Il parco dei sogni

«A tutti coloro che vengono in questo luogo felice: Benvenuti. Disneyland è la vostra terra. Qui l’età rivive i bei ricordi del passato, e qui i giovani possono assaporare le sfide e le promesse del futuro. Disneyland è dedicato agli ideali, ai sogni e ai fatti che hanno creato l’America, con la speranza che sarà una fonte di gioia e ispirazione per tutto il mondo.»

Recitò queste parole Walt Disney, il 17 Luglio del 1955 quando, di fronte a una folla di seimila invitati e oltre ventiduemila non invitati, apriva le porte del famoso parco che ancora oggi è protagonista delle fantasie di bambini e adulti di tutto il mondo.

Situato in un aranceto ad Anaheim, Los Angeles, la sua costruzione cominciò nel 1954 e si protrasse per l’intero anno successivo, con oltre duemila addetti ai lavori. L’idea di un parco a tema sorse al signor Disney tra gli anni ’30 e ’40, quando, memore delle sue avventure giovanili nei Trolley Park e negli Electric Park, tanto in voga all’epoca e fulcro dei divertimenti e delle serate danzanti della società americana tra l’800 e il 900, decise di costruire qualcosa che fosse sia un luogo di svago per i più piccini, sia un luogo di svago per gli adulti.

In quel lontano 1954 non si sapeva ancora che ben presto quel parco che sembrava un’idea troppo grande per essere realizzata sarebbe diventato negli anni il fulcro di una cultura che si estende fino al XXI secolo.

Il costo fu di 17 milioni di dollari, alcuni ricavati tramite ipoteche e altri in prestito da emittenti televisive, come l’ABC, in cambio di vari benefici.

Il giorno dell’inaugurazione, presieduto anche da Ronal Reagan, fece un boom di ascolti mai visto prima per l’apertura di un parco. Si stima che circa 70 milioni di persone si collegarono per assistere allo spettacolo, con inno nazionale, che doveva dare il via alla storia di Disneyland.

Quel medesimo giorno a causa della troppa affluenza non prevista, a causa del caldo, dello sciopero degli idraulici che dovevano fare manutenzione alle fontane, e a molti altri imprevisti, fu un giorno definito come nero. Poche persone si divertirono e generalmente le opinioni furono negative poiché erano finite le scorte di cibo e di bevande (la famosa pepsi che sponsorizzava).

Ma passato il primo ostacolo il parco trovò presto il suo ritmo aprendo, in meno di due mesi, varie attrazioni nuove e garantendo divertimento per tutta la famiglia. Così questa storia inaspettatamente ebbe e tutt’ora ha il suo lieto corso e da questo singolo parco ne aprirono molti altri in varie parti del mondo. Il giorno dell’inaugurazione di Disneyland rimane il compleanno più famoso che un parco a tema abbia mai visto, con dozzine di facce felici e meravigliate di fronte alla grandiosità di questa impresa.

Bambini che corrono per l’apertura di Disneyland,1955

Bambini sulle tazze,1955

Parata di Disneyland,1955

Ballerine che si riposano gustando una pepsi, Disneyland,1955

Bambina su una giostra, Disneyland,1955

L’attore Ronald Reagan,17 Luglio 1955, Disneyland

Bambini in posa con Topolini e Minnie, Disneyland, 1955

Parata di Dumbo, Disneyland, 1955

Barca piena di turisti sul laghetto artificiale di Disneyland,1955

Walt Disney, Disneyland, 17 Luglio 1955

Parata in Main Street, Disneyland, 17 Luglio 1955

Debbie Reynolds, Disneyland, la prima settimana di apertura,1955

Bar a Disneyland, 1955

Giostra a Disneyland,1955

Famiglia a Disneyland,1955

Nella Parigi della Beat Generation

Al 9 rue git le coeur, nel quartiere latino di Parigi, famoso per la sua movida, sorge un hotel quattro stelle chiamato Relais hotel du Vieux Paris.

La struttura portante, oggi rinomata come boutique hotel, un tempo ospitava un luogo magico e fiorente: il Beat hotel.

