Perché il diritto all’aborto deve essere inviolabile

Partiamo dai fatti scottanti delle ultime settimane.

In America è stata soppressa la roe vs Wade, sentenza della corte suprema che è stata istaurata nel  1973, tutelante il diritto di aborto a livello costituzionale.

Prima di allora, in un tempo remoto e retrogrado, i singoli stati federali disciplinavano il diritto di aborto autonomamente con leggi proprie. In molti stati era considerato reato interrompere una gravidanza, sia per motivi di natura personale, come le scelte dovute alla mancanza di capacità di sostentamento economico, sia in casi di gravidanza indesiderata a seguito di stupro, sia nel caso di gravidanze a rischio di complicanze mediche per il feto o la gestante. 

Basti pensare che solo in tre stati era considerato valido a seguito di stupro o di pericolo di salute per la donna abortire un feto e tutelare sé stesse prima di qualsivoglia “moralità” religiosa o imposizione legislativa.

La sentenza ha cominciato da subito a dividere i due schieramenti “pro-choice” e “pro-life” dando vita a un dibattito piuttosto pacato da una parte e decisamente presuntuoso dall’altra. I sostenitori della vita contro ogni cosa infatti , basandosi prevalentemente su contesti di natura religiosa, si sono sempre opposti in maniera più o meno marcata- e spesso marcata all’estremo- nei confronti della Libertà , da intendersi con la lettera maiuscola, di scegliere se portare a termine una gravidanza o no.

Le loro motivazioni sono retoricamente le stesse: un feto è una vita e come tale va tutelata.

Compiere l’aborto in qualsiasi caso rappresenterebbe uccidere un essere umano e opporsi alle leggi che governano i paesi oltre che a leggi superiori e divine.

La donna ha quindi il compito di portare avanti la gravidanza e di far nascere il bambino indipendentemente da qualsivoglia fattore pre-esistente.

Perché questo rappresenti un problema è evidente.

In un contesto aperto come quello Americano, che per anni è stato il lontano sogno a cui tutti ambivano,  ci si dovrebbe basare sulla libertà come valore fondante dell’esistenza umana. Sebbene si faccia ancora fatica a integrare ogni singolo individuo ( vedi il razzismo imperante) è ancora presente la radicata lotta tra i sessi, pilastro fondante di tutti i conflitti anzitempo della società. 

Essere donna nel 21° secolo rappresenta ancora una fonte di costi e limitazioni che si pensavano abbandonate e superate da tempo.

Generalmente le donne dovrebbero poter avere gli stessi diritti della controparte maschile, ma questa realtà sembra sfuggire ai più, che temono ancora che dare diritti alle donne significhi in qualche modo una virilità minacciata e inevitabilmente, indebolita. 

Ma già il discorso di base è sbagliato: Non c’è nulla da dare, solo da riconoscere e tutelare in quanto esseri viventi.

Non si sa perché degli uomini possano permettersi di decidere e se per questo avere anche un’opinione su questioni di natura anatomicamente femminili, o in generale perché una persona indipendentemente dal sesso biologico o dal genere debba dettare le possibilità di scelta di un’altra, limitandole e sottoponendole a dei vagli critici che non hanno senso di esistere in una società civilizzata. 

Il corpo di una donna, che diventa inevitabilmente un’incubatrice che per nove mesi, cresce e cambia, soffre e si evolve, a volte con gioia, ma a volte anche con dolore e scomodità, dovrebbe essere onorato come fonte di fertilità solo nel caso in cui questa sia desiderata e ricercata. Perché questo rappresenta un punto fondante della realtà dell’essere umano in sé.

La mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro e pertanto io sono padrona delle mie decisioni e del mio spazio vitale, inteso come il mio corpo fisico di carne, dei suoi meccanismi e delle sue funzioni e anche della sua possibilità di riprodursi o meno. 

La donna deve essere libera, contro ogni imposizione, di fruire del suo corpo come meglio crede e questo non è stato possibile per la gran parte della storia dell’umanità. Anzi per tutta. 

Fin dall’antichità il corpo femminile è stato un terreno di battaglia su cui uomini prepotenti hanno deciso le sorti del mondo e donne succubi hanno preteso, con giudizio imperante, la padronanza di ideali e la sottomissione a leggi arcaiche e controproducenti. E forse ciò rappresenta il tradimento più grande. Di fronte a uomini che si preoccupano così intensamente del corpo femminile, ogni donna dovrebbe sostenere la propria amica, sorella, madre, figlia, ad esercitare la sua libertà, mentre è evidente che alcune donne sentano ancora il bisogno, dettato da una società patriarcale e maschilista, di sottolineare come il non avere un diritto sia di fatto un privilegio.

E tutto ciò non fa altro che alimentare un vecchio paradigma dove l’uomo ha il potere e solo le donne “meritevoli” e “superiori” rispetto alle altre possono in qualche modo fruire dei suoi privilegi.

Questo alimenta la lotta uomo-donna e più di tutte, la lotta donna-donna.

Tutto ciò rende il confronto estremamente insensibile di fronte alle esigenze del sesso femminile in particolare modo di quella parte di esso che vuole combattere per la salvaguardia dei propri diritti naturali e inviolabili, che ancora oggi deve stare un passo indietro di fronte a uomini sempre più incattiviti e invidiosi e a donne che a loro volta hanno bisogno di sottolineare la loro superiorità rispetto alle altre e nascondere la loro “inadeguatezza” e insicurezza.

