La casa del vero espresso italiano

In un angolo dimenticato tra Vallejo Street e Grant Avenue perdura un luogo magico e poetico che ha animato intere generazioni.

Il Caffè Trieste nacque quando Giovanni Giotta, conosciuto come Papa Gianni, decise di portare la tradizione italiana del caffè nella fiorente Little Italy di San Francisco.

Papa Gianni, immigrato italiano, arrivò in America alla ricerca di nuove possibilità e lavoro. Qui si scontrò con le difficoltà dettate dal nuovo contesto e con la diversa mentalità che a tratti cozzava con il suo spirito italiano.

Incuriosito da nuove prospettive lavorative, prese un locale di modeste dimensioni chiamato Piccola Cafe e lo modernizzò per dare vita al Caffè Trieste.

La sua idea era quella di importare caffè direttamente dall’Italia, cosa che negli anni ’50 non si faceva ancora, per poter ricreare il vero espresso italiano che mancava in quei luoghi.

Così facendo aprì le porte ad un fiorente business che perdura ancora oggi e fa del caffè il centro propulsore della sua economia.

Il celebre locale diventò famoso subito dopo la sua apertura. Dapprima gli Italiani emigrati furono richiamati dall’aroma speziato che proveniva da quel bar alternativo; dopo di loro seguirono gli americani, curiosi di provare qualcosa di forte che non fosse il classico caffè solubile che conoscevano.

In pochi anni il luogo divenne un centro di incontro per svariate personalità. Scrittori, pittori, poeti e fotografi si sedevano ai tavoli per poter discutere di argomenti colti e portare avanti i loro lavori artistici indisturbati. Tra di loro vi erano personalità fisse come Ferlinghetti, Kerouac, Ginsberg, ma anche lo stesso Coppola che, a quanto si dice, terminò parte della sceneggiatura del “Padrino” comodamente seduto a sorseggiare la sua bevanda.

Ad oggi il bar è ancora meta dei personaggi alternativi che abitano l’intorno di Vallejo Street e di qualche curioso turista appassionato ai luoghi di nicchia.

Il locale è piccolo e arredato esattamente come lo era negli anni ’50. Il bancone, vecchio e consumato, ricorda molto la povertà con cui si scontrarono i primi emigrati.

Alle pareti è possibile osservare un colorato mosaico di fotografie. Tra di esse spuntano volti noti, come Bocelli, e altri meno noti. Il tutto è arricchito da un’aura di malinconia e mistero, celata sotto un velo perenne di polvere e odore di tabacco e caffè.

La bellezza dimenticata dei festival Delfici

Sotto il sole caldo e intenso, tra l’odore di ulivi e salsedine, mentre il vento accarezza le fronde degli alberi e muove i ciuffi scuri delle chiome ricce, si svolgevano i Δελφικέσ Εορτέσ.

I festival Delfici che prendono il nome dalla celebre cittadina famosa per il suo oracolo, La pizia, furono voluti da Angelos Sikelianos e dalla moglie Eva Palmer, nel lontano 1927.

Il sito archeologico di questa importante città vanta infatti una delle più belle strutture antiche di tutta la Grecia ed è proprio in onore di questa antichità che i due coniugi vollero dar vita alle rovine passate mediante giorni di festa, musiche, danze e tragedie.

A metà maggio di quell’anno venne messa in scena la tragedia del Prometeo Incatenato, opera di Eschilo, facendo accorrere masse di turisti incuriositi dalla bellezza architettonica e dalla cultura antica che nasceva da ogni roccia.

Maschere, costumi, voci echeggiarono nel teatro come nel tempo che fu, animando i cuori e suggellando un ritorno di notevole grandezza.

Lo scopo era riportare in auge i tempi d’oro di Delfi e far conoscere al pubblico la profonda arte che veniva trasmessa in questi luoghi sacri.

E mentre il coro intonava il peana ad Apollo, si poteva guardare uno dei tramonti più belli di tutto il Peloponneso, sentendosi parte di un mondo tanto lontano quanto misterioso, meraviglioso e fragile che ha fondato l’intero assetto della civiltà moderna.