Popolare meta di artisti e scrittori, tra gli anni ’50 e ’60, vide nei suoi corridoi e nelle sue stanze la creazione di opere- Basti pensare a “Kaddish” o a “Naked Lunch” -che rimangono ancora oggi il cardine della Beat Generation.

L’hotel disponeva di 42 stanze e minimi standard di igiene, cosa che oggi verrebbe considerata inammissibile. Il prezzo era modesto, 50 centesimi a notte, con acqua calda solo il giovedì, il venerdì e il sabato, e una singola vasca da bagno per potersi lavare nel seminterrato, da prenotarsi con largo anticipo.

I proprietari, i Rachou, erano ospitali e abbastanza di manica larga per quanto riguarda le regole. Si poteva far uso di droga e fumare hascisc, l’odore veniva perdonato dalla polizia tramite succulenti sandwich che la padrona di casa preparava costantemente.

Madame

Qui la creatività doveva poter fluire incessantemente. Tra cene preparate da Madame Rachou e discorsi al bar, l’arte veniva costantemente alimentata dalla comunità presente in maniera vivace e allegra.

Madame con diversi artisti

Il nome venne dato da uno degli illustri personaggi che bazzicavano al suo interno. Gregory Corso fu infatti colui che lo rese la meta preferita degli artisti Americani (e non) che stavano vivendo il loro intenso momento parigino alla ricerca di una più profonda connessione con la loro anima.

Tra essi vi erano Ginsberg, Orlovsky, Burroughs, Gysin, Norse e altri.

William Burroughs nella sua stanza

Ginsberg e Orlovsky,1957

Gregory Corso nella sua stanza fotografato da Ginsberg

Una pratica tipica per coloro che non riuscivano a permettersi di pagare l’affitto delle stanze era quella di dedicare poesie, tele, scritti di vario genere alla proprietaria.

Lei stessa, memore di un’esperienza lavorativa in un locale frequentato da Picasso, decise di concedere agli artisti la possibilità di arredare e dipingere le proprie stanze a loro piacimento. L’hotel divenne quindi un luogo eclettico e alternativo, punto cardine della vita beat parigina, luogo di ritrovo fondamentale per la visione alternativa che questo movimento portava avanti.

Come disse Verta Kali Smart sulla rivista “Left Bank this month”, il beat hotel pareva un luogo lasciato al caso, ma la clientela era selezionatissima. Per entrare bisognava avere l’aspetto di un artista, con una tela sottobraccio, o dire le cose giuste e avere le giuste conoscenze. Chiunque avesse qualcosa di importante da dire e fosse una personalità nel suo ambito era ammesso.

Fotografia di Harold Chapman

L’avventura beat durò fino al 1963, quando ormai madame, rimasta vedova da 5 anni, non potè più gestire l’hotel e la sua vita alternativa. L’ultimo ad andarsene fu Harold Chapman, che aveva documentato nel corso del tempo la presenza di vari artisti.

Harold Champman, self-portrait.

La struttura venne venduta, ma ancora oggi rimane un luogo centrale della cultura parigina e americana.

Molti artisti rimasero con l’amaro in bocca per la decisione della vendita e continuarono a guardare con un pizzico di malinconia agli anni passati nel cuore Parigino.

Nel 1997 Burroughs scrisse in uno dei suoi diari:

“Can I bring it back, the magic and danger of those years in 9 rue Git-Le-Coeur and London and Tangier—the magic—photographs and films.

Oggi rimane un’insegna, unico elemento che ricorda il passato glorioso di quel posto. Negli anni si sono susseguiti cambiamenti e vicende che ne hanno alterato profondamente l’aspetto, ma non l’essenza originaria che permane, se non altro, nel ricordo della sua storica grandezza.

L’isola dei sogni: dove cielo e mare si uniscono

Nel 1957 la rivista Sport Illustrated chiese a Toni Frissell un servizio fotografico su Nantucket. Dal suo lavoro emerge un passato fatto di sport, sole, mare e bella vita.

Nantucket è un’isola sulle coste del Massachusetts, 25 miglia a sud di Cape Cod, mangiata dall’oceano Atlantico e dai suoi venti, corrosa dal sale e immersa nel profumo di salsedine.

Il suo nome, di origine indiana, significa “isola lontana”.

