L’ultima principessa Inca

Yma Súmac fu una cantante peruviana e negli anni ’50 fu l’esponente più illustre della musica esotica.

Le origini di questa straordinaria voce angelica sono avvolte nel mistero.

Alcuni studiosi collocano la sua data di nascita nel 1921, altri nel ’23, altri ancora nel ’29.

Si sa poco anche del suo luogo di nascita. Si presuppone sia il Perù, forse a Lima, per altri invece si trattava di una donna Newyorkese o Canadese che aveva ribaltato il suo nome da Amy Camus al più famoso Yma Súmac.

Di lei si scrissero numerose storie.

Per moltissimo tempo si pensò che fosse una principessa Inca, l’ultima discendente di Atahualpa in persona e che per questo avesse sangue blu e grandi possibilità, colorando la sua storia con l’elemento leggendario.

Quello che sappiamo per certo è che la Sumac fu un’eccellente cantante che sapeva abbracciare note da tessitura di sopranino, soprano, mezzo soprano, contralto, tenore, baritono e basso.

La sua voce si estendeva dalle quattro alle cinque ottave (per alcuni studiosi in certe esibizioni raggiunse le sei ottave) e produsse la nota più acuta mai registrata nella canzone “Chuncho”.

Fu nel 1950 che ebbe l’apice del suo successo. Firmò infatti con la Capitol Records come esponente della musica Inca e Sudamericana.

Interpretò anche due film.

La sua prima esibizione è da collocare nel 1942, in radio, dove stupì e meravigliò il pubblico e cominciò a farsi strada nel mondo artistico dell’epoca.

Negli anni ’70, persa gran parte della notorietà, si diede a un disco rock.

Nella sua carriera fece anche 5 anni di tour mondiale fino all’unione sovietica e si fece conoscere per popolarità in tutto il mondo.

Spirò nel 2008 dopo una lunga battaglia contro il cancro.

Ad oggi rimane la sua incredibile voce, registrata in video YouTube sgranati e preistorici e il suo stile femminile ed esotico che ci perviene dalle innumerevoli fotografie e ci permette di ricordare la vera diva che fu.

Il palazzo in un sogno incantato

Questa fu la definizione che scaturì dalla bocca del re Edoardo VIII quando decise di soggiornare presso l’immensa struttura dello Chateau de L’Horizon nel 1936.

La villa era stata terminata nel 1933 e voluta interamente dalla personalità di Maxine Elliott.

Maxine, nome d’arte di Jessie Dermot, era stata, alla fine del ‘800, una delle dieci attrici teatrali più note al mondo. Aveva avuto una brillante carriera nel mondo dello spettacolo, in gran parte dovuta alla sua bellezza fisica e agli occhi del colore dell’alessandrite.

Dopo aver dato l’addio ufficiale alla recitazione e dopo aver viaggiato in lungo e in largo per i vari continenti, decise di soggiornare definitivamente in Costa Azzurra, luogo magico e dallo spirito fatato.

Qui cominciò la costruzione di una dimora da regina, in stile minimalista, amalgamata perfettamente al paesaggio roccioso circostante. L’architetto ideatore fu Barry Dierks, che seppe realizzare prontamente e puntigliosamente una struttura bassa, bianca e dalle fattezze mediterranee, che potesse essere l’approdo della gente bene di tutto il mondo.

La villa, denominata Chateau de L’Horizon, costruita sulla cresta della roccia, si stagliava sul più blu dei mari, come galleggiante sulla superficie dell’acqua cristallina.

Presentava una piscina, sapientemente organizzata per confondersi con l’orizzonte marino e collegata all’acqua sottostante mediante uno scivolo che permetteva agli ospiti di tuffarsi in mare.

La terrazza, enorme, rappresentava il cuore della vita estiva della casa. Vi erano tende parasole e tavolini disposti all’ombra per permettere il gioco durante i lunghi pomeriggi estivi.

I mobili, da campagna inglese, adornavano ogni angolo delle numerosissime stanze della magione. Gli ospiti fissi, infatti, non erano in grado di dire quante suite e camere da letto- tutte dotate di balcone e bagno privato- ci fossero effettivamente nella struttura.