Quest’anno, all’alba del 2022, che sembrerebbe essere decisamente un contesto migliore per stabilire i diritti degli esseri umani e garantire l’inclusività di tutti, la sentenza è stata ribaltata.

Cosa signfiica questo? Che i signoli stati possono scegliere cosa decidere in base ai casi e in generale che le donne hanno di fatto perso il diritto di scelta sul finire o meno le loro gravidanza- indesiderate o non. 

In un mondo in cui l’esistenza umana sembra essere sempre più sulla direzione dell’inclusività, questo rappresenta un evidente passo indietro. 

Dobbiamo costantemente guardarci le spalle. 

Dobbiamo sempre sottolineare come siamo esseri viventi che hanno dei diritti in quanto tali, che devono poter esercitare la propria libertà in un contesto sicuro e sano.

Perché abolire l’aborto significa solo abolire l’aborto in sicurezza.

Significa costringere donne che non hanno i mezzi necessari al sostentamento a provvedere a una situazione indesiderata, che può essere rischiosa per la loro vita, e dover essere vittime della scelta altrui, senza aiuti di nessun tipo.

Significa creare donne deboli, sole, povere, che non possono aspirare a un futuro migliore, che devono essere escluse anche dall’attività più naturale del mondo per paura di un bagaglio inatteso. 

Significa ripopolare il mondo di uomini più controllanti, più potenti e che possono decidere per tutti.

Significa tornare indietro.

E questo non è un bene per nessuno se non per coloro che controllano le scelte altrui imponendo solo le proprie verità.

Sembrerebbe che ogni piccola rivalsa che riusciamo ad ottenere dopo anni di soprusi e ingiustizie debba essere nuovamente soppressa per portare avanti una mentalità vecchia e retrograda che qualche individuo impertinente vuole far prevalere. 

In questo spazio non emerge la natura più profonda e empatica dell’essere umano, che con estrema fatica cerca di riaffiorare in superficie portando un’energia nuova, rinnovata, più leggera e saggia della precedente. 

Di fronte a questo sembra impossibile mantenere la speranza.

Di fronte a questo enorme, gigantesco atto di meschinità e cattiveria c’è da chiedersi se forse anche gli altri stati con personaggi politici alquanto dubbi non comincino a portare avanti queste ideologie dannose e pericolosissime per il benessere di tutti. Fortunatamente l’unione europea sta cercando di mediare a questa situazione e garantire la possibilità di agire secondo il proprio volere nei confronti di una situazione che ha fattezze puramente personali e pertanto private.

Ognuno è libero di scegliere per sé stesso. 

Ed è indice di intelligenza emotiva e rispetto per il prossimo avere fiducia della sua capacità decisionale in merito a questioni di natura personale che interessano solamente lei.

La regina dei leoni

Ad alcuni di voi sarà probabilmente sconosciuto il nome Tippi Hedren.

Ebbene sì, forse siamo una generazione ancora troppo giovane per poterci ricordare di questa straordinaria attrice, musa di Alfred Hitchcock e famosa protagonista del film “Gli Uccelli”.

Forse possiamo ignorare completamente che è la madre di Melanie Griffith e nonna della più celebre Dakota Johnson, ma sicuramente la sua filosofia personale può ancora affascinare.

Alla fine degli anni 60, l’allora 39enne Tippi si appassionò di felini al punto tale da decidere di comprarne diversi esemplari da tenere in casa. L’esperienza ricreativa con i leoni le fece venire l’idea di girare un film che avesse per protagonisti gli amici a quattro zampe e così, negli anni 80, Tippi decise di cominciare le riprese.

Il film, “Il grande ruggito”, fu realizzato alla modica cifra di 17 milioni di dollari, decisamente costoso per un film casalingo. La particolarità di questa pellicola era che i leoni non erano addestrati.

Questo dettaglio fu significativo in quanto una leonessa ferì la stessa Hedren causandole uno squarcio che ebbe bisogno di ben 50 punti di sutura. Il film ottenne scarso successo e fu definito il film più pericoloso mai realizzato.

Nonostante l’esperienza negativa sul set, Tippi, credente ambientalista e sostenitrice dei diritti degli animali, decise di mantenere il suo zoo privato e per diversi anni lo allargò fino a contare più di un centinaio di esemplari.

Life fece un servizio sulla famiglia nei primi anni 70, facendo conoscere al mondo la realtà quotidiana dell’attrice e dei suoi parenti più stretti. Le fotografie, scattate interamente nella loro casa, ritraggono momenti di normalità accompagnati dalla presenza del leone Neil. Se ad alcuni questi bizzarri scatti sembrano divertire, ad altri hanno fatto sorgere la domanda spontanea: fino a che punto si può agire nella cieca convinzione?

Fortunatamente non ci furono significativi incidenti nella famiglia nel corso degli anni e ancora oggi, la bella Tippi possiede felini da compagnia, in numero minore rispetto all’esosa quantità del passato. Secondo la nipote, Dakota, ancora oggi è comune parlare al telefono con la nonna mentre un leone o una tigre si affacciano dalla finestrella della cucina.

La vicenda rimase per lo più un esempio degli eccessi e delle idee non convenzionali di un periodo storico ben lontano dal nostro, quando ogni elemento di esclusività veniva sottolineato da una cultura alternativa, estrema nella sua essenza per certi versi, e decisamente eclettica nel suo essere così originale.