Lo stesso Ralph Waldo Emerson disse che Nantucket trasmetteva la sensazione che ogni cosa bella immaginabile potesse ancora succedere e in parte è così.

Spesso paragonata a Martha’s Vineyard, sua vicina a ovest, risulta essere la meta di diverse personalità nel corso dei decenni, prevalentemente artisti di vario calibro e scrittori in cerca di un porto sicuro in cui rilassarsi e magari affrontare il temibile blocco.

I suoi colori particolari, le sue fioriture e i suoi alberi, nonchè le sue spiagge sconfinate, hanno attratto l’occhio attento di molti interessati anche al suo stile di vita peculiare.

Non bisogna però pensarla solo come un piccolo paradiso di macchie colorate e cieli azzurri, l’isola infatti regala abbondanti piogge e spesse nebbie che riuscirebbero a stressare anche il più calmo dei suoi cittadini.

Meta chic della gente “bene” americana, ha regalato sin dagli albori momenti di divertimento e spensieratezza tra partite di golf, tennis, cocktail su terrazze e bagni solari abbracciati dal suono del suo perpetuo moto ondoso.

La Frissell riuscì a cogliere l’aspetto più umano e interessante della cultura isolana del tempo, quando le vecchie signore uscivano per l’Happy hour imbellettate di tutto punto, con collane di perle e bracciali d’oro, per sorseggiare alla luce del tramonto un drink accompagnato da assaggi a base di pesce.

Guardando queste fotografie riesce a emergere il sogno lontano e la magia che un tempo abitava quest’isola e che forse può essere ancora scorta nei moderni scatti fotografici di un iPhone.

A noi comuni mortali spetta solo la visione lontana di questo piccolo gioiello oceanico, ma forse basta per alimentare in noi il sogno americano che ha addolcito l’esistenza di molte generazioni.

New York Party: La discoteca degli eccessi

Sulla 54° West- street, tra la 7° e l’8° Avenue di Midtown Manhattan (NY) sorgeva un tempo un insolito teatro, realizzato nei primi del ‘900 e inaugurato nel 1927 come Gallo Opera House.

Al tempo della sua costruzione nessuno sapeva che in una cinquantina di anni sarebbe diventato un punto cardine della movida Newyorkese, centro di feste stravaganti e luogo di ritrovo per i grandi della musica, della moda e del cinema.

Era il 26 Aprile 1977 quando fu inaugurato come una nuova discoteca, con luci stroboscopiche e la promessa di musica fino alle ore piccole del mattino.

Sotto la sapiente guida di Steve Rubell e Ian Schrager venne denominato Studio 54.

Lo studio, organizzato su diversi piani, era una vera e propria discoteca che poteva ospitare diverse centinaia di ospiti.

La politica interna prevedeva la presenza di almeno il 20% di ospiti omosessuali e almeno il 10% di ospiti trans e lesbiche, volendo essere un luogo inclusivo, centro propulsore della rivoluzione sessuale che in quegli anni dilagava negli Stati Uniti.

Per entrare bisognava pagare un salatissimo biglietto, ma non solo. Importante, anzi fondamentale, era il vestiario, chic e d’avanguardia, e l’aspetto fisico. Rubell stesso faceva selezione all’ingresso, tra i numerosi fan stanziati di fronte alle transenne, pronti ad entrare per festeggiare in grande stile.

Come disse lo stesso Andy Warhol ” era una dittatura all’entrata e una democrazia sulla pista da ballo”.

Mandatory Credit: Photo by Guy Marineau/Shutterstock (7552849a) Pat Cleveland on the dance floor during Halston’s disco bash at ‘Studio 54’. Halston’s disco bash at Studio 54, New York, USA – 12 Dec 1977

Altra particolarità del locale era la moltitudine di star che partecipavano alle serate a tema, sempre diverse e innovative. Modelle del calibro di Bianca Jagger, artisti come Andy Warhol, personalità della musica e del cinema come Michael Jackson e Robin Williams si mischiavano ai “comuni mortali” in un eclettico assembramento non convenzionale.

Alcol a fiumi e droga erano l’ingrediente vincente delle feste del sabato sera. A ciò si aggiungevano ballerine in topless, camerieri in copri-genitali, sesso libero (orge comprese) ed ogni tipo di evasione alla quotidianità.