Georgia O’Keeffe

“Dove sono nata e dove ho vissuto non ha importanza. è quello che ho fatto con i luoghi dove sono stata che dovrebbe essere interessante”.

Con queste parole, dette decine di anni fa, si presentava una grande artista, pilastro del modernismo Americano: Georgia O’Keeffe.

Inutile quindi dilungarsi sulla sua storia personale. Nacque e crebbe in una fattoria nel Wisconsin e già da bambina, con la tenera e squillante voce che solo i bambini possiedono, ha deciso di diventare artista.

“Che tipo di artista?” le fu chiesto; lei non seppe rispondere. Si divertiva a disegnare con gli acquerelli e a fare i classici giochi che i bambini fanno, non aveva idea di che tipo di artista avrebbe voluto essere, se non che avrebbe voluto essere un’artista.

Nel 1905 frequentò la scuola d’arte di Chicago e nel 1908 incontrò il suo futuro marito Alfred Stieglitz. Lui aveva una sala d’esposizione a New York, la famosa galleria 291, e fu grazie a lui che conobbe l’arte di Rodin, di cui rimase colpita e affascinata.

Nel suo primo periodo artistico, attorno agli anni ’10, Georgia usava ancora l’acquerello per le sue rappresentazioni pittoriche. Negli anni ’20 cominciò invece a sperimentare con i colori ad olio, a cui rimarrà fedele per tutto il suo percorso artistico.

Hibiscus with Plumeria, Georgia O’Keeffe 1939

Il mondo dell’arte del tempo era fatto principalmente da figure maschili, erano loro che dettavano le regole del gusto in fatto di pittura. Questo poteva creare una frizione verso i lavori delle donne del tempo, considerati di serie b. Georgia fu criticata da questi per l’uso troppo vivace dei colori o per le sue scelte pittoriche, ma lei, donna coraggiosa ed eversiva, dipingeva colori ancor più vivaci e portava avanti i suoi soggetti a testa alta.

In merito ad alcune sue opere sui fiori- ne realizzò molte- disse:

” Io vi ho chiesto di prendere del tempo per guardare quello che vedevo e quando voi ci avete messo del tempo a osservare davvero il mio fiore, avete appiccicato tutte le vostre associazioni con i fiori al mio fiore e adesso scrivete del mio fiore come se io pensassi e vedessi quello che voi pensate e vedete- e non è così”.

Blue Morning Glories, Georgia O’Keeffe, 1935

Music, Pink and Blue, Georgia O’Keeffe
Lake George, Georgia O’Keeffe, 1922

Da donna forte la O’Keeffe rigettava l’idea dell’interpretazione troppo frivola e complessa che la critica spesso le rivolgeva. il suo spirito pittorico si manifestava nel voler rappresentare ciò che trovava interessante e meraviglioso. Ed era straordinariamente brava nel farlo.

Per questo motivo si trasferì permanentemente nel Nuovo Messico nel 1949 a seguito della morte del marito. In questo periodo cominciò a dipingere il paesaggio o a ricalcare con il colore l’aspetto architettonico della sua casa o degli edifici religiosi del luogo. I soggetti erano dunque diversi, si staccava dal sogno americano portandone tuttavia dei barlumi all’interno delle sue opere. In questo periodo era solita fare lunghe camminate sulle montagne e tra i deserti della regione, raccogliendo sassi od ossa di animali per poi rappresentarli a suo modo sulla tela.

Ram’s Head, White Hollyhock-Hills, Georgia O’Keeffe, 1935

Deer’s Skull with Pedernal, Georgia O’Keeffe, 1936

Morì negli anni 80, dopo aver trascorso tutta la sua vita al servizio della pittura. Prima di morire le fu conferita la medaglia nazionale delle Arti dal presidente Reagan in persona.

Fu una delle pittrici più prolifiche e affascinanti della storia americana, portavoce di una filosofia innovativa e testimonianza di quello che la meraviglia dell’arte riesce a creare.

La moda poliedrica della Swinging London

Nella fervente Londra degli anni ’60 i sogni e le possibilità sembrano un terreno sconfinato da esplorare. Tra la musica dei Beatles e i nuovi interessi dei giovani, spicca la nuova moda introdotta da Mary Quant.

