impegnata in una scena di nudo quasi integrale che destò moltissimo scalpore e bloccò la circolazione del film per diversi anni.

La Lamarr disse di non essere a conoscenza della scena stessa che doveva svolgersi in un fiume e che fu principalmente il regista che la sollecitò ad esporsi in quanto sotto contratto.

Hedy non rimase sicuramente felice della scelta, ma tuttavia si mostrava molto naturale nei confronti dell’aspetto amoroso-sessuale e non fu mai restia a mostrarsi o a celebrare questo aspetto della vita umana.

Ebrea di nascita, fu costretta a fuggire su un transatlantico verso l’America quando le cose in Europa cominciarono a diventare difficili.

Durante la seconda guerra mondiale, pur recitando in diverse produzioni, rimase molto ancorata alle sue capacità logiche che in passato l’avevano vista cominciare la facoltà di ingegneria all’università e le avevano conferito l’appellativo di “genio”.

Hedy infatti aveva un quoziente intellettivo estremamente alto e veniva considerata una promessa della scienza oltre che bellissima.

Fu proprio grazie alle sue capacità analitiche e alla sua perspicacia che nel 1941 depositò il brevetto n. 2.292.387 per aiutare durante la guerra che stava imperversando in tutta Europa.

La sua idea era basata principalmente su nozioni apprese autonomamente e sui discorsi che aveva potuto sentire in casa del primo marito, Fritz Mandl, armiere, che l’aveva abbandonata nel ’38, facendo sciogliere il matrimonio per motivi razziali.

Il brevetto che depositò insieme all’amico George Antheil, compositore di avanguardia vicino al movimento surrealista, venne bocciato dalla marina militare e considerato inutilizzabile per i fini bellici.

Questo prevedeva la possibilità di un salto di frequenza per contrastare i segnali radio dei nemici.

Inutile dire che l’invenzione si rivelò utile in seguito: nel ’62 la sua idea venne utilizzata sulle navi impegnate nel Blocco di Cuba.

Nel 1985 il suo brevetto finalmente venne riconosciuto meritevole, anche con premi in denaro e riconoscimenti pubblici, uno dei quali fu l’istituzione del “giorno degli inventori” in Austria, Svizzera e Germania, il 9 Novembre, giorno del suo compleanno.

La sua vita fu difficile. Come disse lei la sua bellezza e il suo sex-appeal la fecero sfondare nel mondo del cinema, ma in ultimo, come ogni attrice del periodo, fu sottoposta a diete ferree per il controllo dell’aspetto e all’assunzione di droghe pesanti per poter sostenere gli estenuanti ritmi di lavoro sui set.

Fu considerata per gran parte della sua vita una sciocca attrice, priva di vero talento, propensa solo a mostrarsi nuda di fronte alla moralità imperante del tempo.

In realtà fu un’inventrice brillante, una lettrice accanita, sia di opere letterario-artistiche che di materiale tecnico, e fu sicuramente una grande personalità sullo schermo.

Morì nel 2000 di un infarto, lasciando un ricordo indelebile per coloro che hanno avuto il privilegio di vederla dal vivo o assaporare le sue considerazioni in merito ad ogni aspetto della vita.

I mondi fantastici di Errol Le Cain

Un tempo sfogliando i libri per bambini si potevano trovare delle illustrazioni di pregiatissima fattura. Lontane dalla mondanità banale che impervia in ogni ambiente, tramite questo grande artista abbiamo ancora uno scorcio di romanticismo verso il passato.

Errol John Le Cain nacque nel lontano 1941.

La sua vita fu ispirata dai numerosi luoghi in cui visse in gioventù.

Da Singapore ad Agra, per poi sbarcare a Londra, Errol assorbì tutte le sfumature di colore e fantasia che riuscì a scovare nei suoi peregrinaggi con la famiglia.

Già all’età di 11 anni esplorò la realizzazione del suo primo film, in 8 mm, chiamato “The Enchanted Mouse”.

L’animazione fu il suo primo amore che coltivò con molta dedizione durante tutto il corso della sua vita, arrivando a lavorare come freelancer nel 1969 con la BCC.