Swimming pool on Prince Ali Khan’s estate, The Chateau de l’Horizon. (Photo by John Swope/Getty Images)

Winston Churchill presso la villa

La vita allo chateau scorreva lenta e festosa.

La colazione si teneva privatamente, ogni ospite presso la propria stanza da letto ordinava il cibo che desiderava e lo consumava sul balcone privato, in un rito che sembra ricordare la discrezione di molti hotel di lusso.

Si procedeva quindi a scendere verso la zona della terrazza, si faceva un bagno in piscina, mettendo in mostra i costumi di moda al tempo e i lunghi parasole di seta orientale.

Il pranzo si teneva alle 13 e di solito vedeva la partecipazione di 30 o 40 commensali ogni giorno.

Il pomeriggio si trascorreva giocando a Bridge, a bazzica a sei mazzi o a backgammon, oziando sdraiati al sole o tuffandosi in mare.

La cena era rigorosamente servita alle 21 e si teneva sotto la pineta della villa, in abito da sera.

Durante le sere estive si poteva ammirare il paesaggio sotto la luce argentea della luna, che quando mancava, veniva sostituita da una finta luna elettrica posta sull’albero più alto.

Lo chateau era immerso nel verde, nel blu e nella tranquillità della costa francese.

Lontano da sguardi invadenti, si prospettava come il luogo ideale per diplomatici, politici e personalità di spicco europee e americane.

Famosi erano i cocktail party che si svolgevano presso le sue bianche mura.

Caratterizzati da stuzzichini e fiumi di champagne, si protraevano per l’intera giornata, a bordo piscina.

Per tutti gli anni ’30, lo chateau, rimase il luogo preferito in cui soggiornare non solo da Winston Churchill, ma anche da Elsa Maxwell, Aga Khan, Cecile Beaton, Beatrice Guinness e molti altri.

La villa garantiva la pace di cui gli ospiti avevano bisogno e ogni comfort per poter saziare le loro aspettative di lusso.

Fu acquistata da Aly Khan negli anni ’40 e qui venne celebrato il matrimonio- definito del secolo- con la bella Rita Hayworth. La piscina fu interamente riempita di acqua di colonia per diffondere il profumo a tutta la villa.

La struttura originaria oggi è stata completamente rivisitata. Difficile scorgere le trame del castello bianco che per oltre 20 anni è stato l’assoluto protagonista della riviera francese. Il giardino grande e ben curato è stato assorbito da nuove costruzioni ampie e moderne.

Lo stile di vita è sempre dedito al lusso, ma forse un lusso decisamente meno sofisticato di quello voluto dalla sua storica proprietaria.

Jeanne e Modì : la storia d’amore più tragica di tutti i tempi

Amedeo ama dipingere.

Amedeo è bravissimo e realizza in una velocità impressionante le sue opere, senza mai ritoccarle una volta terminate.

Amedeo però non è un artista con molti soldi e tanto successo nella Parigi logora di alcol e droghe in cui vive.

Predilige i volti o i nudi di donna che riesce a cristallizzare sulla tela insieme all’essenza stessa delle modelle che posano per lui.

Gli occhi sono allungati, definiti, ma non troppo dettagliati. Modì, così lo chiamano gli amici, si discosta dalla tradizione perfetta di un’arte lirica e romantica.

Per lui il concetto stesso di arte è diverso.

Lui vuole imbrigliare le anime delle proprie muse nella tela e lo fa attraverso la semplicità del disegno.

In quest’arte è bravissimo, forse il migliore di Montparnasse e forse ne è addirittura consapevole.

La sera si reca al solito bar a bere assenzio o qualsiasi tipo di alcol per cercare l’ispirazione.

I borghesi, si sa, non sono in grado di comprendere come un grande artista possa trovare la sua luce per una nuova opera. Giudicano e lo giudicano. Ma ad Amedeo non interessa.

Usa droghe, in continuazione, anche questo è parte del delicato equilibrio che ricerca per la sua arte. Ha anche tante donne diverse, amanti, con cui consuma le notti fredde di Parigi.