Mary Quant

Mary nasce in un quartiere di Londra, a Blackheat, in una giornata fredda del 1934. I genitori sono tranquilli insegnanti e desiderano per la figlia la stessa sicurezza e tranquillità dettata dalle loro professioni.

Mary però ha un altro sogno, un sogno innovativo che cavalcherà grazie all’amicizia- divenuta poi amore- con l’aristocratico Alexander Plunket Greene.

Il suo percorso incomincia nel 1953 quando, fresca di diploma di arte, decide di vivere una vita alla bohéme con il suo compagno. Mangiano quando trovano del cibo e si vestono come desiderano, provocando e sfidando il sistema ancora troppo concentrato su una moda standard.

Nel ’55 Alexander eredita una certa somma di denaro che gli permette di acquistare una casa a Chelsea, con un annesso piccolo spazio che i due decidono di utilizzare come negozio.

Mary non è una sarta, si sbizzarrisce con le sue idee grazie ai corsi serali di cucito e comprando quotidianamente nuovo tessuto e materiali da poter usare nelle sue creazioni. A dispetto della laboriosità e stranezza del suo stile, i giovani la accolgono entusiasti. Ben presto il negozio diventa il centro propulsore della nuova moda inglese, per coloro che come Mary sono stanchi della silhouette del passato e vogliono spaziare di più.

La vetrina del negozio invita i giovani ad entrare non esponendo tutti i modelli presenti che si scoprono solo una volta varcate le soglie di questo piccolo paradiso. All’interno splendono i colori- il rosso, il prugna e il Ginger- e l’esperienza stessa dello shopping è totalmente cambiata: ci sono free drink per le clienti, l’orario di apertura è allungato e viene riprodotta della musica.

Per una giovane del tempo gli anni ’60 rappresentavano la possibilità concreta di rivendicazione e cambiamento in ogni ambito, specialmente in quello dei look. Risulta facile capire come l’innovazione portata dalla Quant, che rispondeva ad un preciso bisogno della gioventù, sia diventata immediatamente popolare e ricercatissima, al punto tale che a seguito del primo “Bazaar” – così si chiamava la boutique- ne aprì un’altra e da lì si fece spazio all’interno del mondo della moda con cosmetici, scarpe e design di interni.

Da una piccola avventura in cui si misuravano i guadagni giornalieri che servivano a comprare nuove stoffe per nuovi abiti da esporre il giorno dopo, è passata, nel giro di pochi anni, ad attività fiorente e meccanizzata.

Mary Quant, Victoria and Albert museum. Sulla sinistra bozzetto, sulla destra abito con gonna ad A, late ’50s.

Le idee che porta sono sempre nuove. Per esempio l’uso dell’effetto “bagnato” sui vestiti o l’uso del PVC per creare i suoi famosi “weatherproof boots”. Per essere cool a Londra dovevi avere almeno un capo firmato Mary Quant.

I suoi vestiti con una linea larga, ad A, corti fino al ginocchio e di fantasie moderne facevano furore tra le giovani, diventando sempre più ricercati dopo che Twiggy, una parrucchiera Londinese trasformatasi in modella, li indossò per la prima volta.

Twiggy, 1960s

Esposizione di Mary Quant al Victoria and Albert museum, mostra retrospettiva. Abiti effetto bagnato.

Alcuni studiosi attribuiscono alla Quant l’invenzione della minigonna, anche se non ci sono delle evidenze circa la sua effettiva maternità. In particolare modo lo stilista André Courrèges disse di essere lui stesso il padre del famoso capo e probabilmente fu così.

La Quant diventò cavaliere della corona, un’onorificenza attribuita solo ai più grandi del loro genere, e ottenne una stella nella Walk of Fame.

Al Victoria and Albert museum è possibile vedere delle esposizioni su questa straordinaria stilista e vedere le innovazioni che ha sapientemente cucito nella società Londinese della Swinging London.

Cult di fantascienza: BARBARELLA

Ricordando i favolosi sixties e le avventure cinematografiche che hanno portato, ci viene in mente subito l’iconico Barbarella.

