Il giardino dell’Eden

Situato nella moderna Montecito si nasconde un paradiso naturale con una storia centenaria, animato da piante tropicali e subtropicali, piscine di loto e cactus che sembrano pungere il cielo.

Nel 1882 Ralph Kinton Stevens acquistò una proprietà che rinominò Tanglewood e utilizzò come casa di famiglia. Si trattava di un luogo molto grande che poteva ospitare tranquillamente diversi giardini. Alla sua morte la vedova trasformò la residenza in un ranch per ospiti per poi affittarla ad una scuola ed infine venderla nel 1913 a causa dei costi ingenti per il suo mantenimento.

Il nuovo acquirente, il vicino di casa, George Owen Knapp la tenne per soli 3 anni, prima di venderla ai Newyorkesi E. Palmer e Marie Gavit che la rinominarono Cuesta Linda. I coniugi ingaggiarono il famoso architetto Reginald Johnson per la costruzione dell’edificio principale, che completò negli anni ’20. Lo stile fu volutamente un richiamo alla Spagna e ai territori europei che tanto piacevano al tempo.

Fu solamente nel 1941 che la sorte volle cambiare lo status quo delle cose facendo arrivare la persona che avrebbe realizzato il capolavoro che ancora oggi si può ammirare.

La proprietà venne acquistata da una famosa ed eccentrica cantante lirica polacca, interessata alla botanica.

Madame Ganna Walska, 1957, circondata dalla sua iconica collezione di euforbie e cactus, courtesy of Ganna Walska Lotusland.

Ganna Walska, pseudonimo di Hanna Puacz (Brest-Litovsk 1887- 1984) nacque povera, ma questo non le impedì di diventare una delle più celebri socialite del XX secolo.

Hanna si trasferì a San Pietroburgo con lo zio a seguito della morte della madre, avvenuta quando era solo un’adolescente. Qui cominciò gli studi di musica e assunse il nome d’arte che la rese celebre in tutto il mondo. Per i successivi due decenni si esibì come cantante lirica tra New York e Parigi e fece diversi tour in Europa e America.

A detta di molti fu grazie alla mastodontica pubblicità che le fece il marito Harold McCormick, sposato nel 1922 e molto ricco, che riuscì a cavarsela. Divenne allieva di Cècile Gilly che però dichiarò che Ganna non fosse portata per la musica. In molti, a dispetto di quello che sosteneva lei stessa, dissero che a cantare fosse terribile, ma questo non la fece desistere in nessun modo, anzi la spinse ancora di più ad esplorare la sua vena artistica.

Intelligente, sofisticata e molto attenta al denaro, divenne ben presto popolare nelle élite più in voga (e molto chiacchierata dai tabloid!) e a detta di Charles Wagner nel 1928:

“Aveva Qualcosa che teneva destava la loro attenzione, che faceva drizzare le orecchie se veniva nominata”.

Ganna Waska in costume, Bettmann, Getty Images

Capelli corvini, anticonformismo, acume e bellezza la fecero padrona delle mode e degli sguardi di numerosi scapoli ricchi con cui spesso aveva flirt.

Ben presto Ganna, dall’animo curioso e anticipatore delle mode, abbandonò la religione cattolica per darsi al misticismo orientale e allo yoga. Si sposò sei volte, di cui 4 con uomini facoltosi e una con un maestro yogi.

Fu proprio grazie alle pratiche orientali e al matrimonio con Theos Bernard che la sua strada incrociò i 37 acri di Cuesta Linda che comprò e che cominciò ad alimentare in un turbinio di colori e fantasie.

L’idea che abbracciò inizialmente fu quella di creare un luogo per i ritiri spirituali, dove si potessero studiare le Sacre Scritture tramite i Lama Tibetani. Il nome scelto fu Tibetland, a richiamare il suo profondo amore per l’Oriente. 

Per la modernizzazione del giardino venne assunto l’architetto Lockwood de Forest Jr. e nel 1942 la conformazione venne rinnovata una seconda volta, introducendo numerosi cactus, i più famosi protagonisti di tutti i 15 ettari.

Ganna Waska Lotusland, source unknown.

Furono avviati diversi progetti di miglioria operati da Ralph Stevens, figlio del proprietario originale, che progettò i cancelli in ferro sulla Sycamore Canyon Road, la Piscina e la Spiaggia di Conchiglie, la Grotta, Il Teatro e i Giardini Blu dedicati alle piante a foglia glauca, come la Palma Blu del Messico e numerose Agavi.

Il progetto di Tibetland come ritrovo spirituale libero non vide mai la luce a causa dello scoppio della II guerra mondiale. Ganna tuttavia non si fermò, nemmeno quando il marito le chiese l’ennesimo divorzio. Rinominò l’oasi Lotusland in onore del Loto Sacro che cresceva in una delle numerose vasche che coloravano il paesaggio.

Ganna Walska nella piscina del Loto, source unknown.

Fu in questi anni che la donna si reinventò completamente. Secondo la filosofia del massimalismo e spinta da un forte carisma e molta creatività, cominciò a dare vita a qualcosa di straordinario, combinando conoscenze botaniche e artistiche e facendosi aiutare dai migliori dell’epoca. 

Lotusland, source unknown.

Nel ’58 l’artista locale Joseph Knowles Sr. venne ingaggiato per modificare la Piscina nel Giardino Aloe, aggiungendo Conchiglie di Abalone sul bordo e creando suggestive Fontane di Corallo.