Amedeo Modigliani at his studio in Paris Ca. 1915, Photo by Paul Guilliaume. Beatrice hastings and Raymond portraits can be seen

Rimane però un volto a colpirlo più di ogni altro.

Si tratta del volto di Jeanne, una giovane ragazza, timida, posata, che ha già fatto da modella per Foujito.

Anche lei è a Montparnasse per dipingere.

Vuole diventare una pittrice e Parigi negli anni ’20 è il posto migliore per essere qualsiasi cosa.

Lei è brava, appassionata e Amedeo la rispetta come artista.

Si apprezzano e si innamorano.

è dolce e intenso stare accanto a Modigliani, poterlo abbracciare e rimanere con lui a combattere la malinconia delle lunghe notti francesi. Però è anche difficile. Modì beve tanto e usa tanta droga e questo lo rende instabile.

Diventa plateale nelle sue sbronze e questo a Jeanne non piace. Non piace nemmeno ai suoi genitori che sono contrari alla coppia.

Però il loro amore è forte, saldo e lei sente di avere bisogno di lui almeno tanto quanto lui ha bisogno di lei.

Presto li attende una bambina, Jeanne anch’essa, che li lieta con la sua presenza.

Sono felici anche se gli affari non sembrano andare per un po’.

Poi ecco che Jeanne è di nuovo incinta.

Sono emozionati all’idea di allargare la loro famiglia e credono che presto le cose si sistemeranno e che Amedeo venderà i suoi quadri e si berrà champagne e si farà festa perché tutto va bene. Va come deve andare.

Ma nel Gennaio del 1920 Amedeo si ammala gravemente. La tubercolosi diventa una meningite che lo porta al delirio. Sdraiato su un letto si sta abbandonando alla morte circondato da bottiglie vuote e scatolette di sardine aperte.

In questo momento sembra fragile, consumato dalla sofferenza. Una eco lontana del grande artista che animava le serate dei Bistrot.

Lo portano in ospedale e Jeanne è spaventata.

Il 24 Gennaio Modì spira. E Jeanne entra nella più totale disperazione.

I genitori la portano via, ma ecco che lei incinta e prossima al parto si sente mancare l’aria.

Quel grande artista che ha avuto come compagno è svanito.

E non importano le scene, i litigi, la sofferenza e probabilmente i molti tradimenti. Lei sente di appartenergli e nemmeno l’amore per la piccola Jeanne e per il bambino che porta in grembo sembrano sufficienti.

Così si butta, dal quinto piano, nel vuoto.

E così Jeanne se ne va.

Per anni i due furono tenuti divisi dalla famiglia di lei che non voleva concedere alla figlia defunta di riposare accanto al caro amato.

Dopo dieci anni i due poterono ricongiungersi, in morte, al cimitero di Pere Lachaise.

E la lapide di Jeanne recita:

“Devoted companion to the extreme sacrifice”

I mondi fantastici di Errol Le Cain

Un tempo sfogliando i libri per bambini si potevano trovare delle illustrazioni di pregiatissima fattura. Lontane dalla mondanità banale che impervia in ogni ambiente, tramite questo grande artista abbiamo ancora uno scorcio di romanticismo verso il passato.

Errol John Le Cain nacque nel lontano 1941.

La sua vita fu ispirata dai numerosi luoghi in cui visse in gioventù.

Da Singapore ad Agra, per poi sbarcare a Londra, Errol assorbì tutte le sfumature di colore e fantasia che riuscì a scovare nei suoi peregrinaggi con la famiglia.

Già all’età di 11 anni esplorò la realizzazione del suo primo film, in 8 mm, chiamato “The Enchanted Mouse”.

L’animazione fu il suo primo amore che coltivò con molta dedizione durante tutto il corso della sua vita, arrivando a lavorare come freelancer nel 1969 con la BCC.

Lavorò alla realizzazione di “The Snow Queen” di Anderson, dove recitavano attori su sfondi realizzati dalla sua mano abile ed esperta.

Pubblicò 3 libri di sua invenzione e ne illustrò 48 a partire dal 1979.

Errol venne a mancare in giovane età a causa di una malattia, nel 1987.