Film di fantascienza con protagonista una frizzante e bellissima Jane Fonda, si ispira al fumetto omonimo di Jean-Cloude Forest che mixa più o meno sapientemente avventura, erotismo e comicità.

La trama è piuttosto semplice.

Barbarella è una giovane eroina e viaggiatrice dello spazio che deve risolvere la misteriosa sparizione dello scienziato Durand Durand.

I famosi titoli di testa, poi censurati, venivano proiettati sulle parti scoperte della giovane protagonista che posava nuda in assenza di gravità. Questo era uno degli elementi erotici, soft-porn, che animavano la commedia.

In effetti la protagonista assecondava la sua performance di “Regina della Galassia” con ammiccamenti e doppi sensi esuberanti in un connubio che non tutti potevano trovare divertente.

Cover Image from the March 29,1968, Issue of LIFE: Jane Fonda in the title role of the movie, Barbarella. Ph by Carlo Bavagnoli

Il ruolo fu inizialmente offerto a Virna Lisi, per poi passare alla Bardot e alla Loren che rifiutarono proprio per gli elementi erotici alquanto spinti della trama.

Infine Jane Fonda accettò, su consiglio del marito che ne era anche il regista.

Il film incassò i favori del pubblico e della critica diventando un vero e proprio cult nel corso dei decenni.

Importantissimi furono anche i costumi, ispirati dall’arte di Paco Rabanne, che avevano cenni futuristici e rimangono tutt’ora elementi iconici della cultura pop, avendo consacrato definitivamente l’attrice a sex symbol dell’universo intero..

Jane Fonda as Barbarella in the “excessive machine”

Jane Fonda and her husband, the director Roger Vadim, on the set of Barbarella, 1968.

Jane Fonda in una fotografia promozionale per Barbarella

Jane Fonda nell’iconico costume verde della “Queen of the Galaxy”

Jane Fonda in uno scatto promozionale di Barbarella

La pittrice musa del cubismo

Lydia Corbett era conosciuta con il nome d’arte di Sylvette David.

Originaria di Parigi e figlia di due pittori crebbe sull’isola di Ile du Levant, sulla costa meridionale francese. 

Nell’anno 1953 mentre era fuori con le amiche conobbe un famoso pittore nel suo atelier di Rue de Fournas a Vallauris. Il pittore in questione aveva il nome di Picasso. 

In effetti L’artista aveva già realizzato una piccola opera con protagonista la fanciulla, a memoria, tecnica che spesso utilizzava, e ne aveva esposto la copia in bella vista. Sylvette vide il ritratto e “fu come un invito” a conoscere il pittore. Incantato dall’incontro con la 19enne, le propose di posare per lui per diverse opere.

Da quel fatidico momento nacque un sodalizio artistico che vide la David diventare la musa ufficiale dell’artista spagnolo.

by Andrè Villers

Mentre Picasso era concentrato nella scomposizione della bellezza quasi nordica della David, lei sedeva su una rocking chair per ore e fu in quel momento che cominciò a dipingere.

Inizialmente era solo per passare il tempo, per combattere la noia dei lunghi pomeriggi all’atelier. Quando invecchiò cominciò invece a considerarsi una vera artista, con una certa capacità e un certo stile, e cominciò a esporre le sue opere in varie gallerie. L’influenza dello spagnolo fu sicuramente fondamentale per la sua esperienza artistica che nacque proprio da quel ricco e fertile studio ricolmo di tele.

Sylvette con Picasso
Sylvette in posa con Picasso

Il periodo che vede la musa al centro delle opere cubiste viene deniminato Ponytail Period, per via dell’acconciatura a coda di cavallo che Sylvette portava sempre. 

Come disse lei in un’intervista, lo fece per il padre che le aveva confessato di aver visto l’acconciatura in un dramma greco a Parigi e di essersene innamorato. 

Sylvette nell’atelier di Picasso

Non fu in effetti solo musa di Picasso. Il suo portamento e stile vennero imitati da moltissime ragazze nel corso del tempo e si dice che anche Brigitte Bardot si ispirò a lei.