Negli anni ’70 venne aggiunto un Giardino Giapponese all’imponente struttura, ormai carica di ornamenti naturali provenienti da ogni parte della terra, alcuni rarissimi o estinti, e allestiti con una vena teatrale e audace.

Veduta aerea del Topiary Garden, dedicato allo stile anti-naturalistico dell’ars topiaria risalente agli antichi romani, dal libro “Lotusland” (Marc Appleton, Rizzoli New York), Lisa Romerein.

Quello che ne uscì fu un paradiso tropicale, un luogo mistico ai limiti del terreno, con oltre migliaia di specie diverse combinate in un insieme eclettico e paradisiaco. Walka realizzò un giardino eccentrico che secondo Marc Appleton, autore del libro Lotusland (Rizzoli, New York)

“sfugge a ogni ordine tradizionale e a ogni logica”.

Per finanziare le ingenti spese che il giardino le richiedeva, Ganna mise all’asta la sua collezione di gioielli tra cui i suoi stimatissimi Fabergè. L’asta, tenuta da Sotheby’s, vide protagoniste diverse gemme dalla preziosità incommensurabile tra cui un diamante briolette da novantacinque carati, una rara selezione di gioielli indiani, collane Cartier e uno smeraldo intagliato Mogul.

La sua mastodontica opera botanica continuò fino alla sua morte, avvenuta il 2 marzo 1984.

La lavorazione dell’oasi naturale continua tuttora come da volere della proprietaria e il suo ingente patrimonio di vestiti (tra cui pezzi di Ertè e delle Callot Soeurs) sono esposti al Los Angeles County Museum of Art.

A detta di Marc Appleton:

“La sua eredità più duratura si è rivelata essere non sul palco, bensì nella terra”

Ganna Walska in her garden, courtesy of Ganna Walska Lotusland.

Per saperne di più: https://www.ad-italia.it/gallery/giardino-botanico-ganna-walska-libro-lotusland/

Altro: https://www.messynessychic.com/2018/04/24/the-diva-who-grew-her-own-exotic-kingdom/

Il sito ufficiale: https://www.lotusland.org/about/madame-ganna-walska/

Il libro: https://www.amazon.it/Lotusland-Botanical-Paradise-Marc-Appleton/dp/084786989X/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&crid=20T2LE6GXVHFG&dib=eyJ2IjoiMSJ9.uyyH53a5nnILCSF34fnMUfi5u5qKuC0sp1TtbACx6WXDevSrLiRs0BRwCKMJlrgFniCpEctqvTWDzJ0fViLfJL2SvVeOS0cfcbrU_Gxz38Ge-ZvWI4qJD59o4e4FYFq6svxXJerGTzOYZwtJ7eXloHplnS0TB9LOk-J5EHGcYJKoKnd5-9wVFHi5WGC5MLDq4ILgI0p-OPxFI4iHd0O26sawkAM0cT03tB2Yszk6-hrnvf0fuFmKFJpA78LtVufpWRJidcdDHDH4XGQcOpCF0N7dOs3xp80DVeuM5356hxI.j7xsI2tvfEctdVb6qhkLWNJ7QN8iEnwJVudbAJTFi9w&dib_tag=se&keywords=lotusland&qid=1729616874&sprefix=lotusland%2Caps%2C91&sr=8-1

Instagram ufficiale: https://www.instagram.com/lotusland_gannawalska/

Breve Compendio di mare e di conchiglie

Da sempre ricca di fascino, la conchiglia incarna una serie di significati variegati e legati perlopiù al mondo delle emozioni e dell’inconscio.

Portatrice di bellezza raggiunge l’apice della perfezione nella sua struttura equilibrata e matematica, fonte di ispirazione per artisti e studiosi di ogni epoca.

Rinascita, fecondità, profondità di animo, mistero, femminilità, amore sono solo alcuni dei significati che le sono stati attribuiti nel corso dei secoli. Non resta che meravigliarsi di fronte alla bellezza di questa creazione ricalcata nell’arte di molti.

Home of Pierre Le Tan as seen by Duncan Grant featuring a grotto chair and a seventeen century Venice console. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Portrait of a lady in an allegorical guise, holding a dish of pearls, Pierre Mignard I. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Ancient Egyptian gold cosmetics vessels. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Syrinx Aruanus. Photo from 1950. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Detail from Persia and Andromeda, Joachim Wtewael, 1911. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Nautilus Cup, Holbein Bowl, Glass Goblet and Fruit Dish, detail, Willem Kalf, 1678. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Casa Nautilus, Città del Messico.

Wedgwood collection of pearlware shell plates. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

L’artista tra genio e pazzia

Tra tutti gli artisti del ‘900 uno in particolare conquistò l’interesse di André Breton che arrivò a studiarne la personalità e la produzione.

Adolf Wölfli (Bowli 29.02.1864- Berna 06.11.1930) fu l’esempio vivente del rapporto viscerale tra genio e follia.

General View of the Island Neveranger, Adolf Wölfli, 1911

Nato in una famiglia contadina povera, ultimo di sette fratelli, sin dall’infanzia incontra terribili difficoltà. Il padre, alcolizzato, finisce in prigione e abbandona la famiglia quando Adolf ha soli 6 anni. La madre, lavandaia, non può permettersi di mantenere sette figli così, nel 1873, il piccolo Adolf viene venduto come bracciante.