Guardando le sue illustrazioni si può ritrovare la tradizione orientale che accompagnò i suoi lavori, ispirata proprio dall’ambiente in cui visse nei primi anni di vita.

L’elemento fantastico che emerge in maniera esotica non appesantisce la storia, ma piuttosto la integra per colorarla di aspetti e sfumature che permangono nella mente dell’osservatore.

Niki De Saint Phalle, pioniera del nuovo realismo

Pseudonimo di Catherine Marie Agnès Fal de Saint Phalle, Niki per coloro che la conoscono con il suo nome d’arte, nacque sulla fine di un Ottobre freddo, nel 1930, in Francia.

Sin da bambina manifestò la sua naturale ribellione ai sistemi e alle norme impostale, cambiando spesso scuola proprio a causa delle sue idee radicali e dei suoi comportamenti selvaggi.

Ad 11 anni rimase traumatizzata dal tentativo di abuso da parte del padre, tentativo che lei stessa cercò di esorcizzare in moltissime sue opere posteriori.

Inizialmente, data la sua naturale bellezza fisica, cominciò una carriera come fotomodella presso Vogue e Life, carriera che però non fu l’unico approccio al mondo dell’arte.

Niki fu poliedrica nella sua visione del mondo. Non fu mai solo una cosa, solo una fotomodella, solo un’artista, ma esplorò nel corso degli anni ogni possibilità che riuscisse a nutrire il suo animo ferito.

Proprio dall’estremo dolore patito in gioventù a causa delle colpe familiari, nel 1952 soffrì di un terribile esaurimento nervoso che la vide chiedere aiuto in una clinica per disturbi mentali, dove soggiornò diverso tempo.

Proprio in questo contesto per niente fastoso, l’artista riuscì veramente a concentrare le sue energie sul lavoro artistico, realizzando opere che come lei stessa definì, erano una sorta di medicina per lo spirito.

E fu così che trovò la sua chiamata.

A partire dagli anni ’60 cominciò a realizzare opere denominate “shooting paintings”. Il nome, chiaro, rappresenta dei quadri realizzati sparando con una carabina a dei sacchetti di colore, che si spandono sulla tela come ferite e squarci.

Spesso, sullo sfondo della tela, Niki disegnò una figura maschili, memore della figura paterna che fu protagonista della tragedia.

A questo punto della sua carriera, la De Saint Phalle, veicolò nel suo lavoro tutto il suo stato emotivo, portando avanti un’arte concettuale di estremo valore che la vide anche partecipe di un gruppo d’avanguardia: i “Nouveaux realistes”.

Fu solo a partire dal 1965 che decise di introdurre figure femminili nelle sue opere.

Da qui incominciò la realizzazione di grandi strutture, denominate la “Nana”, in cui prevalevano le fattezze femminili e i colori sgargianti.

Fu l’anno successivo che la vide protagonista della realizzazione di un’opera monumentale di straordinaria importanza. Il Moderna Museet di Stoccolma le chiese infatti un’opera da poter esporre tra le sue sale e Niki seppe perfettamente cosa creare.

Si trattava di una Nana di 28 metri di lunghezza, 6 di altezza e 9 di lunghezza che rappresentava una donna in procinto di partorire e rinominata “She- a Cathedral”.

Nel seno sinistro della struttura femminile fu inserito un planetario e in quello destro un bistrot per gli ospiti che potevano calorosamente entrare attraverso la vagina della statua.

La cattedrale doveva rappresentare la figura femminile e la sua potenza creatrice.

Dopo il matrimonio con Jean Tinguely cominciò la realizzazione del “Giardino dei Tarocchi”, a Garavicchio, Capalbio (Toscana). Il lavoro la impegnò per 17 lunghi anni, in cui dispose le strutture base di cemento armato e cominciò a ricoprirle di pezzi di vetro, mosaici e ceramiche colorate, conferendo all’opera un aspetto variegato, mai banale, alternativo e fantasioso.

Il costo del parco fu decisamente alto e per finanziarsi Niki decise di pubblicare libri e creare una sua personale linea di profumi.