Bianca Jagger, il 2 maggio del 1977, per festeggiare il suo trentaduesimo compleanno, entrò nel locale montando un cavallo bianco in un completo di Yves Saint Laurent. Insomma: tutto era concesso!

Vietatissime invece le fotografie e i filmanti dei giornalisti: quello che succedeva all’interno del locale doveva rimanere all’interno del locale.

Singer Diana Ross, who first became popular as a member of the Supremes, makes a limbo-like move on a New York dance floor while in town for an engagement.

La movida durò solo 3 anni. Nel Febbraio del 1980 infatti i proprietari vennero accusati di frode fiscale e condannati a 13 mesi di prigione. Inoltre vennero trovate ingenti quantità di droga, prevalentemente cocaina, nel soffitto di alcune stanze, un deposito che veniva garantito per sballare gli ospiti del club.

Il club venne chiuso definitivamente nel 1986, quando ormai le serate erano sprofondate nella noia e nella convenzionalità e gli ospiti illustri avevano cambiato gusti in fatto di feste.

Il sogno del ritrovo senza freno agli eccessi finì presto e miserabilmente lasciando solamente il ricordo lontano delle fatiscenti serate.

Favole incantate

Guardando i cartoni animati viene da chiedersi chi sia l’autore dei disegni che prendono vita sullo schermo, chi abbia pensato il personaggio e abbia fissato su carta le sue fattezze fisiche. In un’era dedicata al digitale sembra essersi dimenticati delle grandi menti illustratrici che, nei primi anni del ‘900, ci regalavano piccole opere d’arte di singolare bellezza.

Prima che la Disney ci proponesse linee addolcite e un po’ gonfie, colori sgargianti e personaggi più accessibili delle belle principesse del passato, c’erano le illustrazioni oniriche di Kay Nielsen.

Danese di origine, crebbe in una famiglia dedita alle arti che gli permise di curare la sua abilità nel disegno. Educato a Parigi cominciò a lavorare sin dal 1913, realizzando tavole e illustrazioni per libri.

In pochi anni diventò l’illustratore più famoso della penisola Scandinava grazie alle sue linee raffinate e mai banali e all’uso sapiente del dettaglio come elemento fondante il disegno.

La sua arte era frutto di un’attenta ricerca dei particolari, da un preciso studio delle geometrie e dei colori. Su modello dell’art Nouveau, Nielsen realizzava tavole con figure allungate, ricche di dettagli e ghirigori con uno stile che gli permise di distinguersi tra molti. Nei suoi disegni spiccano gli elementi floreali e orientaleggianti e i personaggi sembrano sempre provenienti da un mondo altro, onirico forse, lontano dalla consueta realtà in cui si viene inevitabilmente catturati per potersi immedesimare nella storia.

Spesso emerge anche una certa malinconia, una tristezza velata e anche qualche elemento di oscurità nelle sue opere che tuttavia non le tramuta in pesantezza, ma piuttosto in velata austerità.

Realizzerà le illustrazioni per la traduzione de “Le Mille e Una notti”, che rimarranno tristemente sconosciute fino dopo la sua morte. In queste tavole prevale lo sguardo orientale, sapientemente realizzato con combinazioni di forme e dettagli, ponendo sempre l’accento sullo stile degli abiti dei personaggi e sui colori vividi.

Nel 1922 illustrò le famose favole di Hans Christian Anderson e dei Fratelli Grimm. Da “La Principessa sul pisello” a “Hansel e Gretel”, realizzò alcune delle sue opere più famose proprio in questi anni.

Il prestigio gli permise di trasferirsi negli Stati Uniti dove cominciò a lavorare per la Walt Disney Company nel 1939.

Qui cominciò a lavorare a diverse produzioni, tra cui “Fantasia” dove con la sua abilissima mano fornì spunti per alcune scene in particolare.

Successivamente prestò le sue idee per un concept sulla “Sirenetta”, incentrandosi principalmente sullo stile del periodo, meno dettagliato e più improntato su una visione anni 30-40. Nonostante la sua visione innovativa, l’opera non venne mai realizzata con i suoi disegni originari.