Alla morte della madre, insorta l’anno dopo, Adolf viene affidato a diverse famiglie che spesso lo maltrattano e abusano di lui.

Responsabile di diversi tentativi di stupro (alcuni ai danni di bambine di 3 e 5 anni) finisce nel manicomio Waldau nel 1895.

Qui la diagnosi di schizofrenia sembra chiarire la condizione dell’uomo che spesso è fortemente agitato, violento e sente le voci.

Nei 35 anni trascorsi all’interno della struttura, passa la totalità del tempo a disegnare e realizzare una biografia monumentale di oltre 25mila pagine.

Il disegno, incoraggiato anche dai terapeuti e dallo psichiatra responsabile, Walter Morgenthaler, sembra calmarlo e dargli un obiettivo di vita che prende seriamente a cuore e che persegue facendosi mettere spesso in isolamento per avere la concentrazione adatta a immergersi nel suo personalissimo mondo.

Irren Anstalt Brand Hain, Adolf Wölfli, 1910

Adolf prende spunto da ogni cosa: riviste, atlanti, cartoline, libri… reinventa la sua vita, il suo passato e il suo futuro nell’ottica, un po’ infantile, di un mondo altro, immaginario, in cui lui stesso è il protagonista unico e assoluto.

Crea parole, immagini, disegni, collage, spartiti musicali che diligentemente assembla nella sua biografia chiamata “Leggenda di Sant’Adolfo”.

Inizialmente scrive con lo pseudonimo di Doufi, nomignolo di quando era bambino, successivamente adotta il nome d’arte di St. Adolf II, protagonista di una battaglia cosmica creata dalla sua mente geniale.

London North, Adolf Wölfli, 1910

Adolf viene studiato per tutta la sua vita. Il dottor Morgenthaler ne scrive una biografia nel 1921, attribuendo al paziente un’abilità artistica innata, forse germogliata proprio in seno alla malattia, mentre Freud ne rimane affascinato.

Wölfi era incolto anche se alcune fonti riferiscono che avesse avuto un umile approccio scolastico finendo i primi anni di scuola. Sicuramente inesperto d’arte, divenne nel corso dei decenni uno dei principali esponenti dell’Art Brut, avvicinandosi alle neoavanguardie del ‘900.

Holy St. Adolf Tower, Adolf Wölfli, 1919

La sua opera è caratterizzata da un estremo ornamento, spesso incorniciato, in cui ritrae con diverse tecniche la realtà. La ripetizione è la chiave del suo lavoro e si mostra meticolosa anche se a tratti infantile, mancando un vero e proprio apporto prospettico alle opere. Dettagli, ghirigori e simboli sono fortemente presenti nell’opera di Wölfi e contribuiscono a creare il mondo immaginario dello stesso artista.

Pioniere rispetto ai tempi in cui viveva, Adolf utilizza la fotografia della lattina di zuppa di pomodoro Campbell nel 1929, Andy Warhol farà lo stesso solo trent’anni dopo.

Campbell’s Tomato Soup, Adolf Wölfli, 1929

Alla sua morte, avvenuta a causa di un tumore allo stomaco, Wölfi viene dimenticato.

Riscoperto da Jean Dubuffet nel 1945, ritorna in auge e viene esposto nel 1972.

Di lui ci rimangono 1300 disegni, quaderni scritti in parole e musica e 25mila pagine di biografia (i cui quaderni raggiungono l’altezza di oltre due metri!).

La sua storia, intrecciata con le vicende personali difficili, violente e illegali, sembra sottolineare uno stretto rapporto tra l’atto creativo e le facoltà mentali.

In quest’ottica Adolf Wölfi rappresenta in tutto e per tutto l’epiteto del genio folle, della visione creativa che nasce e si nutre della pazzia e dei disturbi mentali e che tuttavia rimane una caratteristica innata propria dell’individuo che ancora ci meraviglia e ci stupisce, nascosta nell’intricato mistero della mente umana.

La sua arte è esposta al museo des Beaux-Arts di Berna. Qui il link: https://www.adolfwoelfli.ch

Isadora Duncan: la sacerdotessa della danza moderna

If we seek the real source of the dance, if we go to nature, we find the dance of the future is the dance of the past, the dance of Eternity, and has been and always will be the same.

The movement of waves, of winds, of the Earth is ever the same lasting Harmony”

The Art of Dance, p. 54

Duncan Isadora, portrait photograph, Genthe Arnold between 1916-1918. Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Isadora Duncan nasce a San Francisco il 27 maggio 1877. Ultima di quattro figli, cresce in un contesto fortemente artistico voluto dalla mamma Irlandese e dal padre Scozzese che li abbandona quando Isadora ha un paio di anni.

Il padre, un banchiere, era amante della cultura Greca e aveva scritto un poema intitolato “Intaglio: Lines on Beautiful Greek Antique” che Isadora prende a cuore e da cui inizia a conoscere la cultura Greca che diventerà il perno fondante tutta la sua filosofia di vita.

Nel 1899, poco più che ventenne, arriva a Londra con la famiglia. Qui passa le sue giornate al British Museum per i primi quattro mesi di soggiorno. L’appuntamento quotidiano serviva ad alimentare la sua curiosità e la sua ispirazione, nonché la sua mente colta e raffinata per la storia.