Proprio per questi motivi non può essere considerata un’artista convenzionale.

I temi principali delle sue opere rimangono di carattere mitologico, principalmente esasperando il tema della vendetta, del dolore e della paura, ma apportando altrettanta importanza a significati ricchi in positività.

Usò sempre colori vivi, per arrivare allo spettatore più facilmente, e carichi di significati metafisici.

Il rosso era il rosso della forza creatrice, innovativa e potente, vibrante e immediata; il verde rappresentava la vitalità, il blu la profondità di pensiero e la forza di volontà che contraddistingue l’essere umano; il bianco la purezza, il nero il dolore ed infine l’oro, colore dell’intelligenza e della spiritualità.

Niki morì nel 2002 per problemi respiratori. Dopo la sua morte fu onorata come artista di grandissima importanza in tutto il mondo, partendo dal MoMa di New York che tenne diverse mostre su di lei e sulla sua produzione.

Loïe, la farfalla incandescente

Follies Bergèr, rue Richer 31, Parigi.

I preparativi sembrano essere molti per mettere in scena uno spettacolo che potrà rimanere nella storia. Tra il pubblico ci sono i simbolisti e il famoso Toulouse- Lautrec, cliente abituale della music-hall che detiene il nome ormai noto tra il chiacchiericcio delle persone.

La star indiscussa sarà ancora una volta lei: Loïe.

In questo momento è agitata, lo è sempre quando deve esibirsi, ma ama tantissimo quello che fa e sente dentro di sé la forza per entrare in scena.

Nata a Fullersburg in Illinois, sotto il segno del Capricorno, nel 1862.

Sin dalla tenera età si è esercitata nelle rappresentazioni teatrali, sognando dentro il proprio cuore di diventare un’attrice di teatro.

La vita l’ha sicuramente favorita ponendola tra coloro che sembrano baciati dalla fortuna.

Loïe è bellissima e determinata: vuole realizzare tutti i suoi sogni e la vita, per miracolo, l’accompagna mano nella mano verso un futuro di successo e di meraviglia.

Loïe è pronta.

Indossa la sua famosissima gonna.

Vuole ancora una volta fare la sua danza serpentina, quella che ha inaugurato a New York, in un Febbraio molto lontano, nel 1892.

Si ricorda del successo della sua esibizione al punto tale che ha cercato di rielaborare il numero molte volte. Una in particolare l’ha portata a realizzare una gonna di seta, quella seta che ama sin da bambina, lunga 450 metri, per l’opera “Le Lys du Nile” del 1895. Con i veli si è esibita in una danza in cui il corpo era un parziale protagonista, per fondersi con il movimento stesso della seta. Ha creato forme che normalmente il suo fisico alto non sarebbe stato in grado di creare.

Sa bene, tuttavia, che la luce deve fare il suo spettacolo allo stesso modo dei tessuti.

Continua a studiare nuovi brevetti, che moltissime persone sembrano volerle rubare, ma lei sa che dietro la porta ci sarà un’altra idea brillante. Ha fiducia in sé e nella sua arte. Come quando ha realizzato delle fiamme, finte ovviamente, ma che potevano sembrare vere durante la performance e questo ha provocato uno stupore irripetibile nei suoi fan.

La luce è tutto. Serve anche a far emergere i colori che sceglie sempre accuratamente, evitando il giallo che appassisce e il malva che addormenta.

Le sue idee sull’illuminazione l’hanno addirittura portata a diventare membro della società di astronomia francese.

A questo punto della sua vita ha realizzato opere al pari di Leonardo Da Vinci, unendo sapientemente l’arte e la tecnica per realizzare qualcosa di duraturo.

Loïe è una donna realizzata. Ha una scuola di danza a Parigi, finanzia la famosa collega Isadora Duncan ed è destinata ad essere ricordata dalle generazioni future perché ha influenzato l’Art Nouveau in maniera fondamentale.

Ha addirittura esposto all’esposizione Universale di Parigi del 1900.

Insomma sa che ha ottenuto tanto, ha realizzato tanto.

Qualche volta si commuove di tutta la bellezza che è riuscita a creare ed è grata dentro il suo cuore di poter fare quello che fa e amarlo totalmente.

