Favole incantate

Guardando i cartoni animati viene da chiedersi chi sia l’autore dei disegni che prendono vita sullo schermo, chi abbia pensato il personaggio e abbia fissato su carta le sue fattezze fisiche. In un’era dedicata al digitale sembra essersi dimenticati delle grandi menti illustratrici che, nei primi anni del ‘900, ci regalavano piccole opere d’arte di singolare bellezza.

Prima che la Disney ci proponesse linee addolcite e un po’ gonfie, colori sgargianti e personaggi più accessibili delle belle principesse del passato, c’erano le illustrazioni oniriche di Kay Nielsen.

Danese di origine, crebbe in una famiglia dedita alle arti che gli permise di curare la sua abilità nel disegno. Educato a Parigi cominciò a lavorare sin dal 1913, realizzando tavole e illustrazioni per libri.

In pochi anni diventò l’illustratore più famoso della penisola Scandinava grazie alle sue linee raffinate e mai banali e all’uso sapiente del dettaglio come elemento fondante il disegno.

La sua arte era frutto di un’attenta ricerca dei particolari, da un preciso studio delle geometrie e dei colori. Su modello dell’art Nouveau, Nielsen realizzava tavole con figure allungate, ricche di dettagli e ghirigori con uno stile che gli permise di distinguersi tra molti. Nei suoi disegni spiccano gli elementi floreali e orientaleggianti e i personaggi sembrano sempre provenienti da un mondo altro, onirico forse, lontano dalla consueta realtà in cui si viene inevitabilmente catturati per potersi immedesimare nella storia.

Spesso emerge anche una certa malinconia, una tristezza velata e anche qualche elemento di oscurità nelle sue opere che tuttavia non le tramuta in pesantezza, ma piuttosto in velata austerità.

Realizzerà le illustrazioni per la traduzione de “Le Mille e Una notti”, che rimarranno tristemente sconosciute fino dopo la sua morte. In queste tavole prevale lo sguardo orientale, sapientemente realizzato con combinazioni di forme e dettagli, ponendo sempre l’accento sullo stile degli abiti dei personaggi e sui colori vividi.

Nel 1922 illustrò le famose favole di Hans Christian Anderson e dei Fratelli Grimm. Da “La Principessa sul pisello” a “Hansel e Gretel”, realizzò alcune delle sue opere più famose proprio in questi anni.

Il prestigio gli permise di trasferirsi negli Stati Uniti dove cominciò a lavorare per la Walt Disney Company nel 1939.

Qui cominciò a lavorare a diverse produzioni, tra cui “Fantasia” dove con la sua abilissima mano fornì spunti per alcune scene in particolare.

Successivamente prestò le sue idee per un concept sulla “Sirenetta”, incentrandosi principalmente sullo stile del periodo, meno dettagliato e più improntato su una visione anni 30-40. Nonostante la sua visione innovativa, l’opera non venne mai realizzata con i suoi disegni originari.

La sua permanenza nella grande famiglia Disney durò solo quattro anni, un periodo breve, a causa principalmente dei tagli ai costi che la nuova politica aziendale voleva promuovere.

In “They drew as they pleased: the hidden art of Disney’s Musical Years” Didier Ghez riporta come Nielsen fosse un artista di grandissimo calibro, ma piuttosto lento nel suo lavoro, elemento da collegare al suo profondo perfezionismo e alla ricerca della bellezza. Questo suo aspetto peculiare finì per farlo licenziare malamente poiché i costi per sostenere il suo lavoro erano diventati ingenti e intollerabili.

Finì la sua vita in relativa povertà, avendo perso la fama acquistata negli anni.

La Disney ammira ancora oggi i suoi lavori, come moltissimi critici d’arte.

La sua arte, ispirata, come disse, da Henrik Ibsen, rimane negli anni un segno distintivo di una visione lontana, poetica, fantastica, che nessuno è mai riuscito a realizzare prima (e dopo) di lui.

Sarebbe stato molto interessante poter vedere altri disegni messi in scena in altre produzioni.