Trasferitasi a Parigi qualche anno dopo, si immerge nelle sale del Louvre, dove scopre inestimabili tesori Greci che diventano la salda e principale ispirazione per i suoi movimenti, poi fotografati dal fratello Raymond.

Isadora Duncan, Unknown.

Fondatrice di un movimento artistico a tutti gli effetti, tiene le prime esibizioni in terra natia, dove ottiene scarso successo. In Europa, al contrario, viene apprezzata come una visionaria della danza e portavoce di uno stilema innovativo e unico.

Isadora Duncan dancing, Genthe Arnold, between 1916-1942 from a negative taken between 1916-1918.  Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Il suo messaggio voleva essere controcorrente rispetto al rigore accademico che vigeva in quegli anni nel mondo del balletto, contornato da costumi stretti e scarpette da punta.

Isadora utilizza abiti semplici e leggeri, molto simili ai pepli greci e danza a piedi nudi, con i capelli sciolti, un’assoluta novità nel panorama di quegli anni.

Il suo metodo è basato sulla creazione di Danze Libere: improvvisazioni emotive suscitate dalla musica di artisti quali Chopin, Beethoven e Gluck.

Fondamentale il sentimento alla base del movimento e la forza della musica.

Le sue idee nascono in seno alla tradizione antica Greca, per cui lei ha sviluppato con gli anni una totale ossessione.

“To bring to life again, the ancient ideal! I do not mean to say, copy it, imitate it; but to breathe its life, to recreate it in one’s self, with personal inspiration: to start from its beauty and then go toward the future”

The Art of Dance, p.96

Isadora Duncan Dancer, Genthe Arnold, between 1915-1923. Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Nel 1903 tiene un convegno a Berlino, il tema è la danza del futuro e da molti sarà visto come il Manifesto della Danza Moderna.

Nel 1904 fa una tournée a San Pietroburgo, dove influenza fortemente la compagnia dei Balletti Russi.

Fonda diverse scuole in Europa e in Russia, dove porta avanti il suo metodo basato sulla ricerca del movimento libero e naturale.

Isadora Duncan dancer, Genthe Arnold, between 1916-1918. Genthe photograph collection, Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Isadora è anche pioniera di una nuova visione della donna. Staccatesi dai corpetti stretti a seguito della prima guerra mondiale, le donne volevano dare spazio alla propria fisicità senza costrizioni di genere. Isadora diviene un punto di riferimento per la rivoluzione di costume di quegli anni e la sua libertà spaziò molto anche nell’ambito del matrimonio, fino ad allora considerato sacro e imperituro.

Isadora infatti si sposa tre volte. Dalla prima relazione con Edward Gordon Graig nasce la figlia Deirdre. Dal secondo matrimonio con Paris Eugene Singer, il fondatore dell’omonima azienda di macchine da cucire, nasce il figlio Patrick.

Nel 1913 però la tragedia la colpisce in maniera dura e inaspettata.

Durante una passeggiata in auto sulla Senna, l’auto che trasportava i figlioletti e la governante si guastò. Il conducente scese per cercare di avviare il motore a manovella, ma dimenticò di inserire il freno a mano e l’auto scivolò nel fiume.

L’anno dopo, da una breve relazione con un Italiano, dà alla luce un terzo figlio, che muore poco dopo il parto.

Presa dalla disperazione per il lutto, Isadora si dà all’alcol e smette di praticare come un tempo.

Gli amici fanno da scudo attorno a lei e se ne prendono cura. In particolare Eleonora Duse, che la ospita a Viareggio per diversi mesi.

Successivamente si sposa una terza volta con il Russo Sergey Esenin, di diciotto anni più giovane, che non parlava una singola parola di inglese. Isadora sapeva poche parole di russo e il matrimonio dura solo 15 mesi a causa del carattere turbolento del compagno, dedito alle scenate a causa dell’abuso di alcol. Esenin la lascia e due anni dopo si suicida.

Con fatica Duncan riprende la forza di danzare e di occuparsi delle sue allieve, chiamate le “Isadorables”, e della sua attività.

La nuova tournée americana è un nuovo fiasco e le vengono mosse pesanti critiche sul suo aspetto fisico, compromesso dall’abuso di alcol e dalla depressione.

Trascorre gli ultimi due anni della sua vita tra Nizza e Parigi.

Il 14 Settembre 1927, Benoit Falchetto, un amico e amante di Isadora, passa a prenderla con la sua Bugatti Type 35 ad un ristorante sulla Promenade Anglais a Nizza.

Isadora indossa una lunga sciarpa a frange che lascia volare libera al vento.

Prima che la macchina parta, saluta gli amici, alcuni dicono con la frase ” Adieu, mes Amis. Je vais à la glorie!”, altri dicono con “Je vais à l’amour!”.

Subito dopo accade l’inverosimile: la sciarpa si impiglia nei raggi della ruota dell’auto, spezzandole l’osso del collo di netto.

La fine tragica di Isadora afflisse tutto il panorama artistico di quegli anni, compresa Gertrude Stein.

Rimane tutt’oggi una delle più grandi artiste del panorama del balletto, una mente vivace, introspettiva, pronta al contatto con la natura e al contatto con il proprio sè. Pioniera di una rivoluzione del movimento che continuerà per tutto il novecento, riportò in auge l’antichità classica conferendole un valore inestimabile.