Lavorò alla realizzazione di “The Snow Queen” di Anderson, dove recitavano attori su sfondi realizzati dalla sua mano abile ed esperta.

Pubblicò 3 libri di sua invenzione e ne illustrò 48 a partire dal 1979.

Errol venne a mancare in giovane età a causa di una malattia, nel 1987.

Guardando le sue illustrazioni si può ritrovare la tradizione orientale che accompagnò i suoi lavori, ispirata proprio dall’ambiente in cui visse nei primi anni di vita.

L’elemento fantastico che emerge in maniera esotica non appesantisce la storia, ma piuttosto la integra per colorarla di aspetti e sfumature che permangono nella mente dell’osservatore.

Niki De Saint Phalle, pioniera del nuovo realismo

Pseudonimo di Catherine Marie Agnès Fal de Saint Phalle, Niki per coloro che la conoscono con il suo nome d’arte, nacque sulla fine di un Ottobre freddo, nel 1930, in Francia.

Sin da bambina manifestò la sua naturale ribellione ai sistemi e alle norme impostale, cambiando spesso scuola proprio a causa delle sue idee radicali e dei suoi comportamenti selvaggi.

Ad 11 anni rimase traumatizzata dal tentativo di abuso da parte del padre, tentativo che lei stessa cercò di esorcizzare in moltissime sue opere posteriori.

Inizialmente, data la sua naturale bellezza fisica, cominciò una carriera come fotomodella presso Vogue e Life, carriera che però non fu l’unico approccio al mondo dell’arte.

Niki fu poliedrica nella sua visione del mondo. Non fu mai solo una cosa, solo una fotomodella, solo un’artista, ma esplorò nel corso degli anni ogni possibilità che riuscisse a nutrire il suo animo ferito.

Proprio dall’estremo dolore patito in gioventù a causa delle colpe familiari, nel 1952 soffrì di un terribile esaurimento nervoso che la vide chiedere aiuto in una clinica per disturbi mentali, dove soggiornò diverso tempo.

Proprio in questo contesto per niente fastoso, l’artista riuscì veramente a concentrare le sue energie sul lavoro artistico, realizzando opere che come lei stessa definì, erano una sorta di medicina per lo spirito.

E fu così che trovò la sua chiamata.

A partire dagli anni ’60 cominciò a realizzare opere denominate “shooting paintings”. Il nome, chiaro, rappresenta dei quadri realizzati sparando con una carabina a dei sacchetti di colore, che si spandono sulla tela come ferite e squarci.

Spesso, sullo sfondo della tela, Niki disegnò una figura maschili, memore della figura paterna che fu protagonista della tragedia.

A questo punto della sua carriera, la De Saint Phalle, veicolò nel suo lavoro tutto il suo stato emotivo, portando avanti un’arte concettuale di estremo valore che la vide anche partecipe di un gruppo d’avanguardia: i “Nouveaux realistes”.

Fu solo a partire dal 1965 che decise di introdurre figure femminili nelle sue opere.

Da qui incominciò la realizzazione di grandi strutture, denominate la “Nana”, in cui prevalevano le fattezze femminili e i colori sgargianti.

Fu l’anno successivo che la vide protagonista della realizzazione di un’opera monumentale di straordinaria importanza. Il Moderna Museet di Stoccolma le chiese infatti un’opera da poter esporre tra le sue sale e Niki seppe perfettamente cosa creare.

Si trattava di una Nana di 28 metri di lunghezza, 6 di altezza e 9 di lunghezza che rappresentava una donna in procinto di partorire e rinominata “She- a Cathedral”.

Nel seno sinistro della struttura femminile fu inserito un planetario e in quello destro un bistrot per gli ospiti che potevano calorosamente entrare attraverso la vagina della statua.

La cattedrale doveva rappresentare la figura femminile e la sua potenza creatrice.