Film per una (troppo) soleggiata domenica estiva

Quando il caldo dell’estate si fa sentire, come in queste ultime settimane, diventa difficile fare attività all’aperto. Solo l’idea di buttarci sotto il sole cocente ci sfinisce e l’unica soluzione plausibile sembra stare chiusi in casa con il condizionatore sparato a mille.

Certo è allettante stare al fresco, abbandonati sul divano a passare le ore in una sorta di dormiveglia collettivo.

Però a volte ci si annoia a morte a passare i pomeriggi così, soprattutto per chi non ha la fortuna di una bella piscina fresca in cui buttarsi ancora vestito.

Insomma bisogna trovare qualcosa da fare.

Se siete i tipi da libri forse questo non è il miglior post che potete trovare. Se invece siete deconcentrati dal caldo e volete passare un pomeriggio afoso di fronte alla tv (o al pc) questa lista fa per voi:

Il giardino delle vergini suicida (1999) di Sofia Coppola:

Storia complessa, di fatto una mezza tragedia, ma se siete degli esperti di estetica troverete questo film decisamente piacevole. Forse è un po’ impegnato per un pomeriggio estivo, ma merita per la fotografia e in generale per la recitazione. Ah parla di vergini suicida, come potevate immaginare.

Picnic a Hanging Rock (1975) di Peter Weir:

Questa chicca ambientata nel 1900 vi lascerà di stucco per la misteriosità della sua trama. Allo stesso tempo però vi intrigherà così tanto che probabilmente cercherete la spiegazione su internet. Cercare di capire perché delle giovani donne sono scomparse in maniera del tutto imprevedibile vi terrà attaccati allo schermo e alla fine finirete per apprezzare l’estetica anni 70 di questo piccolo capolavoro.

LOLITA, Jeremy Irons, Dominique Swain, 1997

Lolita (1997) di Adrian Lyne:

Un classico estivo, a mio modesto parere. Se siete appassionati di lettura consiglio il romanzo, un grande capolavoro di letteratura 900esca. Il film del 97 ha toni più soavi di quello di Kubrick, di cui non sono ad oggi una grande fan. La storia è la stessa, ma a mio avviso Dominique Swain ha fatto un lavoro sublime e il vibe merita.

Laguna Blu (1979) di Randal Kleiser:

Anche questa perla (caraibica) viene da un rinomato romanzo. La storia d’amore dei due protagonisti ha visto i limiti della pedofilia secondo alcuni, secondo altri è solo una rappresentazione naturale della vita di due giovani dispersi su un’isola remota. E poi parliamoci chiaro: Brooke Shields con i capelli al vento, lunghi fino alla vita, è decisamente un’icona degli anni ottanta e comunque la visione di un mare caraibico è sempre preferibile alla siccità.

Rose Red (2002) su idea di Stephen King:

Per gli amanti dell’horror, come me, una piccola chicca poco conosciuta in patria. Una miniserie piuttosto vintage, ma che vi rapirà senza ombra di dubbio. Ambientata in una casa infestata, è il modo perfetto per trascorrere un weekend di paura e di forti emozioni. Anche di questa consiglio il libro “il diario di Ellen Rimbauer” che trae spunto dalla miniserie e racconta in modo più approfondito gli antefatti della storia.

Jennifer’s Body (2009) di Karyn Kusama:

Anche in questo caso si tratta di un horror (o quasi) che però merita per il disimpegno dei toni e la sua colonna sonora. Un film piacevole e non troppo impegnato, carino tutto sommato e che merita di essere visto. Megan Fox è stupenda nella parte della teenager mangiatrice di ragazzi.

Il canto dell’usignolo: il connubio perfetto tra arte, musica e danza

Anni fa andai a una mostra di matisse a Roma. Tra le sale e i bellissimi capolavori ricchi di colori sgargianti, mi imbattei in una visione che mi estasiò.

Non sapevo che uno dei più grandi artisti mai esistiti si fosse occupato di un balletto classico, il mio primo e grande amore.

L’opera prende il nome di “Le chant du Rossignol”, su musica composta da niente meno che Stravinskij stesso.

Ma facciamo un passo indietro.

L’opera fu composta tra il 1908 e il 1914 dal grande musicista che si fece convincere da Djagilev, un grande impresario teatrale di origini russe, a riadattarla in un balletto.

Il primo adattamento fu un flop, le parti ballate erano scarse e in generale il pubblico non apprezzò.

Successivamente si decise di movimentare l’opera.

nizialmente la scenografia fu attribuita a Fortunato Depero, ma le sue idee erano decisamente troppo stravaganti per la poetica dell’opera e venne accantonato.

Fu allora assunto Matisse come costumista ufficiale. Con la sua linea raffinata, dolce e gentile, realizzò dei costumi all’avanguardia, bellissimi e ciascuno dipinto a mano.

Il balletto andò in scena all’Opera di Parigi nel 1920 con la famosa compagnia dei Balletti Russi. La coreografia, affidata a Leonide Massine, risulto anch’essa un flop, troppi passi in controtempo e decisamente innovativa, forse un po’ troppo per lo spirito dell’epoca.

Nel ’25 la coreografia fu riadattata all’arte di un grandissimo ballerino e coreografo: Balanchine.

Il ballerino sembrò risollevare l’opera dalla sua precedente caduta e mise in scena un balletto all’avanguardia, ricco nel suo stile e di grande impatto scenico (come solo lui sapeva fare).

Da qui si susseguirono diversi esperimenti circa la coreografia che si protrassero per tutto il 900.