“The true dance is expression of serenity. it is controlled by the profound rhythm of inner emotion. emotion does not reach the moment of frenzy out of a spurt of action. it broods first, it sleeps like the life in the seed, and it unfolds with a gentle slowness.

The Greek understood the continuing beauty of a movement that mounted, that spread, that ended with a promise of rebirth.

The Dance- it is the rhythm of all that dies in order to live again; it is the eternal rising of the sun.”

The Art of Dance, p.99

Do you know there’s a Tunnel Under Ocean Boulevard?

A quanti di voi è capitato di ascoltare questa famosa canzone della altrettanto famosa artista Lana Del Rey?

A quanti di voi è capitato di chiedersi a cosa si riferisse tra le strofe incastonate così perfettamente quando parlava di un tunnel sotto Ocean Boulevard?

Come per ogni cosa poetica e bellissima, mamma Lana ci insegna a guardare attentamente al passato, a riscoprirlo per trovarci immersi in una realtà diversa che porta con sé una certa malinconia.

Myrna Beach è stata per anni un luogo con hotel di ogni calibro, dai resort patinati e di lusso, a quelli più modesti e meno di classe.

Nel 1980 Sea Mist era uno dei resort più in voga della zona, con oltre 800 unità, fronte spiaggia. La strada, che al tempo correva parallela alla striscia di sabbia, aveva quattro corsie ed era impossibile da attraversare a piedi, così, su consiglio di Neil Ammons, si creò un tunnel sotterraneo per poter permettere ai pedoni di passare in tranquillità e sicurezza.

Si dice che il costo del tunnel fu di circa un milione di dollari.

Della lunghezza di 100 piedi, fu sistemato interamente in stile marino, con decorazioni di pesci da ambo i lati delle pareti, per mettere i turisti nel mood della vita al mare.

Al giorno d’oggi si tratta di un tunnel chiuso ai passanti, essendo la strada completamente cambiata rispetto ai lontani anni ’80.

C’è chi dice che il tunnel a cui si riferisce LDR nella sua canzone sia in realtà il Jergins Tunnel a Long Beach in California.

Sta di fatto che sotto Ocean Boulevard esiste un solo tunnel e quel tunnel è proprio quello di Myrna Beach.

Le tre gocce d’acqua

Christina, Katha e Megan, tre gemelle identiche e bellissime.

La loro storia si intreccia con quella della rivista “LIFE” dove compaiono sin da bambine mettendo in mostra la loro grazia ed eleganza.

A partire dal 1956 intrattengono un rapporto professionale con la fotografa Nina Leen che decide di ritrarle nel corso degli anni.

Con le loro lunghe trecce cominciano a diventare presto popolari e spesso posano come modelle. La principale caratteristica che attirava il pubblico e la fotografa non era solo la loro evidente bellezza e gli occhi da cerbiatte, ma anche e principalmente il loro taglio di capelli.

Innovative, sensuali, eclettiche, hanno introdotto un nuovo modo di portare i capelli che è diventato sinonimo di moda e modernità.

Il taglio, operato da Vidal Sassoon, al tempo astro nascente del panorama della moda europea, prevedeva un taglio corto portato a coprire l’occhio.

Le tre gemelle avevano deciso di sacrificare la propria individualità in favore dello stretto rapporto che intercorreva tra loro, cercando di sembrare l’una l’esatta copia dell’altra.

Dopo il primo momento di popolarità, le gemelle caddero nel dimenticatoio e si sa pochissimo della loro vita (o della loro morte).

Rimane però interessante notare i magnifici scatti fatti nel corso degli anni da Leen e divenuti così emblematici e alternativi.

Triplets Christina Dees (L), Katha Dees (C) and Megan Dees modeling their braids before getting haircuts.

Look-alike dresses being modeled by Dees triplets

La stilista visionaria che ha cambiato il mondo della moda

Madeleine Vionnet nacque nel 1876 e già dall’età di 11 anni cominciò il lavoro di sarta che le avrebbe garantito un futuro brillante.

Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi divenendo Première solo due anni dopo. Nel frattempo si era sposata e aveva avuto una figlia. Infelice del risultato ottenuto e per niente adatta alla vita classica e convenzionale di madre di famiglia, partì per l’Inghilterra dove divorziò dal marito. La bimba morì in un incidente solo un mese dopo l’arrivo a Londra. Qui intraprese diversi lavori che la videro impegnata sempre nel mondo del cucito, finché tornò a Parigi con l’inizio del nuovo secolo.

Al tempo si stava sviluppando una nuova corrente di pensiero che proponeva una riforma dell’abbigliamento femminile in favore di un modello ispirato all’abito alla greca. Le donne cominciavano a stancarsi degli stretti corsetti e delle imposizioni pompose che fino ad allora avevano regnato in tutta Europa.

Nello stesso periodo inoltre, una giovane ballerina e artista di nome Isadora Duncan cominciava a danzare a piedi scalzi indossando una tunica che le permetteva movimenti ampi. La riforma stava cominciando ad espandersi e anche se non sappiamo con certezza quanto influì sullo stile di Vionnet, sappiamo che ne fu in qualche modo pilastro portante.

A Parigi lavorò per diverse case di moda e nel 1907 realizzò una collezione di abiti innovativi, ispirati alle performance della stessa Duncan.

Propose un nuovo modello di abito femminile privo del famoso busto, commentando:

“Io stessa non ero mai stata capace di sopportare corsetti, quindi perché mai avrei dovuto infliggerli alle altre donne?”

ed escogitando nuove tendenze che di lì a poco divennero chic e in voga.