Dopo il matrimonio con Jean Tinguely cominciò la realizzazione del “Giardino dei Tarocchi”, a Garavicchio, Capalbio (Toscana). Il lavoro la impegnò per 17 lunghi anni, in cui dispose le strutture base di cemento armato e cominciò a ricoprirle di pezzi di vetro, mosaici e ceramiche colorate, conferendo all’opera un aspetto variegato, mai banale, alternativo e fantasioso.

Il costo del parco fu decisamente alto e per finanziarsi Niki decise di pubblicare libri e creare una sua personale linea di profumi.

Proprio per questi motivi non può essere considerata un’artista convenzionale.

I temi principali delle sue opere rimangono di carattere mitologico, principalmente esasperando il tema della vendetta, del dolore e della paura, ma apportando altrettanta importanza a significati ricchi in positività.

Usò sempre colori vivi, per arrivare allo spettatore più facilmente, e carichi di significati metafisici.

Il rosso era il rosso della forza creatrice, innovativa e potente, vibrante e immediata; il verde rappresentava la vitalità, il blu la profondità di pensiero e la forza di volontà che contraddistingue l’essere umano; il bianco la purezza, il nero il dolore ed infine l’oro, colore dell’intelligenza e della spiritualità.

Niki morì nel 2002 per problemi respiratori. Dopo la sua morte fu onorata come artista di grandissima importanza in tutto il mondo, partendo dal MoMa di New York che tenne diverse mostre su di lei e sulla sua produzione.

JLG, stella polare del cinema del ‘900

Addio Jean-Luc.

Si è spento tramite suicidio assistito, un grande regista del cinema del novecento.

Non fu, in verità solo un regista.

Cominciò la sua carriera come un critico di cinema, appassionato sì, ma molto radicale nelle sue idee.

Da lì prese la strada dei cortometraggi e fu solamente nel 1959 che sperimentò con i lungometraggi con l’opera “Fino all’ultimo respiro”, capostipite che diede il via all’era Godardiana.

Esponente illustrissimo della “Nouvelle Vague”, termine coniato nel ’57, cominciò a porre l’accento su un cinema differente, opposto al classico “cinema di papà” che al tempo andava di moda.

Il senso delle opere non era più attorno all’attore o alla scenografia, bensì attorno al regista stesso che, come uno scrittore, apre le pagine del proprio diario interiore per realizzare qualcosa di personale ed intimo, oltre ogni aspettativa.

Nascono quindi nuovi modi di girare e realizzare questi piccoli capolavori.

Diventa importante l’elemento della luce, non più accentuata da proiettori, ma solamente dalla sua essenza naturale, che permette di creare familiarità con i personaggi nonchè vivo realismo. I protagonisti sono di solito amici o conoscenti e le ambientazioni usate sono gli appartamenti e le case dei vari partecipanti, andando ancora una volta a scardinare le imposizioni del cinema del tempo. Anche le vie e le traverse rappresentano un terreno fertile per la cinepresa che mira ad estrarre dalla realtà ogni goccia di ispirazione, volendo portare alla luce dello spettatore lo “splendore del vero”.

Abbraccerà le idee Marxiste che riproporrà nel cinema, arrivando anche allo sperimentalismo con il gruppo “DZIGA VERTOV” che prevedeva la realizzazione di opere collettive in cui perde importanza il protagonismo del singolo per assumerne, invece, la collettività.

Fu, fino al suo ultimo respiro, una pietra miliare di quella sottile ed eversiva arte celebre ai cineasti di tutto il mondo.

Godard vinse il leone d’oro nel 1984 e l’Oscar alla carriera nel 2011, due grandi manifestazioni di riconoscimento del suo talento.

Loïe, la farfalla incandescente

Follies Bergèr, rue Richer 31, Parigi.

I preparativi sembrano essere molti per mettere in scena uno spettacolo che potrà rimanere nella storia. Tra il pubblico ci sono i simbolisti e il famoso Toulouse- Lautrec, cliente abituale della music-hall che detiene il nome ormai noto tra il chiacchiericcio delle persone.

La star indiscussa sarà ancora una volta lei: Loïe.

In questo momento è agitata, lo è sempre quando deve esibirsi, ma ama tantissimo quello che fa e sente dentro di sé la forza per entrare in scena.