Ad oggi anche se i costumi realizzati da Matisse sono pezzi da museo, confinati dietro un vetro protettivo per la loro delicata essenza, il balletto conosce ancora i suoi momenti di gloria, riadattato per ovvie ragioni, viene messo in scena dalle più svariate compagnie, rimanendo tuttavia una piccola perla rara nel mondo della danza.

Margaretha, la ballerina dai mille volti.

Correva l’anno 1917, precisamente un Lunedì di metà Ottobre, quando Margaretha fu svegliata di buon mattino nella cella in cui era tenuta prigioniera.

Si vestì con calma, con l’aiuto di due suore e si incamminò verso il destino che era stato scelto per lei.

Presto, quella mattina, sarebbe stata legata ad un palo e fucilata da un plotone di esecuzione.

L’accusa che mosse questa vicenda era di spionaggio.

Fu colpita quattro volte, di cui una direttamente al cuore. Il suo corpo, ormai devastato dalla potenza micidiale dei proiettili fu gettato in una fossa comune e così dimenticato.

Un tempo quel corpo era stato oggetto di sogni proibiti e fantasie da parte di tutta Parigi. Ufficiali, uomini illustri, ma anche donne, vi avevano poggiato lo sguardo grazie all’esuberante sensualità che riusciva a trasmettere attraverso le sue danze. Pochi anni prima Margaretha non era conosciuta con il nome di battesimo, bensì con il suo nome d’arte: Mata Hari.

Il nome le venne dato nel 1905 sulla scena Parigina, dove si era rifugiata dopo un matrimonio disastroso. La bella Mata, che nella lingua malese significa “alba” o “occhi del sole”, cominciò a mantenersi come modella e a prostituirsi per riuscire a guadagnare abbastanza per un pasto.

Fu casualmente, ad una festa, che ebbe modo di sfoggiare il suo talento in tutto il suo splendore.

Cominciò infatti a danzare quella che sembrava essere una danza orientale, come disse lei, ispirata ai movimenti sensuali delle sacerdotesse del dio Shiva. La cosa non finiva qui: le sacerdotesse si spingevano fino a togliersi le vesti in un approccio erotico-amoroso verso il dio stesso. La serata fu un successo, ma fu la sua replica a casa di una popolare cantante che la consacrò nel mondo patinato delle star.

Da qui Mata cominciò a esibirsi anche in diversi teatri, attirando un pubblico maggiore e incrementando il suo successo.

Il suo numero consisteva in un lento e sensuale spogliarello di sete e tessuti trasparenti, fino a rimanere seminuda e ricoperta solo di gioielli orientali. In verità non mostrò mai apertamente i seni, ma questo bastava ad incuriosire gli animi degli spettatori della Belle Epoque.

Fu acclamata dalla critica che la definì “essa stessa la danza” ed ebbe numerosi ammiratori che le chiesero la mano. Purtroppo però l’idillio finì presto: l’affacciarsi del primo conflitto mondiale interruppe tristemente la sua carriera di danzatrice per lanciarla in un mondo completamente diverso e pericoloso.

Durante questi anni l’incertezza scandiva la vita in Europa.

Mata divenne amante del banchiere tedesco Van Der Schalk, che si dice fu il primo ad avviarla alla professione di spia. Inizialmente doveva portare informazioni sull’aeroporto di Contrexeville, in Francia, agli alleati tedeschi per cui faceva la spia sotto il nome di agente H21.

Visti i suoi numerosi amanti di spicco nel mondo della politica e dello spionaggio fu tenuta in osservazione, senza che lei lo sapesse, dal controspionaggio Inglese e Francese che si stava contemporaneamente muovendo per avere informazioni contro i Tedeschi.

Mata Hari

Durante le sue “missioni” però ebbe contatti diretti con il capo del controspionaggio Francese che le propose di entrare nel gioco per aiutare la Francia. Accettò l’offerta, sotto un pagamento di un milione di franchi, una cifra enorme per il tempo.

Da qui cominciò il suo doppio gioco. Spia tedesca e spia francese. I due lati di una realtà opposta ed estremamente pericolosa.

I tedeschi scoprirono ben presto il suo piano e la fecero arrestare in Francia.

Di fronte alle accuse gravissime Mata Hari inizialmente negò ogni cosa, ma quando la pressione cominciò a pesare sulle sue spalle, vuotò il sacco. La sentenza del tribunale la trovò colpevole del reato e fu condannata a morte il 15 Ottobre del 1917.

Fu forse la cieca fiducia nelle sue capacità seduttrici che in ultimo la condannò a un destino nefasto. Forse furono i troppi amanti, personaggi troppo in vista che sapevano molto bene cosa si celava dietro ogni mossa della Nazione. Forse fu una mossa sbagliata, una parola di troppo. Forse fu semplicemente il destino che giocò a sua volta con l’esistenza di Mata.

Una cosa è certa: la sua sensualità rimase un faro abbagliante. Come lei non ci fu nessun’altra. Molte presero ispirazione, ma nessuna riuscì ad eguagliare, nemmeno lontanamente, il suo successo e il suo apprezzamento.

In un momento storico che vedeva ancora la sensualità come un grosso tabù, Mata riuscì a creare qualcosa di iconico che perdura, un’unione tra Oriente e Occidente basata sull’erotismo ai massimi livelli e sulla fiducia nelle proprie capacità. Ancora oggi rimane un’ispirazione, una grande ballerina e performer che ha cambiato la mentalità del proprio tempo.