Sylvette aveva incontrato la Bardot lungo la Croisette di Cannes. Come riportò in un’intervista per la sua biografia “I was Sylvette”, la Bardot al tempo era castana e dopo averla vista si tinse di biondo. Provò anche a fare da musa a Picasso ma egli la rifiutò perché lo stile era troppo simile all’originalità della sua musa.

Sylvette e Picasso

Alcuni si chiedono se lei e Picasso furono amanti. Come dichiarò lei, al tempo era fidanzata e tra i due non successe mai nulla. La David lo identificava come la figura paterna che nella vita reale le mancava e sottolineò in diverse interviste come fosse restia ad essere vista come ragazza sensuale, abbracciando di più la sua naturale ingenuità e fanciullezza.

Come disse Christoph Grunenberg alla BBC nel 2014, “poiché Picasso non la conquistò, aveva bisogno di conquistarla sulle tele, sulla carta e in scultura” conservando comunque uno sguardo artistico verso la giovane e mai dettato da un impulso sessuale o sentimentale.

Ad oggi la David è un’artista e ceramista stimata e affermata, avendo affinato lo stile delle sue opere nel corso degli anni. 

Cercando il suo nome su google ci si può collegare al suo sito dove sono acquistabili diverse opere e corsi di pittura tenuti da lei.

Fishes in the Lillies, Sylvette David

My vision now, Sylvette David.

Blue blue blue Honesty, Sylvette David, 2001

La bellezza surreale nell’arte di Harry Clarke

Harry Clarke, originario dell’Irlanda, fu un disegnatore molto prolifico che visse a cavallo tra l’800 e il ‘900.

Figlio di un artista impegnato nella decorazione di vetrate, anch’egli si interessò ben presto a questa particolare branca artistica imparando nuove tecniche sempre più raffinate per creare lavori di assoluta bellezza.

L’influenza principale della sua vena artistica fu sicuramente l’art Nouveau che si può individuare in molte delle sue opere.

Fu anche illustratore di libri e pubblicò nel 1916 il suo primo libro.

Si trattava di diverse illustrazioni delle favole di Hans C. Andersen. Questo includeva 16 tavole realizzate a colori e 24 in bianco e nero. L’opera più importante, però, fu sicuramente la realizzazione di un libro illustrato per “Tales of Mistery and Imagination” di Edgar Allan Poe, nel 1919. Molti artisti prima di lui avevano provato a cimentarsi in questa difficile e delicata opera, invano.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, mostrano dei dettagli spiazzanti e linee precise, meticolose, fino al limite dell’ossessione. I personaggi sono vibranti di emozioni e vivi nel loro essere, con una profondità di espressione difficile da realizzare.

Dopo quest’avventura, che vide diverse pubblicazioni e rifiniture alle tavole, acquistò un certo prestigio come illustratore, facendosi spazio tra i grandi di questo mondo artistico.

Importanti e di straordinaria bellezza sono anche le sue vetrate caratterizzate da disegni fini e precisi e dall’uso sapiente e ricco del colore. Generalmente queste trattano soggetti religiosi di varia natura e sono destinate a cattedrali e chiese.

Morì a causa della salute cagionevole che gli aveva procurato una grave tubercolosi nel 1931 lasciando un vastissimo patrimonio ancora oggi visibile in diverse parti della Gran Bretagna.

Il diario dello scandalo

Amore, sesso, incesti e storie lussuriose, condite di crudele realismo e a volte di sfrenato umorismo. Tra le infinite pagine, i sei libri, sono racchiuse vicende, impressioni, personaggi e artisti di altri tempi.

“Questo diario è il mio Kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio. È la mia droga e il mio vizio. Invece di scrivere un romanzo, mi sdraio con questo libro e una penna e indulgo in rifrazioni e diffrazioni”

Queste sono le parole che identificano e definiscono le pagine scritte nell’arco di una vita intera da Anaïs Nin.

Nata non lontano da Parigi nel 1908, Anaïs incontra ben presto l’arte della scrittura quando, abbandonata dal padre, intraprende un lungo viaggio verso la grande America ricca di opportunità.