La vita è stata buona, alla fine, ricca e abbondante.

E con un sospiro profondo entra in scena.

La scoperta dei famosi Bronzi di Riace

Il 16 Agosto del 1972 Stefano Mariottini, un sub dilettante, stava facendo immersioni a largo di Riace Marina, in provincia di Reggio Calabria.

Si era spinto fino a una distanza di trecento metri dalla riva, quando scorse un braccio emergere dalla sabbia sottostante. Si trovava a circa otto metri di profondità e sembrava piuttosto grande.

Questo fu l’incipit di uno dei ritrovamenti storico-artistici più rilevanti degli ultimi cinquant’anni.

Scavando con tecniche più raffinate e con l’aiuto di esperti del settore si scoprirono due grosse statue di bronzo che vennero rinominate I “Bronzi di Riace”.

Le due statue, principalmente bronzee, ma con dettagli in altri materiali come le ciglia in rame, la sclera degli occhi in avorio, nonchè l’utilizzo di argento e calcare, risalgono al V a.C. e sono di origine Greca.

Dopo la loro scoperta prese il via il restauro, durato fino al 1980, volto alla pulizia e alla sistemazione di alcune parti, oltre che allo studio della struttura e del metodo di realizzazione.

Da questi studi emerse che probabilmente la statua denominata “bronzo A” risaliva al 460 a.C., mentre la seconda, il “bronzo B”, al 430 a.C.

Inoltre non tutte le parti delle statue erano state realizzate nello stesso periodo, alcune erano infatti posteriori, come il braccio del bronzo B.

La datazione rimane comunque incerta, così come gli artisti che li realizzarono.

Alcuni studiosi dicono che il reperto A sia da attribuire alla mano precisa di Fidia e il B ad un altrettanto famoso Policleto, tuttavia non si hanno informazioni certe che possano chiarificare l’origine di queste immense e pregiatissime opere d’arte.

Fatto che sembra assodato è che rappresentino divinità o eroi, come si soleva fare nel periodo in cui sembrano essere state realizzate. Al tempo infatti solamente dei personaggi di natura “superiore” venivano rappresentati come modelli ammirabili da tutti.

Anche la provenienza è incerta. Alcuni studi le ricollegano al famosissimo santuario di Delfi, dove si pensa fossero collocate lungo la via sacra che portava al santuario della Pizia.

Si sa poco anche del motivo per cui siano state trovate in acqua al largo di Riace. Forse una nave che è affondata o forse delle esigenze di peso hanno fatto sì che i Bronzi si depositassero sul fondale e ne fossero ricoperti dai lenti movimenti ondosi della zona.

Tuttora sono collocate nel museo nazionale di Reggio, dove possono essere ammirate nella loro totale bellezza (e grandezza!)

L’arte Estatica degli ufo

Bruce Pennington, annata 1944, è un pittore inglese noto, soprattutto, per la sua arte sci-fi in cui ritrae elementi puramente naturali amalgamati a elementi extraterrestri.

Nel corso della sua esistenza ha realizzato diverse copertine di libri fantascientifici tra cui le opere di Asimov, Smith e Heinlein.

Le sue illustrazioni mettono in luce il contrasto tra la società e l’elemento fantascientifico, quasi sempre distopico, venuto a conquistare. I colori sgargianti e le ambientazioni apocalittiche sullo sfondo di vicende umane e non umane, riescono a realizzare il connubio perfetto per un film di fantascienza.

The alien way, Bruce Pennington, 1971

The pastel city, Bruce Pennington, 1971

On a planet alien, Bruce Pennington, 1975

Tra la sua produzione troviamo anche illustrazioni di mondi alternativi, apprezzatissime e iconiche, con lune orbitanti mai viste e pianeti che spuntano sull’orizzonte. L’elemento extraterrestre è sempre presente dal 1967, anno in cui per la prima volta l’autore ha sviluppato l’interesse per questa realtà.