Zsuzsi e William: una storia d’amore tragica

Dietro al mondo dorato e fastoso della monarchia inglese si nascondono delle regole ferree, talvolta insostenibili, che scandiscono la vita iper programmata dei reali. Molto prima di Harry e Meghan e delle innovazioni che hanno portato nel regno inglese c’erano Zsuzsi e William.

William di Gloucester era il cugino della Regina, quarto in linea per il trono inglese.

Spirito libero e volenteroso di avere una vita normale, nel 1968, all’età di 26 anni, si trasferisce in Giappone, per lavorare nella diplomazia. Qui incontra lo sguardo di una donna un po’ più grande di lui, Zsuzsi Starkoff, di origine Ungherese.

William è bello, intelligente e terribilmente sexy e attira facilmente lo sguardo delle donne che gli garantiscono la fama di playboy.

Zsuzsi però è diversa. Non solo è più grande, che già di per sé potrebbe rappresentare un problema per la corona inglese, ma è anche divorziata, madre di due figli e lavora come hostess e modella nell’ambiente chic di Tokyo per mantenersi.

La relazione prende il volo in pochi mesi e i due si scoprono profondamente innamorati e uniti.

Nel 1969 la Principessa Margaret arriva in città per questioni reali ( in realtà ci sono voci che dicono che fosse in loco per controllare la relazione) e qui incontra la bella Zsuzsi. La modella supera la prova ed entra nelle grazie di Margaret che comunque dice a William di aspettare e vedere come procede il rapporto prima di prendere scelte affrettate.

Sempre in quell’anno i due decidono però di sposarsi, nonostante tutto.

A detta di William non pensava di provare un amore così intenso per una donna.

Purtroppo però le cose non vanno come previsto. Il padre di William infatti soffre di un ictus e Will è costretto a tornare in patria, dove incontra ostilità per via della sua scelta amorosa. I familiari lo incoraggiano a lasciar perdere in quanto la relazione non potrebbe mai consolidarsi in un matrimonio approvato dalla regina. Le regole sono chiare e non ci si può opporre.

I due si separano per diverso tempo, ma Zsuzsi rimane convinta dell’amore di William.

I due cercano di mantenere qualche contatto sporadico, ma l’allontanamento pesa sulla relazione che arriva a concludersi nonostante i due si amino ancora.

Quello che non si aspettano però è la piega che la vita prenderà di lì a breve.

Nel 1972, all’età di 30 anni, William incontra la tragedia.

Pilota appassionato, il 28 Agosto di quell’anno, decide di partecipare ad una gara vicino a Wolverhampton.

L’aereo su cui viaggia si schianta poco dopo il decollo, non lasciando al pilota e al copilota nessuno scampo.

In un documentario rilasciato nel 2015 la Starkoff dichiarò che in quell’occasione William la invitò a partecipare con lui alla gara, ma per varie ragioni lei non accettò evitando inconsapevolmente il destino nefasto riservato al suo amato.

Fino alla morte, avvenuta nel 2020, Zsuzsi ha indossato l’anello che William le aveva regalato, la copia identica di quello che lui indossava al momento della sua morte.

Walter Russell: L’uomo che il mondo non è pronto ad avere

Questa frase risuona attorno alla personalità di Walter. Fu il famoso Nikola Tesla, scienziato e inventore a dichiararla dopo averlo conosciuto nel 1921. “Il mondo non è pronto alle tue intuizioni”, gli disse Tesla dopo avere ammirato i suoi lavori. Ed in parte fu così.

Walter Russell nacque nel 1871 a Boston, Massachusetts. Crebbe senza avere una particolare istruzione se non la scuola primaria fino ai 9 anni, che abbandonò per dare una mano in casa.

Si trasferì a Parigi dove ebbe modo di frequentare una scuola d’arte e nel 1894 tornò a New York componendo, nel 1900, il famoso dipinto “The might of ages”.

Fu innanzitutto un artista molto prolifico, un filosofo, uno scultore acclamato, un musicista e un autore, ma sono soprattutto le sue scoperte inerenti la natura che mi hanno affascinata.

La sua prima illuminazione avvenne all’età di 7 anni quando ebbe una esperienza fuori dal corpo.

A 14 anni fu dichiarato morto di difterite, ma per un qualche strano miracolo, riuscì a ritornare, come disse lui :”Mi hanno chiesto di tornare”.

Queste esperienze insolite plasmarono moltissimo la vita e le credenze di Walter e lo spinsero ad indagare maggiormente gli aspetti metafisici dell’esistenza umana.

I suoi interessi sono vari e spazia da discipline più umanitarie e artistiche a ricerche scientifiche.

Nel 1926 pubblica la sua tavola periodica a spirale che prediceva nuovi elementi, nuovi elementi radioattivi e situazioni chimiche e fisiche al di sotto dello standard atomico dell’idrogeno.

Nel 1929 per 39 giorni ebbe un’esperienza illuminante che ricorda come “illuminazione nella luce della coscienza cosmica”, in cui dichiarò di aver compreso i perché più reconditi dell’esistenza umana. Una sorta di Illuminazione Buddhista.

La sua abilità artistica gli permise di realizzare disegni e diagrammi che potevano rappresentare le sue visioni, molti dei quali estremamente difficili da interpretare e comprendere.

Fu autore di dozzine di libri, come “the Universal One” del 1926 e “The Book of early whisperings” del 1949.

La sua filosofia si basava sulla luce e può essere racchiusa da questa affermazione:


“All matter is a manifestation of light, everything is related”

Essenzialmente credeva che l’universo fosse dato da onde elettromagnetiche in movimento e che colui in grado di comprendere questa realtà fosse chiamato alla trascendenza stessa. La forza motrice e creatrice di tutto era vista e interpretata nel sesso, come unione di forze opposte entrambe creatrici.