La sua permanenza nella grande famiglia Disney durò solo quattro anni, un periodo breve, a causa principalmente dei tagli ai costi che la nuova politica aziendale voleva promuovere.

In “They drew as they pleased: the hidden art of Disney’s Musical Years” Didier Ghez riporta come Nielsen fosse un artista di grandissimo calibro, ma piuttosto lento nel suo lavoro, elemento da collegare al suo profondo perfezionismo e alla ricerca della bellezza. Questo suo aspetto peculiare finì per farlo licenziare malamente poiché i costi per sostenere il suo lavoro erano diventati ingenti e intollerabili.

Finì la sua vita in relativa povertà, avendo perso la fama acquistata negli anni.

La Disney ammira ancora oggi i suoi lavori, come moltissimi critici d’arte.

La sua arte, ispirata, come disse, da Henrik Ibsen, rimane negli anni un segno distintivo di una visione lontana, poetica, fantastica, che nessuno è mai riuscito a realizzare prima (e dopo) di lui.

Sarebbe stato molto interessante poter vedere altri disegni messi in scena in altre produzioni.

L’artista sconosciuto che affascinò i grandi del suo tempo

Greenwich Village, 1940.

Una coppia di novizi sposi si addentra nella loro nuova casa. È un piccolo appartamento, ma basta per loro due, che non hanno molte pretese. L’importante è che ci sia una buona luce e dello spazio per poter realizzare il gesto più importante e significativo di tutti: dipingere.

Questo è l’inizio di una storia che arriva fino ai giorni nostri e che pochi conoscono.

I due sono Virginia Admiral e Robert De Niro. 

Sì, avete letto bene.

Prima del grande attore, premio oscar, c’era il padre, un altrettanto grande artista, nominato perfino da Kerouac in un suo libro.

I due facevano parte del gruppo di artisti che si era stanziato a New York già da un po’ di anni. Poeti, scrittori e pittori si ritrovavano per colloquiare di arte e misteri della vita e, in ultimo, trovare un terreno fertile per portare avanti la loro arte.

I due si erano conosciuti studiando sotto Hans Hofmann, esponente dell’espressionismo astratto, nella sua scuola estiva.

In quel periodo conobbero intellettuali e scrittori come Anais Nin ed Henry Miller, gli amanti più peccaminosi ed erotici mai conosciuti, Jack Kerouac, Tennessee Williams e molti altri.

Fu in questo contesto che Robert De Niro, dopo aver messo al mondo il più celebre Robert De Niro jr, fece coming out. 

In quegli anni essere omosessuale era visto ancora come un qualcosa di negativo e la connotazione che veniva attribuita ai gay era pesante e demistificatoria. Robert aveva combattuto tutta la sua vita contro il suo stesso essere, arrivando anche al matrimonio, forse una sorta di illusione per quello che sentiva realmente dentro di lui. Dopo il coming out la moglie lo lasciò e si dice che lui incominciò varie relazioni tra cui una con il meglio conosciuto Pollock.

Le incongruenze di idee di vita influenzarono sicuramente Robert De Niro jr che tuttavia rimase sempre legato al padre, ricordandolo ancora oggi con stima seppur velata da tristezza. I due passavano tempo insieme andando al cinema, prima a vedere opere di grandi come Jean Cocteau, poi a vedere lo stesso de Niro jr recitare in varie pellicole. Robert jr ricorda come a volte fosse molto naturale per loro rimanere in una stanza entrambi in silenzio, forse su due linee opposte di pensiero, ma mai opposti come persone.

Robert fu un grandissimo pittore, riconosciuto dalla critica e dai grandi dell’ambiente con cui poteva facilmente competere uscendone vincitore. Nonostante questo, con l’affacciarsi di nuovi stili e tendenze e la prevalenza della pop art nel mondo dell’arte, cadde nel dimenticatoio.

Continuò a dipingere tutta la sua vita, come una sorta di bisogno interiore dettato dalla propria essenza e mai da esigenze economiche o di riconoscimento. Fu affetto per anni da depressione, causata principalmente da vari rifiuti di galleristi francesi di esporlo, ignari della portata delle sue opere in America. Morì nel 1993 all’età di 71 anni.