Nata a Fullersburg in Illinois, sotto il segno del Capricorno, nel 1862.

Sin dalla tenera età si è esercitata nelle rappresentazioni teatrali, sognando dentro il proprio cuore di diventare un’attrice di teatro.

La vita l’ha sicuramente favorita ponendola tra coloro che sembrano baciati dalla fortuna.

Loïe è bellissima e determinata: vuole realizzare tutti i suoi sogni e la vita, per miracolo, l’accompagna mano nella mano verso un futuro di successo e di meraviglia.

Loïe è pronta.

Indossa la sua famosissima gonna.

Vuole ancora una volta fare la sua danza serpentina, quella che ha inaugurato a New York, in un Febbraio molto lontano, nel 1892.

Si ricorda del successo della sua esibizione al punto tale che ha cercato di rielaborare il numero molte volte. Una in particolare l’ha portata a realizzare una gonna di seta, quella seta che ama sin da bambina, lunga 450 metri, per l’opera “Le Lys du Nile” del 1895. Con i veli si è esibita in una danza in cui il corpo era un parziale protagonista, per fondersi con il movimento stesso della seta. Ha creato forme che normalmente il suo fisico alto non sarebbe stato in grado di creare.

Sa bene, tuttavia, che la luce deve fare il suo spettacolo allo stesso modo dei tessuti.

Continua a studiare nuovi brevetti, che moltissime persone sembrano volerle rubare, ma lei sa che dietro la porta ci sarà un’altra idea brillante. Ha fiducia in sé e nella sua arte. Come quando ha realizzato delle fiamme, finte ovviamente, ma che potevano sembrare vere durante la performance e questo ha provocato uno stupore irripetibile nei suoi fan.

La luce è tutto. Serve anche a far emergere i colori che sceglie sempre accuratamente, evitando il giallo che appassisce e il malva che addormenta.

Le sue idee sull’illuminazione l’hanno addirittura portata a diventare membro della società di astronomia francese.

A questo punto della sua vita ha realizzato opere al pari di Leonardo Da Vinci, unendo sapientemente l’arte e la tecnica per realizzare qualcosa di duraturo.

Loïe è una donna realizzata. Ha una scuola di danza a Parigi, finanzia la famosa collega Isadora Duncan ed è destinata ad essere ricordata dalle generazioni future perché ha influenzato l’Art Nouveau in maniera fondamentale.

Ha addirittura esposto all’esposizione Universale di Parigi del 1900.

Insomma sa che ha ottenuto tanto, ha realizzato tanto.

Qualche volta si commuove di tutta la bellezza che è riuscita a creare ed è grata dentro il suo cuore di poter fare quello che fa e amarlo totalmente.

La vita è stata buona, alla fine, ricca e abbondante.

E con un sospiro profondo entra in scena.

Come Zelda Wynn Valdes ridefinì la moda

Pensando a Playboy la prima cosa che ci viene in mente sono i costumi succinti delle sue famose “Bunnies”. In pochi sanno che dietro a quei costumi che ancora oggi – volenti o nolenti- rappresentano un elemento di sensualità c’era la mano esperta di una sarta e stilista nera.

Zalda Wynn Valdes era la primogenita di sette figli.

Cresciuta a Chambersburg, Pennsylvania imparò a cucire osservando la sarta della nonna durante le sue interminabili ore di lavoro. Un tempo i vestiti non erano prodotti industrialmente, ma venivano cuciti su misura e per questo motivo era facile imbattersi nell’arte del cucito che era insegnata ad ogni giovane ragazza.

Zelda al lavoro

La prima occasione che la vide protagonista della realizzazione di un vestito fu quando sua nonna le chiese aiuto. Nonostante sembrasse alquanto improbabile che la giovane riuscisse a realizzare qualcosa su misura per la nonna giunonica, Zelda ci riuscì egregiamente realizzando un abito perfetto.

Terminata la scuola nel 1923 andò dritta a lavorare presso il negozio di sartoria dello zio, a White Plains (NY).