Nel 1912 aprì il suo primo atelier dove potè di fatto coronare le sue idee e realizzare abiti innovativi e moderni e al tempo stesso comodi e pratici.

Finanziata da Germaine Lillaz, Madeleine fu protagonista assoluta di una storia di donne, per le donne, per la loro cultura, la loro creatività e la loro bellezza. L’emancipazione che realizzò grazie a Madame Lillaz, fu un punto cardine della sua filosofia di moda e di vita, anticipando quella che sarebbe diventata ben presto una rivoluzione sociale a tutti gli effetti.

Non abbiamo molte informazioni in merito ai modelli dei primi anni della maison, sappiamo solo che l’ispirazione del tempo era il kimono orientale che affascinava le giovani donne e sembrava pratico e confortevole non solo per passare le giornate in casa, ma anche per uscire all’aria aperta.

Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale che la vide costretta a chiudere l’atelier e rifugiarsi a Roma, aprì una nuova società.

Da questa nuova avventura, cominciata dopo lunghi e tormentati anni di battaglia e morte, nacque una delle innovazioni più moderne e popolari del secolo: l’abito in sbieco.

Negli anni ’20, quando gli uomini erano impegnati sul fronte bellico, le donne avevano preso parte alla vita sociale e collettiva in maniera diversa. Per la prima volta avevano avuto la possibilità di lavorare, di aiutare e di diventare più emancipate che mai. Curare feriti, guidare automobili, fabbricare munizioni richiedeva un abbigliamento pratico e comodo, nulla a che vedere con quanto si indossava in passato. I corsetti vennero nascosti negli armadi, lontani dalla vista, le gonne si accorciarono abbandonando la loro lunghezza plateale in favore della praticità, i capelli si portavano ora corti per potersi dedicare ad altro, mettendo in secondo piano la seduzione e la bellezza.

Dove Chanel aveva proposto un modello maschile, Vionnet rimase fedele allo sguardo femminile che apprezzava tanto.

Ritornò all’abito mediterraneo, su ispirazione Greca, lavorando il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in modo che potesse seguirle e abbracciarle in maniera autonoma.

Il primo modello fu composto da quattro quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. Quattro cuciture tenevano insieme il tutto e una cintura annodata in vita rappresentava l’accessorio finale. Il risultato era una sorta di chitone greco con una caduta semplice e nuova che aderiva al corpo.

Madeleine Vionnet, abito da sera, 1918-19. A destra abito da sera, inverno 1920, Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La robe “quatre mouchoirs” è confezionata in crêpe di seta avorio

Il taglio in sbieco che cominciò da qui ad utilizzare prevede che la stoffa venga usata in obliquo invece che secondo il senso della tessitura (drittofilo).

Madeleine Vionnet, abito da sera, in “Vogue France”, ottobre 1935, foto Horst P. Horst

Anche se Vionnet negò sempre la maternità dell’invenzione che di fatto era già utilizzata nell’ottocento per realizzare colletti e cuffie, fu la prima stilista ad utilizzarlo per la realizzazione di abiti interi.

Altro elemento che utilizzò moltissimo fu quello geometrico, la chiave fondamentale della sua idea creativa.

Le figure geometriche che utilizzò nel taglio garantivano un effetto mai visto prima, portando gli abiti ad avere una complessità straordinaria (per certi versi quasi impossibile da comprendere) e una fantasia minimale che sfociava in leggi matematiche precise.

Madeleine Vionnet, abito da sera

Una delle particolarità della filosofia di Vionnet fu quella di utilizzare un manichino per la realizzazione dei vestiti e solo in seguito creare uno schizzo dell’abito. In questo modo e lavorando in maniera privata in una stanza separata, riusciva a creare abiti che si adattassero perfettamente al corpo, lasciandolo libero di muoversi e creando anche una sfarzosità minimal che viene ricercata anche al giorno d’oggi.

Madeleine Vionnet al lavoro sul suo manichino

Famosissime furono le realizzazioni delle sue rose, realizzate utilizzando precisione e ripetizione, in maniera meccanica, per renderle tutte uguali e il più possibile verosimili ai fiori.

Madeleine Vionnet, cappa da sera con rose, 1921 Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La fotografia si trova in uno degli album di copyright della Maison Vionnet

Negli anni ’30 il metodo Vionnet divenne famoso anche oltreoceano, dove venne valorizzato dalle dive Hollywoodiane che indossavano ora abiti a sirena realizzati proprio attraverso il taglio in sbieco. Questo modello classico serviva a far emergere tutta la potenza seduttrice del corpo della diva rendendo però facile la recitazione.

Sempre negli stessi anni introdusse anche la gonna ampia, un nuovo modello che piacque moltissimo a Hollywood che la incorporò insieme allo sbieco e alla forma a sirena. I tessuti che vennero utilizzati erano estremamente delicati e decorativi. Il crêpe Rosalba di Bianchini-Férier, il crêpe Romain o quello broccato aux tonneaux di Ducherne divennero il simbolo della maison.

Madeleine Vionnet, abito da sera, estate 1938 New York, The Metropolitan Museum of Art. Il modello, di Crêpe di seta avorio, è ricamato ad applicazione di frange in tinta che formano un disegno a festoni

La popolarità di Vionnet rimane tale anche per la sua personalità vivace e distante dalla mentalità del tempo. Un’innovatrice a tutti gli effetti fu anche portavoce dello stare bene con sé stesse e andò contro le imposizioni dietetiche che ancora oggi son presenti.