Robert Jr in un’intervista del 2012, disse di aver lasciato il suo studio come lo aveva lasciato il padre prima di morire, un gesto, forse, volto a ricordarne la grandezza e al tempo stesso l’umanità.

House (1977)- L’orrore comico

Nel periodo della sperimentazione cinematografica degli anni ’70 abbiamo avuto diverse produzioni rilevanti e meravigliose. Ad occidente, come a oriente, ci si stava affacciando su nuove metodologie d’avanguardia e interessi diversificati nella produzione cinematografica.

In America c’era David Lynch, ancora oggi regista di estremo talento e grande capacità visionaria che ha realizzato film fuori dal comune, sia per la trama che per le immagini. 

Sul filone di questa novità in ambito cinematografico, il Giappone rispose con un altrettanto talentoso e eccentrico artista. 

Era il 1977 quando uscì House, un film realizzato dall’allora emergente regista Nobuhiko Obayashi.

Fino ad allora Obayashi si era occupato esclusivamente di spot pubblicitari di vario calibro, pur avendo studiato cinema e avendo appreso tecniche innovative che furono il pilone portante dei suoi lavori successivi.

Il film, capolavoro trash tra il comico e l’horror, vede protagoniste 7 ragazzine durante le vacanze estive e una casa infestata. 

La trama, piuttosto semplice, come i nomi delle ragazze che corrispondono alle loro caratteristiche portanti, è imbevuta di bellezze del genere e di scene alquanto particolari che hanno reso il film un cult per diverse generazioni.

Le idee, innovative e mai banali (vedi micetti assassini), riescono a strappare un misto di orrore e sdegno, ma alimentano l’eclettismo ricercato con inquadrature nuove e elementi iconici. Le atmosfere oniriche e idilliache vi coinvolgeranno, così come la colonna sonora e le continue grida delle povere sventurate mandate al macello. 

La particolarità più rilevante rimane però la tecnica fotografica che viene usata in maniera inusuale, ma che non sfocia mai in qualunquismi convenzionali e preconfezionati. Il film merita, non tanto per la trama, quanto proprio per l’idea che sta alla base della sua realizzazione. Guardare per credere!

Bellezze artistiche: il manoscritto misterioso

Era il 1912 quando Wilfrid Voynich, mercante di libri rari di origine polacca, comprò al collegio gesuita di villa Mondragone una serie di libri.

Tra questi c’era un manoscritto di pergamena di vitello molto insolito.

All’interno del libro c’era una lettera che riportava come un tempo fosse stato di proprietà di Rodolfo II di Boemia che lo aveva acquistato per 600 ducati credendolo realizzato dal famoso Ruggero Bacone.

Il libro, oggi segnato con la sigla Ms 408 presso la biblioteca di Yale, famosa per la sua collezione di manoscritti rari, viene denominato Manoscritto di Voynich.

La sua particolarità risiede nella sua stranezza linguistica. Il manoscritto infatti, che contiene diverse sezioni, sembra essere scritto in una lingua sconosciuta e intraducibile.

Da anni gli studiosi si sono contesi il merito di aver tradotto quest’opera, ma con il tempo sono stati tutti smentiti nei fatti: il manoscritto sembra essere davvero scritto in una lingua estinta.

La struttura è peculiare: ci sono 116 fogli di cui 14 sono andati persi.

All’interno ci sono 4 sezioni chiamate per convenzione botanica, astronomica-astrologica, biologica e farmacologica. 

Le illustrazioni, a colori, ritraggono piante non riconoscibili, costellazioni, donne intente a quelli che sembrano dei bagni termali e varie boccette di natura chimica.

Fino al 2011 molti lo ritenevano un falso, costruito ad arte per prendere in giro Rodolfo II, in particolare modo da parte di Edward Kelley.

La prova della sua falsità è stata scardinata dalla datazione scientifica al radiocarbonio che lo fa risalire al XV secolo e dalle prove effettuate su pergamena nel corso degli anni.

Il manoscritto sembra essere quindi estremamente antico, probabilmente scritto come enciclopedia di natura medica la cui realizzazione rimane sconosciuta.