Si spense il giorno del suo compleanno del 1963, lasciando numerosi disegni e scritti di natura metafisica e scientifica.

Non fu preso particolarmente sul serio come studioso di scienze, ma di sicuro alcune delle intuizioni che ebbe furono portate avanti nel corso dei decenni, fino ad arrivare a noi.

Sharon Tate’s Legacy: Recollection

Il mio interesse per Sharon Tate è nato da una semplice fotografia: l’attrice indossa un abito azzurro con colletto bianco e sta seduta a un cafè parigino degustando una bevanda calda.

Non sapevo molto di questa giovane bellezza ed essendone rimasta particolarmente colpita, ho cominciato a cercare informazioni su di lei, incappando nella vicenda Manson.

Incredibilmente la sua morte rappresenta il fulcro della sua popolarità, eppure si tende a dimenticare chi fosse quando era in vita.

Sharon nasce nel 1943 da Doris Gwendolyn e PJ Tate, è la loro prima figlia, è sana e bella.

Cresce in un ambiente felice e sereno e sogna di diventare una ballerina o una psichiatra, ma coltiva anche l’ambizione di diventare una star del cinema.

La sua straordinaria bellezza la fa notare da numerose persone, tant’è che nel 1959 partecipa ad un concorso di bellezza che la vede vincitrice.

Nel 1960, a causa del lavoro di militare del padre, la famiglia Tate si trasferisce a Verona, dove soggiornerà per diversi anni. Qui Sharon vive spensierata e felice.

Sharon Tate, 1961, Verona.

Nel 1962 la giovane si trasferisce a Los Angeles dove decide di tentare la carriera d’attrice, incoraggiata dalla sua bellezza e dall’esperienza positiva del set, che l’aveva vista come comparsa nel film “Le avventure di un giovane” con protagonista Paul Newman.

Nel 1963 partecipa alla serie “The Beverly Hillbillies” in cui fiancheggerà Max Baer.

Sul set di “The Beverly Hillbillies” nell’episodio “The Garden Party”, 1 Agosto 1963

Nel 1964 incomincia una relazione amorosa con il parrucchiere delle star Jay Sebring, che incontrerà la morte insieme alla ex ragazza per mano della Family di Manson nella tragica notte del 9 Agosto 1969.

1965, by Pierluigi Praturion

1965, by Tatami

Verso la metà degli anni sessanta si reca a Londra per un ruolo in “Eye of the Devil”. Qui ha modo di frequentare l’ambiente culturale della Swinging London, fatto di moda e stravaganza, discoteche e acido (di cui tuttavia non fa mai uso, se non saltuariamente).

Sharon as Odile de Caray, “Eye of the Devil”, 1966

“Eye of the Devil”, 1966

“Eye of the Devil”,1966

In questo periodo incontra l’amore della sua vita, Roman Polanski, con cui recita nel film “Per favore non mordermi sul collo!” del 1967.

Nello stesso anno interpreta Malibu in “Don’t make waves”. Nel film posa in diverse scene in bikini, dove emerge tutta la sua bellezza e tonicità.

Al tempo si prediligeva un aspetto androgino, più vicino alle figure di Twiggy o di Mia Farrow, piuttosto che un fisico tonico e sodo come quello di Sharon. Tuttavia, a dispetto di questo, la Tate emerge come icona sensuale introducendo per la prima volta un tipo di corpo molto più sportivo e curvilineo, che lascia spazio a forme più “rotonde” e dolci.

Tony Curtis e Sharon in “Don’t Make Waves”, 1967

Sharon sul set,1967
Sharon in “Per favore non mordermi sul collo!”, 1967

Il suo ruolo più celebre rimane tuttavia quello di Jennifer North in “Valley of the dolls”, film ispirato al romanzo omonimo del 1967.

Debra Tate, sorella di Sharon, ricorda come il make-up del film fosse estremamente innovativo per il periodo, ispirato alle tecniche usate negli anni ’30 da Greta Garbo.

In questo contesto cinematografico lo sguardo della Tate viene accentuato usando la famosa “banana”, la linea scura, per intenderci, sopra la palpebra, che rimane tutt’ora l’icona indiscussa dello stile degli anni sessanta.

Il film uscì a Dicembre di quell’anno e ottenne recensioni miste, ma fu un successo al botteghino.

Nel Febbraio successivo Sharon viene nominata per il suo primo, e sfortunatamente ultimo, Golden Globe.

“La valle delle bambole” viene considerato ancora oggi un classico del periodo e l’interpretazione della Tate la migliore della sua carriera.

Sharon con Tony Scott in “La valle delle bambole”, 1967

primo piano di Sharon in “La valle delle Bambole”, 1967, by Luis Goldman

La valle delle bambole, 1967, con il classico trucco a “banana” che diventò popolare grazie a lei.

Il 20 Gennaio 1968 è un anno importante per la vita privata di Sharon che convola a nozze con Roman a Chelsea, con un rito non convenzionale e con una festa nuziale svolta al club di Playboy.

Nozze di Sharon, 1968

Sharon e Roman aprono i regali di nozze, 1968

Famosissimo l’abito che indossò per l’occasione: moirè di seta avorio mini, proprio come voleva la moda degli anni sessanta. L’acconciatura prevedeva una grossa chioma con fiocchi rosa e bianchi tra i capelli.