Come disse in una celebre frase:

“In fondo, non ho avuto che una cosa da soddisfare nella mia vita, la mia indipendenza”.

Madeleine morì all’età di 99 anni e rimane un faro per la moda internazionale e una grandissima voce innovativa per la società.

Ertè, tra illustrazioni, scenografie ed arte

Romain de Tirtoff nacque il 23 novembre 1892 a San Pietroburgo.

Interessato sin da piccolo al mondo patinato e glamour della moda e dell’arte, nel 1912 si trasferì in Francia per poter affinare la sua dote naturale. Fu illustratore, costumista, scenografo e creatore di spettacoli visivi in Francia a partire dall’inizio del XX secolo.

La particolarità della visione di Ertè, nome d’arte ricavato dalla pronuncia delle iniziali del nome e del cognome, era quella di abbracciare sia il vestiario sia gli accessori, per poi orientarli nel mondo dell’opera, del balletto e delle produzioni drammatiche di vario genere e calibro.

Nel 1912 a Parigi conobbe un altro celebre stilista. Poiret lo fece lavorare presso il suo atelier dove disegnò diversi abiti per la clientela altolocata.

Tra il 1916 e il 1937 lavorò per Harper’s Bazaar dove realizzò stupende copertine in stile art decò.

Fu anche un grandissimo costumista per il teatro francese, realizzando abiti di notevole pregio e bellezza per le Folies Bergère e in particolare modo per Joséphine Baker. Questo sodalizio con il teatro durò più di dieci anni e diede frutti molto positivi.

Anche oltreoceano, nella grande America, cominciò ad essere conosciuto e richiesto, arrivando a lavorare nella creazione di costumi per le Ziegfeld Follies e per George White’s Scandals.

L’ispirazione per le sue creazioni veniva dal mondo preraffaellita, dal floreale e soprattutto dallo sguardo attento verso l’art decò.

Nelle sue illustrazioni si possono trovare donne dalle forme longilinee che emanano un’aura di glamour e stile, rendendole dive e protagoniste della rappresentazione.

Interessante fu anche la realizzazione di un’illustrazione “alfabeto” in cui ogni donna, vestita con abiti specificatamente realizzati dalla sua sapiente penna, mimavano le lettere dell’alfabeto.

Su di lui si fecero numerose mostre retrospettive, colorando di popolarità quella che era stata la sua arte per certi versi messa da parte, che ritorno presto in auge e presa come spunto per altri stilisti e artisti del periodo successivo.

La poesia innovativa ed esotica di Paul Poiret

Siamo agli inizi del Novecento, quando la Haute Couture rappresentava il modello di punta della moda parigina e interessava tutte le donne di buon gusto. Uscire di casa era un’occasione per mettere in mostra stoffe e gioielli e per ricordare ai propri simili lo status sociale di appartenenza.

Paul Poiret, figlio di un commerciante di tessuti, aveva manifestato sin dalla tenera età, una forte propensione per il disegno. Finite le scuole andò a lavorare presso un negozio di ombrelli, lavoro noioso e poco creativo, che però gli diede la spinta necessaria a mettere su carta delle toilettes di fantasia. Vendendole alle case di moda riuscì a mettersi da parte qualche soldo per arrotondare finché non gli fu proposto un contratto in esclusiva per la maison Doucet, nel 1898.

Adibito alla sezione del taglio, la sua creatività che sfociava spesso nella teatralità, lo incanalò verso la realizzazione di preziosi costumi di scena per le attrici in voga al tempo.

Il suo primo lavoro importante fu un mantello di taffettà nero, dipinto da Billotey con grandi Iris Mauve e bianchi e ricoperto di tulle creato per Réjane. Ad esso seguirono svariati lavori per Mistinguett e Ida Rubistein.

Nel 1901 cominciò a lavorare per Worth, grande casa di moda che però stava perdendo vigore di fronte ai cambiamenti apportati al vestiario. Il compito di Paul era quello di rendere innovativa l’immagine della maison apportando modifiche più giovanili e sbarazzine, tipiche del nuovo secolo di promesse e buone intenzioni.

Il cambiamento si rivelò arduo; le clienti erano ancora troppo affezionate allo stile pomposo portato avanti dalla maison e difficilmente si lasciavano condizionare dallo stile eclettico che Poiret voleva introdurre. L’unico abito che si concretizzò diventando un successo fu l’abito “Byzantine”, completamente ricamato in oro e argento, con uno strascico bordato di zibellino, fu indossato in occasione di un matrimonio mondano ed ebbe l’effetto di mettere in secondo piano la sposa.

Nel 1903 Poiret aprì la sua prima maison al 5 di Rue Auber. La particolarità di questo negozio situato dietro l’Opéra fu quella di avere delle vetrine dotate di esposizioni spettacolari, talmente belle da diventare famose presso tutta la città.

Vetrina della Maison Poiret. 5 Rue Auber in “Le Figaro Modes”, febbraio 1904

La sua moda diventò presto famosa e ricercatissima: linee semplice e innovazione erano le parole chiave di questa nuova prospettiva fondata sulla morbidezza piuttosto che sulla compostezza del passato. Celebre fu il modello a “Kimono” che diventò un’istanza nella Parigi del tempo. Si stava infatti diffondendo un forte senso di esotismo che piaceva molto alle donne occidentali.