La particolarità, notata da Bennett nel 1976, è la bassa entropia della lingua, ovvero lo scarsissimo numero di parole, molte delle quali si ripetono in un susseguirsi di stranezze, che la assocerebbero tra le lingue moderne, solo all’hawaiano.

Alcuni studiosi recentemente hanno pensato si trattasse di una sorta di dialetto antico, ormai estinto, forse realizzato come una lingua artificiale per scopi medici.

Altri credono che sia riconducibile a lingue provenienti dall’Asia minore, sia per il suo alfabeto, estremamente inusuale, sia per la struttura delle frasi.

Ad oggi il mistero rimane.

L’origine del manoscritto è sconosciuta e tutti gli studi più illustri sembrano solo dimostrare la difficoltà di riconoscimento della lingua e del contenuto. Tutt’ora rimane uno dei reperti più stravaganti e misteriosi che possediamo, un mistero che ha alimentato la fantasia di autori e artisti, che ha lasciato spazio a speculazioni di vario genere, alcune decisamente sopra le righe.

Il suo valore storico tuttavia rimane il fulcro portante delle ricerche scientifiche ed è la base fondante degli studi di molti illustri scienziati e linguisti.

Riusciremo mai a tradurlo? Forse. Sta di fatto che la sua bellezza artistica rimane ancora incontestata e impareggiabile.

Book Club: sotto l’ombrellone

La calura estiva ci lascia completamente privi di energie, ma con un forte desiderio di mare e relax.

Perché non avventurarsi quindi verso letture varie mentre stiamo comodamente sdraiati sotto l’ombrellone con una bibita fresca in mano?

Ecco a voi i consigli per questa estate super hot!

My body di Emily Ratajkowski: una serie di saggi di stampo femminista sul corpo della donna, più in dettaglio sul suo. Lettura interessante e che fornisce degli spunti di riflessione sul potere patriarcale e il sistema, su come controlla anche la percezione che abbiamo di noi stesse. Inaspettatamente devo dire che l’autrice aggiunge qualcosa di fresco al suo modo di scrivere, rendendo la lettura piacevole e mai pesante, interessante e profonda allo stesso tempo, ma mai banale. Consigliatissimo!

Storie della tua vita di Ted Chiang: Antologia di racconti su base fantascientifica. Da uno di essi ( uno dei miei preferiti) è stato tratto il film “Arrival”. Ci troviamo di fronte a storie pazzesche, da certi punti di vista riescono a scuotere le convinzioni personali in maniera profonda lasciando spazio a qualcosa di innovativo. Bisogna leggerlo con attenzione, ma i racconti brevi presenti possono essere finiti in una giornata lasciandovi poi il tempo per qualche tuffo in mare!

Vladimir Naboko, Lolita: poco da dire su questo capolavoro indiscusso di prosa. Personalmente l’ho trovato una lettura piacevole e stimolante, perfetta per un pomeriggio all’ombra del sole!

Samuel R. Delany, Babel 17: libro complesso, ma estremamente innovativo nelle sue idee. Lo stampo è di carattere fantascientifico, con particolare attenzione al linguaggio e alle sue componenti. Vi farà viaggiare in posti lontani e fuori dal nostro tempo, dove le relazioni e le persone sono completamente diverse da come le conosciamo noi!

Joan Didion, Play as it lays: lettura innovativa nell’approccio Didioniano. Non sono una serie di saggi di varia natura, ma una storia vera e propria che si snoda attraverso le pagine. I temi affrontati sono attuali anche se è un libro degli anni ’60. Interessante è il legame che la Didion è riuscita a creare con il lettore: sei letteralmente nella testa della protagonista. Fantastico!

L’esperimento scientifico più inusuale della storia

Biosphere 2, questo è il nome attribuito a un esperimento scientifico iniziato con la costruzione di enormi padiglioni nel mezzo del deserto dell’Arizona.

La costruzione, avviata nel 1987 e terminata nel 1991, prevedeva l’allestimento di un’estesa superficie per la creazione di una “seconda terra”.

All’interno delle istallazioni di metallo e vetro coesistevano 6 diversi ecosistemi: la foresta tropicale, un oceano con tanto di barriera corallina, una palude di mangrovie, un deserto, la savana e terreni coltivabili. In aggiunta erano presenti numerosi laboratori per lo studio di piante e animali.