Durante la traversata scrive con meticolosa puntigliosità i dettagli, le impressioni e le esperienze che vive quotidianamente sotto forma di una lettera indirizzata al padre ormai estraneo.

Tornata a Parigi nel 1929 conosce il mondo letterario francese, colorito delle sue incertezze e peccaminose verità.

Si abbandona ben presto a numerosi amanti, nonostante il matrimonio con Hugh Guiler.

Per lei non c’è molta differenza tra uomini o donne. Apertamente bisessuale e fiera di questa sua propensione non si tirerà mai indietro intrecciando, tra l’altro, un sodalizio letterario-amoroso anche con il famoso Henry Miller e la moglie June Mansfield.

Durante la seconda guerra mondiale a Miller vennero commissionati racconti erotici. Stanco della monotonia di questi, chiese alla Nin, ormai amica e confidente, di provvedere alla stesura di alcune piccole opere al posto suo.

Ben presto le richieste divennero costanti e spinte esclusivamente sul versante sessuale, prive di dettagli di natura sentimentale o sensoriale. La Nin rideva di queste richieste cercando di ampliare il suo repertorio con esperienze personali, esperienze di amici e invenzioni esplicite.

La sua abilità nello scrivere però si concretizza in maniera principale tra le pagine del diario, dove dà libero sfogo a pensieri e considerazioni di qualsiasi natura.

Imbastisce la sua scrittura su modello di Miller, con realismo, attenzione e sguardo alla profondità delle cose. Scrisse fino al 1977, anno della sua morte. Si tratta di un’opera monumentale, 15mila pagine in 150 cartelle, che solo negli anni ’60 vide la sua fortunata pubblicazione, rendendola esponente di spicco del movimento femminista.

Anaïs e Henry

La Nin analizzò la vita e le sue perversioni in maniera scandalosa ma onesta, rendendosi portavoce di una realtà che era ben conosciuta e popolare negli anni ’30-’40 a Parigi.

L’amore tormentato, i rapporti spinti con uomini e donne e la descrizione del piacere condiscono i volumi monumentali che rapiscono il lettore. I nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy.

Mai banale, metodica, profonda e sensibile, Anaïs si interessò delle vicende umane con uno sguardo innovativo, spiritoso e profondamente tragico allo stesso tempo.

La Galleria d’arte che affascinò NY.

291.

Sembrano le tre cifre finali di un numero di telefono. In realtà questo numero indica parte di un indirizzo: il 291 in Fifth Avenue, Midtown Manhattan, NY.

A questo civico era collocata una famosa galleria d’arte, aperta oltre un secolo fa.

291 Midtown Manhattan, NY.

I grandi meriti di questa galleria furono innanzitutto di portare in America la grande tradizione pittorica d’avanguardia Europea. Tra le sue mura vennero infatti esposti i capolavori di Matisse, Picasso, Cezane, Picabia e Duchamp, solo per citarne alcuni.

In secondo luogo, ma non meno importante, espose la fotografia al grande pubblico, conferendogli lo statuto artistico che fino ad allora le mancava.

Alfred Stieglitz e la moglie Georgia O’Keeffe (?), dopo il 1917

Il fondatore della galleria, Alfred Stieglitz, era un fotografo egli stesso.

All’inizio del secolo, però, la fotografia mancava di connotazione artistica, sebbene esistessero già dei premi facoltosi per gli aspiranti fotografi. Venivano infatti allestite piccole esposizioni volte a farla conoscere, ma mai in maniera marcata, lasciandola sempre un po’ da parte, quale arte di serie b.

Fu grazie all’amicizia con Edward Steichen, pittore e fotografo, che Alfred riuscì a trovare un sostenitore alle sue idee rivoluzionarie.

Le prime esposizioni non andarono particolarmente bene e la gente era scettica nel concedergli lo spazio per le stesse.