Fu solamente nel 1948 che riuscì ad aprire la sua boutique, “Chez Zelda”, dove realizzava abiti di tutte le misure per la sua clientela. Situato a Broadway, fu il primo negozio di una donna nera a comparire sulle strade di Manhattan.

Ella Fitzgerald in un abito di Zelda

Joyce Bryant in un abito di Zelda

La sua arte era studiata e raffinata dall’occhio attento e da una mano precisa, nonchè dalla sua interminabile creatività ed eccentricità.

I suoi vestiti erano fatti per abbracciare le curve delle donne in modo tale che potesse emergere l’elemento sensuale, senza mai cadere nel cattivo gusto, per mantenere classe e portamento.

Tra le sue famosissime clienti vi erano Josephine Baker, Diahann Carroll, Marlene Dietrich e Mae West.

I suoi vestiti, rigorosamente realizzati sulle misure esatte delle singole personalità, avevano un costo di circa 1000 dollari al pezzo.

Pagati a peso d’oro per gli anni di cui stiamo parlando, erano però dei capolavori di sartoria difficilmente riproducibili al giorno d’oggi e totalmente esclusivi.

Famoso è l’abito che accompagnò all’altare Maria Ellington nel 1948, il “blue ice”.

L’abito “blue ice” di Zelda

Zelda posa di fronte a una sua creazione

Joyce Briant in un abito di Zelda

La sua abilità però non stava solo nel realizzare abiti meravigliosi per la gente bene newyorkese, ma si concretizzava anche nella realizzazione di costumi di scena per vari artisti.

La stilista definì il look di Joyce Bryant, cantante famosissima al tempo, che però non aveva un look sufficientemente prestante alle sue performance.

L’abile attenzione di Zelda le permise di indossare abiti che potessero lasciare scoperte le spalle e conferirle un’aura di sensualità facendo emergere la sua figura a clessidra, cosa che la fece decollare tra l’olimpo dei grandi della musica.

Anche Hugh Hefner apprezzò le sue linee.

Le venne infatti commissionata la realizzazione dei costumi delle conigliette di Playboy.

La divisa, ancora oggi nota, consisteva in un corpetto colorato, piuttosto tagliato sui fianchi in modo da allungare le gambe delle modelle, una coda da coniglietto, un paio di orecchie, polsini, un collare e un papillon. Il taglio sartoriale prevedeva una cucitura sotto al seno, in modo da valorizzare ancora una volta le forme.

Le conigliette di Playboy

Joyce Bryant in Zelda

Joyce Bryant in Zelda

Joyce Bryant in Zelda

Joyce Bryant in una creazione di Zelda

Dal 1970 fino alla sua morte, Zelda si occupò di lavorare per il teatro. Fu la chiamata di Arthur Mitchell, primo ballerino (e primo ballerino nero con questo ruolo) della compagnia del New York Ballet, che la convinse. A Mitchell serviva una costumista di scena per realizzare qualcosa di grandioso per la nuova compagnia che stava creando.

Grazie a questa nuova possibilità Zelda potè confrontarsi anche con il mondo della danza.

Celeberrimo è il suo approccio ai costumi di scena. Fino ad allora le ballerine usavano esclusivamente la calzamaglia rosata durante le loro esibizioni. La Valdes, reduce da una vita all’insegna del razzismo imperante, decise di realizzare delle calze che fossero in tinta con l’incarnato delle singole ballerine, in modo da rendere la rappresentazione più vera e al tempo stesso più inclusiva di ogni provenienza e etnia.

Costumi di scena realizzati da Zelda

La sua vita fu una serie di successi inaspettati per il tempo. La sua arte aprì le porte a numerose altre stiliste di colore, che trovarono in lei il punto di forza e l’ispirazione per un futuro migliore.

Come disse in un’intervista:

” I just had a God-given talent for making people beautiful”

E fu senz’altro così.

La scoperta dei famosi Bronzi di Riace

Il 16 Agosto del 1972 Stefano Mariottini, un sub dilettante, stava facendo immersioni a largo di Riace Marina, in provincia di Reggio Calabria.