Fungus Gigantica, Bruce Pennington, 1990

Impossible possibilities, Bruce Pennington, 1973

The heaven Makers, Bruce Pennington, 1974

Le sue opere ricordano elementi di un passato futuristico alternativo, con guerre, battaglie e vicende degne di tutti i pianeti del sistema solare e alleanze tra umani ed esseri alieni capaci di nutrire le narrazioni di storie dal sapore lontano.

Un capolavoro di arte e fantascienza.

New Maps of Hell, Bruce Pennington, 1968

Children of Tomorrow, Bruce Pennington, 1972

Il parco dei sogni

«A tutti coloro che vengono in questo luogo felice: Benvenuti. Disneyland è la vostra terra. Qui l’età rivive i bei ricordi del passato, e qui i giovani possono assaporare le sfide e le promesse del futuro. Disneyland è dedicato agli ideali, ai sogni e ai fatti che hanno creato l’America, con la speranza che sarà una fonte di gioia e ispirazione per tutto il mondo.»

Recitò queste parole Walt Disney, il 17 Luglio del 1955 quando, di fronte a una folla di seimila invitati e oltre ventiduemila non invitati, apriva le porte del famoso parco che ancora oggi è protagonista delle fantasie di bambini e adulti di tutto il mondo.

Situato in un aranceto ad Anaheim, Los Angeles, la sua costruzione cominciò nel 1954 e si protrasse per l’intero anno successivo, con oltre duemila addetti ai lavori. L’idea di un parco a tema sorse al signor Disney tra gli anni ’30 e ’40, quando, memore delle sue avventure giovanili nei Trolley Park e negli Electric Park, tanto in voga all’epoca e fulcro dei divertimenti e delle serate danzanti della società americana tra l’800 e il 900, decise di costruire qualcosa che fosse sia un luogo di svago per i più piccini, sia un luogo di svago per gli adulti.

In quel lontano 1954 non si sapeva ancora che ben presto quel parco che sembrava un’idea troppo grande per essere realizzata sarebbe diventato negli anni il fulcro di una cultura che si estende fino al XXI secolo.

Il costo fu di 17 milioni di dollari, alcuni ricavati tramite ipoteche e altri in prestito da emittenti televisive, come l’ABC, in cambio di vari benefici.

Il giorno dell’inaugurazione, presieduto anche da Ronal Reagan, fece un boom di ascolti mai visto prima per l’apertura di un parco. Si stima che circa 70 milioni di persone si collegarono per assistere allo spettacolo, con inno nazionale, che doveva dare il via alla storia di Disneyland.

Quel medesimo giorno a causa della troppa affluenza non prevista, a causa del caldo, dello sciopero degli idraulici che dovevano fare manutenzione alle fontane, e a molti altri imprevisti, fu un giorno definito come nero. Poche persone si divertirono e generalmente le opinioni furono negative poiché erano finite le scorte di cibo e di bevande (la famosa pepsi che sponsorizzava).

Ma passato il primo ostacolo il parco trovò presto il suo ritmo aprendo, in meno di due mesi, varie attrazioni nuove e garantendo divertimento per tutta la famiglia. Così questa storia inaspettatamente ebbe e tutt’ora ha il suo lieto corso e da questo singolo parco ne aprirono molti altri in varie parti del mondo. Il giorno dell’inaugurazione di Disneyland rimane il compleanno più famoso che un parco a tema abbia mai visto, con dozzine di facce felici e meravigliate di fronte alla grandiosità di questa impresa.

Bambini che corrono per l’apertura di Disneyland,1955

Bambini sulle tazze,1955

Parata di Disneyland,1955

Ballerine che si riposano gustando una pepsi, Disneyland,1955

Bambina su una giostra, Disneyland,1955

L’attore Ronald Reagan,17 Luglio 1955, Disneyland

Bambini in posa con Topolini e Minnie, Disneyland, 1955

Parata di Dumbo, Disneyland, 1955

Barca piena di turisti sul laghetto artificiale di Disneyland,1955

Walt Disney, Disneyland, 17 Luglio 1955

Parata in Main Street, Disneyland, 17 Luglio 1955

Debbie Reynolds, Disneyland, la prima settimana di apertura,1955

Bar a Disneyland, 1955

Giostra a Disneyland,1955

Famiglia a Disneyland,1955

Nella Parigi della Beat Generation

Al 9 rue git le coeur, nel quartiere latino di Parigi, famoso per la sua movida, sorge un hotel quattro stelle chiamato Relais hotel du Vieux Paris.