Fu solo nel 1905 che, grazie all’aiuto dell’amico, fu possibile cominciare a porre le basi per quella che sarebbe diventata una delle gallerie più rilevanti dell’intero secolo. Steichen soggiornava proprio al 291 e aveva notato diverse stanze libere. In cerca di nuovi posti in cui esporre pensò subito all’amico a cui si erano chiuse così tante opportunità. Per un intero anno Alfred affittò tre stanze al 291 che sarebbero servite anche a scopi educazionali, per diffondere la sottile arte della luce.

Esposizione fotografica alla 291 Gallery

Nella galleria era possibile affittare le stanze per le proprie esposizioni, applicando una percentuale da dare ai proprietari che l’avrebbero immessa nella tesoreria della Photo-seccession, noto movimento di artisti che voleva portare l’attenzione sulla fotografia in un periodo in cui non era ancora considerata al pari della pittura. La prima apertura non ebbe successo, se non nell’ambiente di nicchia da cui provenivano la maggior parte degli espositori.

Seguirono diverse altre istallazioni come quelle di Gertrude Kasebier e Clarence H. White. Con il tempo la galleria ebbe successo e la fotografia fu effettivamente elevata allo statuto artistico che le mancava.

Nel 1908 però l’affitto dei locali venne inaspettatamente raddoppiato causando la chiusura della galleria che non poteva sostenere costi così elevati.

Fortunatamente la chiusura totale e definitiva venne impedita da un neolaureato Harvardiano che, con le ingenti entrate di famiglia, acquistò delle stanze al 293 e le finalizzò all’uso della galleria, permettendo nuova vita alla struttura e alla sua arte. Stieglitz però era rimasto affascinato dall’indirizzo in cui aveva potuto coronare l’inizio della sua avventura e per questo motivo la rinominò 291.

In questo nuovo periodo cominciarono le esposizioni d’arte, arrivando a contare più di 50 mostre l’anno, con artisti di vario calibro. La decisione di orientarsi prevalentemente sull’aspetto della pittura e della scultura non venne vista di buon occhio da tutti. Alcuni appassionati di fotografia si sentirono nuovamente messi in ombra dall’arte che per così tanti anni aveva affascinato i più. Ciò nonostante le mostre continuarono ad andare bene e raccogliere il favore del pubblico che in questo modo poteva conoscere le opere europee e i vari stili artistici che si stavano sviluppando oltre oceano.

Esposizione alla 291 Gallery

291 Gallery, Esposizione di Constantine Brancusi, 1914

Nel 1917 a causa dell’avanzata della prima guerra mondiale e a causa dello scemato entusiasmo per l’arte, la galleria chiuse le sue porte. L’ultima esibizione, proprio di Alfred, si chiamava ” The last days of 291″.

Vi erano ritratti due soldati, uno intento a proteggere l’arte esposta alle sue spalle, e uno ferito quasi mortalmente, proprio mentre compiva il suo sacro dovere di protezione.

Stieglitz aprì altre due gallerie, senza però mai tornare al suo luogo originario, coltivando la sua passione e il suo talento fino all’anno della sua morte, nel 1946.

Esposizione di Elie Nadelman, 1915, 291 Gallery.

J.B. Kerfoot disse:

291 is greater than the sum of all its definitions. For it is a living force, working for both good and evil. To me, 291 has meant an intellectual antidote to the nineteenth century”

L’artista che dipinse il silenzio

Quella che sembra essere una missione impossibile ai più, venne realizzata brillantemente da un artista esponente del realismo americano.

Edward Hopper, annata 1882, fu un grande artista.

Già dalla gioventù manifestò grandi abilità nel disegno e venne incoraggiato dalla famiglia a specializzarsi in questo suo personale talento.

Inizialmente i suoi studi artistici ruotarono attorno ai ritratti e agli autoritratti, soprattutto nel periodo che passò presso la New York School of Arts, dove riuscì a stringere amicizia con vari artisti.

In questo periodo le basi dei suoi dipinti erano di colori particolarmente scuri e le pennellate grosse.

Fu grazie ai numerosi viaggi in varie parti del mondo che lo aiutarono a perfezionare il suo stile e la sua visione. In particolare modo rimase affascinato da Parigi, dove soggiornò in diverse occasioni e per diverso tempo. Qui potè dipingere la vita parigina che scorreva ininterrotta lungo le rive della Senna, con un prospettiva differente rispetto a quella portata avanti da vari artisti che nel medesimo periodo vi soggiornavano.