Nel 2018 l’abito è stato battuto all’asta di Julien’s Auction per 56,250 dollari.

Sfortunatamente questa bellezza texana non arrivò oltre l’anno 1969. Il 9 Agosto, infatti, incinta di otto mesi del suo primo figlio (con Roman), venne accoltellata da alcuni membri della family di Manson per ragioni ancora non del tutto chiare.

Bisogna pensare che quello era un periodo storico relativamente spensierato. La rivoluzione Hippie degli anni sessanta aveva portato masse di giovani nell’ovest americano, alla ricerca di svago e di una nuova forma di vita, meno rigida e impositiva di quella del decennio precedente.

Non era inconsueto trovare per strada ragazzi che rovistavano nella spazzatura e gente a piedi nudi. La stessa Debra Tate ricorda come lei e la sorella spesso andassero nel centro di Los Angeles scalze e come la cosa fosse del tutto normale per il tempo.

Questa libertà e serenità era sentita da tutti, al punto tale che le persone non chiudevano le porte di casa poiché non si vedeva nell’altro il “nemico”. Girava moltissima droga, acidi per lo più, e prevalevano i party sulle colline Hollywoodiane.

La stessa Didion ricorda quegli anni come un periodo in cui non era inconsueto trovarsi un estraneo in casa. Dichiarerà nel suo “The White Album”, riferimento all’album dei Beatles da cui prenderà spunto Charles Manson per il suo Helter Skelter, che gli anni sessanta finirono proprio con la morte della Tate.

E ripensandoci fu così.

L’uccisione di una ventiseienne, incinta, nella propria casa, fu un segno chiaro del cambiare dei tempi, della nuova mentalità che si stava affacciando nelle vite delle persone. La spensieratezza e la leggerezza di quegli anni si persero inevitabilmente nei fatti drammatici di quella notte.

Tuttavia, nonostante la tragedia che la vide protagonista, la Tate rimane un’icona di stile e di bellezza, di carisma e talento. Ancora oggi ricordata positivamente da coloro che l’hanno conosciuta, porta avanti il suo status di sex symbol e di ispirazione per le nuove tendenze.

Valley of the Dolls, 1967

Orlando, 1966

Cannes, Maggio 1968

Sharon, 1969

Una delle ultime foto scattate a Sharon, Agosto 1969, pochi giorni prima dell’omicidio

Misteri e chicche della vecchia Hollywood

Ogni città ha le sue particolarità, alcune, più di altre, riescono a custodire dei piccoli gioielli di storia.

Tra le colline Hollywoodiane che si stagliano verso il blu intenso, si trovano delle rovine piuttosto singolari.

La spider Pool, una volta sfondo di una bellissima dimora appartenuta a Jack McDermott, è ora una parete abbandonata, rotta, tra piccoli arbusti che crescono incontaminati.

Tuttavia il suo fascino permane.

Jack comprò un esteso appezzamento di terreno situato sulle colline Hollywoodiane nel lontano 1921. Era situato così in alto e così lontano dal resto delle abitazioni che rimase senza strada sino al 1962, isolato e incontaminato nel verde naturale che lo abbracciava.

La casa venne costruita sino dai primi anni venti e divenne ben presto teatro di feste spettacolari e dei gusti decisamente insoliti del suo proprietario. Famosa già alla fine della sua costruzione, ottenne un breve cameo nel film “Hollywood the unusual” del 1927.

La casa e Jack

La casa, denominata “crazy house”, vantava l’arredamento delle scene cinematografiche che Jack aveva la possibilità di visitare grazie al suo lavoro nell’industria

Incorporati al suo interno c’erano cimeli provenienti da diverse produzioni come “The Mark of Zorro”, “Robin Hood” e molti altri, caratterizzando uno stile eccentrico e seducente, rimando ai tempi antichi e all’elemento orientale.

Jack seduto a terra nella villa

L’interno della sfarzosa villa

Ospiti seduti a terra

Un bagno della casa

Jacki in cortile

Tra gli elementi distintivi della villa c’erano tunnel sotterranei, caminetti situati sotto i letti, arte orientale e persino un falso cimitero. E per qualche strano motivo non vi erano sedie.

Jack presso il falso cimitero

Ma l’aspetto più affascinanti era sicuramente la piscina, denominata “Spider Pool”, costruita nel 1933, che si vide protagonista di un articolo del 1949:

“A labyrinth of dark subterranean passageways which honeycomb the ground under the hillside, the sliding doors and panels lend an eerie touch to the fantastic abode, which contrasts startlingly with the sun bathed swimming pool inlaid with thousands of hand-painted French and Italian tiles in a spider design. It was inevitable that such a storied castle should become the scene of gay film colony parties, and in the years gone by it rang with merriment by night.”

dettaglio della vedova nera realizzata sulla parete della piscina

La casa era luogo di feste sfarzose, quasi surreali, alimentate da musica, alcol e spettacoli per intrattenere gli ospiti, prevalentemente le élite Hollywoodiane e i grandi ricchi del tempo.

Per immaginarci il tipo di vita che si svolgeva all’apice della collina, dobbiamo far riaffiorare alla mente il personaggio stravagante di Gatsby con un briciolo, o forse un bel po’, di amore per le pin-up.

Quando gli ospiti erano troppo ubriachi si dice che Jack, con fare scherzoso, li conducesse nella “upside down room”, una stanza costruita appositamente per creare confusione, molto simile a quella che si trova nel film “Rose red” di Stephen King.