La struttura portante, oggi rinomata come boutique hotel, un tempo ospitava un luogo magico e fiorente: il Beat hotel.

Popolare meta di artisti e scrittori, tra gli anni ’50 e ’60, vide nei suoi corridoi e nelle sue stanze la creazione di opere- Basti pensare a “Kaddish” o a “Naked Lunch” -che rimangono ancora oggi il cardine della Beat Generation.

L’hotel disponeva di 42 stanze e minimi standard di igiene, cosa che oggi verrebbe considerata inammissibile. Il prezzo era modesto, 50 centesimi a notte, con acqua calda solo il giovedì, il venerdì e il sabato, e una singola vasca da bagno per potersi lavare nel seminterrato, da prenotarsi con largo anticipo.

I proprietari, i Rachou, erano ospitali e abbastanza di manica larga per quanto riguarda le regole. Si poteva far uso di droga e fumare hascisc, l’odore veniva perdonato dalla polizia tramite succulenti sandwich che la padrona di casa preparava costantemente.

Madame

Qui la creatività doveva poter fluire incessantemente. Tra cene preparate da Madame Rachou e discorsi al bar, l’arte veniva costantemente alimentata dalla comunità presente in maniera vivace e allegra.

Madame con diversi artisti

Il nome venne dato da uno degli illustri personaggi che bazzicavano al suo interno. Gregory Corso fu infatti colui che lo rese la meta preferita degli artisti Americani (e non) che stavano vivendo il loro intenso momento parigino alla ricerca di una più profonda connessione con la loro anima.

Tra essi vi erano Ginsberg, Orlovsky, Burroughs, Gysin, Norse e altri.

William Burroughs nella sua stanza

Ginsberg e Orlovsky,1957

Gregory Corso nella sua stanza fotografato da Ginsberg

Una pratica tipica per coloro che non riuscivano a permettersi di pagare l’affitto delle stanze era quella di dedicare poesie, tele, scritti di vario genere alla proprietaria.

Lei stessa, memore di un’esperienza lavorativa in un locale frequentato da Picasso, decise di concedere agli artisti la possibilità di arredare e dipingere le proprie stanze a loro piacimento. L’hotel divenne quindi un luogo eclettico e alternativo, punto cardine della vita beat parigina, luogo di ritrovo fondamentale per la visione alternativa che questo movimento portava avanti.

Come disse Verta Kali Smart sulla rivista “Left Bank this month”, il beat hotel pareva un luogo lasciato al caso, ma la clientela era selezionatissima. Per entrare bisognava avere l’aspetto di un artista, con una tela sottobraccio, o dire le cose giuste e avere le giuste conoscenze. Chiunque avesse qualcosa di importante da dire e fosse una personalità nel suo ambito era ammesso.

Fotografia di Harold Chapman

L’avventura beat durò fino al 1963, quando ormai madame, rimasta vedova da 5 anni, non potè più gestire l’hotel e la sua vita alternativa. L’ultimo ad andarsene fu Harold Chapman, che aveva documentato nel corso del tempo la presenza di vari artisti.

Harold Champman, self-portrait.

La struttura venne venduta, ma ancora oggi rimane un luogo centrale della cultura parigina e americana.

Molti artisti rimasero con l’amaro in bocca per la decisione della vendita e continuarono a guardare con un pizzico di malinconia agli anni passati nel cuore Parigino.

Nel 1997 Burroughs scrisse in uno dei suoi diari:

“Can I bring it back, the magic and danger of those years in 9 rue Git-Le-Coeur and London and Tangier—the magic—photographs and films.

Oggi rimane un’insegna, unico elemento che ricorda il passato glorioso di quel posto. Negli anni si sono susseguiti cambiamenti e vicende che ne hanno alterato profondamente l’aspetto, ma non l’essenza originaria che permane, se non altro, nel ricordo della sua storica grandezza.