Vagabondare tra le viuzze pittoresche e trovare un soggetto inaspettato nella quotidianità rappresentavano per Hopper il punto di inizio di un piccolo capolavoro su tela.

Inizialmente i suoi quadri non vendettero ed Edward fu costretto a mantenersi tramite il lavoro di illustratore, che disprezzava.

Per tutta la sua vita rimase affascinato da artisti del calibro di Manet, Monet, Pissarro, Sisley e molti altri, esponenti di una generazione perduta che veniva lentamente rimpiazzata da nuove correnti pittoriche.

Nel 1915 si dedicò brevemente alle incisioni praticando acqueforti per cui ottenne anche svariati premi.

Nel 1918 entrò a far parte del Whitney Studio Club, un famoso club di artisti americani, e nel 1920 fece la sua prima mostra con loro. Il quadro esposto era “Soir Bleu”, titolo ispirato al primo verso della poesia “Sensation” di Rimbaud.

Soir Bleu, Edward Hopper,1914

Il fallimento della sua esposizione fu così clamoroso che, per la rabbia, Hopper rifiutò la sua stessa opera, arrotolandola e confinandola in un angolo del suo appartamento, dove fu trovata post mortem.

Il quadro rappresentava una terrazza parigina con vari personaggi intenti a bere, fumare e giocare. L’eterogeneità dei suoi soggetti e il senso di inquietudine che permea dal disegno rimangono un segno distintivo della poetica di Hopper.

Ma la fortuna, ad un certo punto, doveva cominciare a girare.

Nel 1924 alcuni suoi acquerelli vennero esposti a Gloucester dove riscossero un successo inaspettato.

Fu così grande il suo successo e così clamoroso che nel 1925 “Apartment Houses” venne acquistato dalla Pennsylvania Academy e nel 1930 ” Casa Lungo la ferrovia”, che ispirò Hitchcock per la realizzazione della casa di Psycho, divenne parte del MoMA.

Casa lungo la ferrovia, Edward Hopper, 1925, olio su tela.

Hopper morì nel 1967.

Ad oggi di lui rimangono numerose opere di una bellezza devastante.

Facendo un’analisi approssimativa dei suoi quadri si può notare come il filo conduttore della sua poetica sia il senso di inquietudine e la solitudine, specialmente quella Americana, che contraddistingue i suoi personaggi.

Il tema della luce rimase per Edward di fondamentale importanza e fu proprio la volontà di studiarne le sfaccettature che fece da protagonista in tutti i suoi viaggi, specialmente quelli Francesi.

Gli spazi che ritrae sono sempre piuttosto semplici, bar, cafè, case, ma portano a galla un significato metafisico che sembra non essere, a tratti, pertinente con la loro realtà.

I soggetti che ritrae rimangono vicini sì, fisicamente, ma lontani sul piano delle relazioni, estranei in un contenitore unico, che li raggruppa, ma non li avvicina a livello di anima.

Il fascino della notte viene espresso in diverse opere, come ne “I nottambuli”, dove emerge tutta la forza espressiva di questo talentoso artista.

Edward Hopper, I nottambuli, 1942, olio su tela.

Se fosse accostabile a delle sensazioni, Hopper sarebbe in grado di regalarci il senso di vuoto, di malinconia, di estraneità, di solitudine, vera e profonda, di fronte alla quotidianità della vita.

La capacità di dipingere il silenzio, che gli venne attribuita da diversi critici, è in effetti la caratteristica più peculiare dei suoi lavori, sin dalla gioventù, in particolar modo nel periodo maturo.

Night Windows, Edward Hopper, 1928

Forse la sua abilità stava proprio nel captare quelle sensazioni dell’animo umano che celiamo a noi stessi e dipingerle su tela con pennellate vigorose e precise, metodiche, mai approssimative.

Come lui stesso disse:

“Non dipingo quello che vedo, dipingo quello che provo”

Gas, Edward Hopper, 1940, olio su tela

Automat, Edward Hopper, 1927