Nel 1906 spostò l’atelier al 37 di Rue Pasquier dove organizzò la struttura in reparti specializzati. In quest’ottica innovativa sperimentò per la prima volta gli abiti senza busto che fino ad allora avevano costretto il corpo femminile nella famosa linea ad S. Il primo abito, senza corsetto, fu denominato “Lola Montes” ed indossato da Denise, sua moglie, in occasione del battesimo della loro primogenita. C’è da dire che in realtà Poiret non cancellò del tutto il corsetto, piuttosto lo riadattò in modo da mettere in risalto la naturale bellezza femminile semplificandone l’aspetto.

Si interessò anche al periodo neoclassico realizzando abiti in tessuti innovativi con stoffe che guardavano alla pittura d’avanguardia europea, in particolare modo ai fauves come Matisse e Derain. Importante fu anche l’uso dei colori che al tempo erano tenui e poco vivaci. Poiret introdusse il rosso, il verde e molti altri, per dare più espressione all’anemia del tempo. Il modello chiave della collezione fu l’abito “Joséphine” su ispirazione del modello Impero ed insieme ad esso propose abiti di ispirazione esotica guardando principalmente al Giappone e alla Cina.

Nel 1908 si concretizzò un sodalizio vitale per la moda di Poiret: venne pubblicato un album intitolato “Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe”, contenente dieci tavole a colori e pubblicato in un numero ridotto di 150 copie. Qui si potevano osservare i modelli della maison ed oltre a ciò comprenderne a fondo anche lo spirito artistico. Le donne erano ritratte alte e sottili, senza forme in vista, con i capelli corti avvolti da un nastro colorato. Importante in questi anni fu anche l’attenzione rivolta ai Ballets Russes che cominciarono a diffondersi a macchia d’olio a Parigi.

Paul Iribe per Paul Poiret.

Accanto alla naturale propensione per la creazione di abiti meravigliosi, Poiret si interessò anche ai profumi e all’arredamento, allargando ulteriormente la maison fino a farla diventare un marchio vero e proprio connotato da eleganza e stile.

Durante gli anni della prima guerra mondiale la casa di moda subì delle ingenti perdite che non furono mai del tutto risanate. Quando lo stilista riuscì a ripartire con le sue creazioni, le idee che trasmetteva non risultavano più coerenti con lo spirito del tempo e la stessa clientela che un tempo lo aveva preso come riferimento ora lo metteva da parte in funzione di qualcosa di più moderno e innovativo. Fu così che la maison chiuse i battenti lasciando solamente il ricordo della sfarzosità e insieme semplicità che era riuscita a creare nel corso degli anni del suo splendore.

Paul Poiret, modello “Linzeler”, 1919.

La casa del vero espresso italiano

In un angolo dimenticato tra Vallejo Street e Grant Avenue perdura un luogo magico e poetico che ha animato intere generazioni.

Il Caffè Trieste nacque quando Giovanni Giotta, conosciuto come Papa Gianni, decise di portare la tradizione italiana del caffè nella fiorente Little Italy di San Francisco.

Papa Gianni, immigrato italiano, arrivò in America alla ricerca di nuove possibilità e lavoro. Qui si scontrò con le difficoltà dettate dal nuovo contesto e con la diversa mentalità che a tratti cozzava con il suo spirito italiano.

Incuriosito da nuove prospettive lavorative, prese un locale di modeste dimensioni chiamato Piccola Cafe e lo modernizzò per dare vita al Caffè Trieste.

La sua idea era quella di importare caffè direttamente dall’Italia, cosa che negli anni ’50 non si faceva ancora, per poter ricreare il vero espresso italiano che mancava in quei luoghi.

Così facendo aprì le porte ad un fiorente business che perdura ancora oggi e fa del caffè il centro propulsore della sua economia.

Il celebre locale diventò famoso subito dopo la sua apertura. Dapprima gli Italiani emigrati furono richiamati dall’aroma speziato che proveniva da quel bar alternativo; dopo di loro seguirono gli americani, curiosi di provare qualcosa di forte che non fosse il classico caffè solubile che conoscevano.

In pochi anni il luogo divenne un centro di incontro per svariate personalità. Scrittori, pittori, poeti e fotografi si sedevano ai tavoli per poter discutere di argomenti colti e portare avanti i loro lavori artistici indisturbati. Tra di loro vi erano personalità fisse come Ferlinghetti, Kerouac, Ginsberg, ma anche lo stesso Coppola che, a quanto si dice, terminò parte della sceneggiatura del “Padrino” comodamente seduto a sorseggiare la sua bevanda.

Ad oggi il bar è ancora meta dei personaggi alternativi che abitano l’intorno di Vallejo Street e di qualche curioso turista appassionato ai luoghi di nicchia.

Il locale è piccolo e arredato esattamente come lo era negli anni ’50. Il bancone, vecchio e consumato, ricorda molto la povertà con cui si scontrarono i primi emigrati.

Alle pareti è possibile osservare un colorato mosaico di fotografie. Tra di esse spuntano volti noti, come Bocelli, e altri meno noti. Il tutto è arricchito da un’aura di malinconia e mistero, celata sotto un velo perenne di polvere e odore di tabacco e caffè.