Ospiti seduti per terra

I party finirono quando Jack, 53enne, prese una dose massiccia di pillole per dormire. La proprietà venne quindi lasciata al nipote, ma non sopravvisse la prova del tempo senza il suo naturale possessore. Quasi sei mesi dopo la sua morte, il 31 Gennaio 1947, un incendio di origine sconosciuta rovinò la villa danneggiando parte della struttura originaria. Tra il 1947 e il 1949 la casa venne venduta a un altro eccentrico personaggio: Carl Brainard.

Dopo anni di negligenza dovuti anche alla responsabilità di Brainard, fu acquistata da Darrell e Frances Gregory. L’idillio durò poco, la casa venne infatti dichiarata pericolosa e rasa al suolo nel 1962. Di questa rimase solamente la piscina, di cui nessuno si interessò per molto tempo, lasciandola in stato di abbandono.

La famiglia Gregory in piscina

Fu solo negli anni 2000, grazie a internet, che riemersero diverse fotografie di giovani donne che posavano seminude di fronte alla muraglia intarsiata di mattonelle blu. Tra queste vi erano importanti figure del mondo del pin-up, come Tura Satana, Betty Blue e Jaqueline Prescott.

Le foto, risalenti agli anni 50, mostrano però la bellezza della costruzione originaria. Un Murales gigante con una grossa vedova nera sovrastava la piscina orientaleggiante.

Nel 2004 fu ritrovato il sito e il murales ancora intatto, e fu così che si scoprirono dettagli della casa e delle sue avventure, fino a identificare le opere di vari fotografi come Harold Lloyd e John Willie.

Betty Blue
Dolores del Monte
Modelle

Modella posa nuda presso la Spider Pool

Jaqueline Prescott

Jaqueline Prescott

Betty Blue

Modelle

Tura Satana By Harold Lloyd

Tura Satana By Harold Lloyd

Betty Blue

Nel corso degli ultimi anni la bellissima struttura acquatica è andata in rovina, generalmente grazie allo stato di negligenza in cui verteva da ormai troppo tempo. La proprietà iniziale è stata acquistata e si è proceduti con lo smantellamento delle strutture rimaste, lasciando solamente piccoli frammenti di ceramica colorata ai piedi di una collina.

Per il tour completo:

Marilyn Monroe, un’icona di stile poco conosciuta

Era Norma Jeane prima di diventare Marilyn. Una ragazza in preda a famiglie d’affido e una vita molto difficile. Fu solo nel 1947, all’età di ventun anni che riesci a sbarcare con il suo primo ruolo Hollywoodiano. Inizialmente reputata inadatta a ruoli drammatici, con uno scarso futuro d’attrice, nel 1953 ebbe l’anno della sua consacrazione a stella del cinema. Fu una strenua lavoratrice, sempre pronta a mettersi in gioco e migliorarsi.

Fino alla fine della sua vita, avvenuta per un’overdose di barbiturici all’età di 36 anni, fu considerata dall’industria maschilista e patriarcale del tempo solamente una bomba sexy, un’attricetta di commedie che riusciva a canticchiare e ballare, ma non ancora un’artista a 360 gradi, con capacità ben oltre i ruoli che le venivano affidati.

La sua vita amorosa fu turbolenta e spesso instabile. Ebbe diversi mariti, alcuni dei quali si rivelarono violenti, come Joe di Maggio, altri che la sminuivano come persona come Arthur Miller, che scrisse nel suo diario quanto fosse deluso dalle abilità dell’attrice.

Il suo sogno nel cassetto rimase sempre la maternità, cercata, sperata e pregata, che non arrivò mai a compimento (sembra che avesse avuto alcuni aborti). Reduce di una situazione materna difficile alle spalle, con questioni di natura psichiatrica e un abbandono piuttosto traumatico, Marilyn cercava conforto nell’idea di un figlio che potesse ridarle la gioia e l’amore che non aveva mai potuto provare.

Fu senza dubbio un’icona di stile e grazia. Estremamente colta, intelligente e perspicace si dava alla lettura ogni volta che poteva, a dispetto di coloro che la definivano una bionda stupida.

Attenta allo stile, inizialmente abbracciò la rigidità imposta dalla moda degli anni ’50, usando vestiti volti a valorizzare le sue curve e farci cadere l’occhio.

Celebre è la vicenda del vestito color Nude, costellato da brillanti che indossò per cantare “Happy Birthday Mr President” a John Kennedy, suo amante e allora presidente degli Stati Uniti. Fu battuto all’asta per 5,5 milioni di dollari.

Verso la fine degli anni ’50, con il suo esordio cinematografico più “serio”, la Monroe optò per uno stile meno costruito sul modello pin-up per indossare abiti piuttosto semplici.

Pantaloni capri e dolcevita, piedi nudi e un buon libro rappresentano appieno lo stile di questa donna ormai al culmine della sua carriera.

Il trucco sempre presente e l’acconciatura apposto l’hanno resa un classico che per generazioni continua ad affascinare. La vicenda drammatica l’hanno elevata a sogno proibito, anima estremamente gentile e sensibile che è andata incontro alla morte prematuramente.

circa 1955: American actor Marilyn Monroe (1926 – 1962) stands barefoot near a window in a sweater and checkered pants. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

1632160 American actress and singer Marilyn Monroe (1926 – 1962) at home 1951 (photo); (add.info.: L\’actrice et chanteuse americaine Marilyn Monroe (1926 – 1962) chez elle en 1951 — American actress and singer Marilyn Monroe (1926 – 1962) at home in 1951); Diltz.