Si era spinto fino a una distanza di trecento metri dalla riva, quando scorse un braccio emergere dalla sabbia sottostante. Si trovava a circa otto metri di profondità e sembrava piuttosto grande.

Questo fu l’incipit di uno dei ritrovamenti storico-artistici più rilevanti degli ultimi cinquant’anni.

Scavando con tecniche più raffinate e con l’aiuto di esperti del settore si scoprirono due grosse statue di bronzo che vennero rinominate I “Bronzi di Riace”.

Le due statue, principalmente bronzee, ma con dettagli in altri materiali come le ciglia in rame, la sclera degli occhi in avorio, nonchè l’utilizzo di argento e calcare, risalgono al V a.C. e sono di origine Greca.

Dopo la loro scoperta prese il via il restauro, durato fino al 1980, volto alla pulizia e alla sistemazione di alcune parti, oltre che allo studio della struttura e del metodo di realizzazione.

Da questi studi emerse che probabilmente la statua denominata “bronzo A” risaliva al 460 a.C., mentre la seconda, il “bronzo B”, al 430 a.C.

Inoltre non tutte le parti delle statue erano state realizzate nello stesso periodo, alcune erano infatti posteriori, come il braccio del bronzo B.

La datazione rimane comunque incerta, così come gli artisti che li realizzarono.

Alcuni studiosi dicono che il reperto A sia da attribuire alla mano precisa di Fidia e il B ad un altrettanto famoso Policleto, tuttavia non si hanno informazioni certe che possano chiarificare l’origine di queste immense e pregiatissime opere d’arte.

Fatto che sembra assodato è che rappresentino divinità o eroi, come si soleva fare nel periodo in cui sembrano essere state realizzate. Al tempo infatti solamente dei personaggi di natura “superiore” venivano rappresentati come modelli ammirabili da tutti.

Anche la provenienza è incerta. Alcuni studi le ricollegano al famosissimo santuario di Delfi, dove si pensa fossero collocate lungo la via sacra che portava al santuario della Pizia.

Si sa poco anche del motivo per cui siano state trovate in acqua al largo di Riace. Forse una nave che è affondata o forse delle esigenze di peso hanno fatto sì che i Bronzi si depositassero sul fondale e ne fossero ricoperti dai lenti movimenti ondosi della zona.

Tuttora sono collocate nel museo nazionale di Reggio, dove possono essere ammirate nella loro totale bellezza (e grandezza!)

L’arte Estatica degli ufo

Bruce Pennington, annata 1944, è un pittore inglese noto, soprattutto, per la sua arte sci-fi in cui ritrae elementi puramente naturali amalgamati a elementi extraterrestri.

Nel corso della sua esistenza ha realizzato diverse copertine di libri fantascientifici tra cui le opere di Asimov, Smith e Heinlein.

Le sue illustrazioni mettono in luce il contrasto tra la società e l’elemento fantascientifico, quasi sempre distopico, venuto a conquistare. I colori sgargianti e le ambientazioni apocalittiche sullo sfondo di vicende umane e non umane, riescono a realizzare il connubio perfetto per un film di fantascienza.

The alien way, Bruce Pennington, 1971

The pastel city, Bruce Pennington, 1971

On a planet alien, Bruce Pennington, 1975

Tra la sua produzione troviamo anche illustrazioni di mondi alternativi, apprezzatissime e iconiche, con lune orbitanti mai viste e pianeti che spuntano sull’orizzonte. L’elemento extraterrestre è sempre presente dal 1967, anno in cui per la prima volta l’autore ha sviluppato l’interesse per questa realtà.

Fungus Gigantica, Bruce Pennington, 1990

Impossible possibilities, Bruce Pennington, 1973

The heaven Makers, Bruce Pennington, 1974

Le sue opere ricordano elementi di un passato futuristico alternativo, con guerre, battaglie e vicende degne di tutti i pianeti del sistema solare e alleanze tra umani ed esseri alieni capaci di nutrire le narrazioni di storie dal sapore lontano.

Un capolavoro di arte e fantascienza.

New Maps of Hell, Bruce Pennington, 1968

Children of Tomorrow, Bruce Pennington, 1972