L’idea nacque da John Polk Allen, uno scienziato esperto in leghe metalliche e la moglie, Marie Harding, fotografa. Prima di allora avevano sperimentato diversi anni di vita in un ecovillaggio fondato da loro nel 1969, il Synergia Ranch, situato a Santa Fe, nel New Mexico.

La funzione di queste mastodontiche strutture doveva essere quella di introdurre dei possibili sistemi di colonizzazione di altri pianeti, come Luna e Marte, lo studio della crescita della flora e della fauna e i vari cicli vitali e chimici che interessano il Pianeta Terra.

Un’ulteriore finalità era quella di provare l’ipotesi Gaia, del biofisico James Lovelock e della microbiologa Lynn Margulis che nel 1972 avevano ipotizzato che terra, piante e animali si fossero sviluppati nel corso delle epoche in un sistema autoregolante.

All’interno degli spazi furono introdotte più di tremila specie differenti, tra piante e animali, pesci e insetti, oltre che cereali e verdure di vario tipo.

L’esperimento venne avviato il 26 Settembre del 1991, con otto partecipanti, quattro uomini e quattro donne che per un periodo di due anni dovevano vivere all’interno di Biosfera 2 in maniera autosufficiente, quasi completamente isolati dall’esterno, mentre conducevano esperimenti pratici per raccogliere dati.

Questa straordinaria idea però cominciò ben presto a vacillare.

La mancanza di sole non garantiva una corretta crescita delle specie al loro interno, la scomparsa degli insetti impollinatori rappresentò un problema anche di fronte all’alto tasso di riproducibilità di formiche e blatte, che presto invasero tutti i compartimenti, e una pericolosa caduta dei livelli di ossigeno compromisero l’esperimento al punto tale che il sistema isolato dovette ricorrere a numerosi aiuti esterni.

Anche sotto un profilo psicologico la situazione si fece tesa.

Ben presto si svilupparono due fazioni di pensiero, capeggiate da due delle scienziate presenti che avevano visioni diverse circa la conduzione dell’esperimento e il mantenimento del suo isolamento dal mondo esterno.

Nonostante tutto gli otto scienziati rimasero per la durata intera dei due anni e uscirono nel 1993.

L’anno successivo venne annunciata una seconda missione, anche in luce al fallimento colossale della prima e delle varie problematiche che si erano istaurate all’interno del complesso esperimento.

La missione 2 fallì dopo appena 32 giorni per la natura troppo estrema dell’esperimento.

La struttura, eccessivamente grande e costata 150 milioni di dollari, fu affidata alla Columbia University fino al 2003, per poi passare all’università dell’Arizona.

Tutt’ora è un museo aperto al pubblico, ma non disdegna una funzione scientifica. Si studiano infatti gli ecosistemi e le loro relazioni, nonché nuove proposte per fronteggiare il cambiamento climatico.

Una delle note più interessanti è sicuramente l’aspetto psicologico dell’esperimento, che viene elaborato all’interno degli studi psicologici e sociali avviati nella struttura, e in particolare modo la relazione tra uomo e natura, che nel corso degli anni è stata persa, nonché la relazione sociale tra uomini, fattore fondamentale per le eventuali future colonizzazioni di altri pianeti.

Ulteriori studi riguardano l’acidificazione degli oceani, causa principale dell’estinzione della barriera corallina e le pratiche necessarie a impedirla.

Questa idea, nata principalmente con scopi scientifici validi e definiti, è diventata nel corso degli anni fonte di imbarazzo per gli ideatori, un’utopia troppo grande e pretenziosa per poter essere raggiunta.

Molti sono stati coloro che hanno storto il naso di fronte a Biosfera 2, di fronte al suo costo e di fronte alla metodologia con cui gli esperimenti sono stati condotti.

Nonostante ciò potrebbe essere un importante punto di svolta per gli studi climatici e per tutte le questioni ambientali, faunistiche e floristiche che ci riguardano da vicino. Avere una struttura così vasta, con dei sistemi ecologici già stabiliti e adattati potrebbe rappresentare il punto di partenza per ulteriori studi e per ulteriori missioni, garantendo una risorsa fondamentale e non indifferente anche per le generazioni future.