L’artista sconosciuto che affascinò i grandi del suo tempo

Greenwich Village, 1940.

Una coppia di novizi sposi si addentra nella loro nuova casa. È un piccolo appartamento, ma basta per loro due, che non hanno molte pretese. L’importante è che ci sia una buona luce e dello spazio per poter realizzare il gesto più importante e significativo di tutti: dipingere.

Questo è l’inizio di una storia che arriva fino ai giorni nostri e che pochi conoscono.

I due sono Virginia Admiral e Robert De Niro. 

Sì, avete letto bene.

Prima del grande attore, premio oscar, c’era il padre, un altrettanto grande artista, nominato perfino da Kerouac in un suo libro.

I due facevano parte del gruppo di artisti che si era stanziato a New York già da un po’ di anni. Poeti, scrittori e pittori si ritrovavano per colloquiare di arte e misteri della vita e, in ultimo, trovare un terreno fertile per portare avanti la loro arte.

I due si erano conosciuti studiando sotto Hans Hofmann, esponente dell’espressionismo astratto, nella sua scuola estiva.

In quel periodo conobbero intellettuali e scrittori come Anais Nin ed Henry Miller, gli amanti più peccaminosi ed erotici mai conosciuti, Jack Kerouac, Tennessee Williams e molti altri.

Fu in questo contesto che Robert De Niro, dopo aver messo al mondo il più celebre Robert De Niro jr, fece coming out. 

In quegli anni essere omosessuale era visto ancora come un qualcosa di negativo e la connotazione che veniva attribuita ai gay era pesante e demistificatoria. Robert aveva combattuto tutta la sua vita contro il suo stesso essere, arrivando anche al matrimonio, forse una sorta di illusione per quello che sentiva realmente dentro di lui. Dopo il coming out la moglie lo lasciò e si dice che lui incominciò varie relazioni tra cui una con il meglio conosciuto Pollock.

Le incongruenze di idee di vita influenzarono sicuramente Robert De Niro jr che tuttavia rimase sempre legato al padre, ricordandolo ancora oggi con stima seppur velata da tristezza. I due passavano tempo insieme andando al cinema, prima a vedere opere di grandi come Jean Cocteau, poi a vedere lo stesso de Niro jr recitare in varie pellicole. Robert jr ricorda come a volte fosse molto naturale per loro rimanere in una stanza entrambi in silenzio, forse su due linee opposte di pensiero, ma mai opposti come persone.

Robert fu un grandissimo pittore, riconosciuto dalla critica e dai grandi dell’ambiente con cui poteva facilmente competere uscendone vincitore. Nonostante questo, con l’affacciarsi di nuovi stili e tendenze e la prevalenza della pop art nel mondo dell’arte, cadde nel dimenticatoio.

Continuò a dipingere tutta la sua vita, come una sorta di bisogno interiore dettato dalla propria essenza e mai da esigenze economiche o di riconoscimento. Fu affetto per anni da depressione, causata principalmente da vari rifiuti di galleristi francesi di esporlo, ignari della portata delle sue opere in America. Morì nel 1993 all’età di 71 anni.

Robert Jr in un’intervista del 2012, disse di aver lasciato il suo studio come lo aveva lasciato il padre prima di morire, un gesto, forse, volto a ricordarne la grandezza e al tempo stesso l’umanità.

House (1977)- L’orrore comico

Nel periodo della sperimentazione cinematografica degli anni ’70 abbiamo avuto diverse produzioni rilevanti e meravigliose. Ad occidente, come a oriente, ci si stava affacciando su nuove metodologie d’avanguardia e interessi diversificati nella produzione cinematografica.

In America c’era David Lynch, ancora oggi regista di estremo talento e grande capacità visionaria che ha realizzato film fuori dal comune, sia per la trama che per le immagini. 

Sul filone di questa novità in ambito cinematografico, il Giappone rispose con un altrettanto talentoso e eccentrico artista. 

Era il 1977 quando uscì House, un film realizzato dall’allora emergente regista Nobuhiko Obayashi.

Fino ad allora Obayashi si era occupato esclusivamente di spot pubblicitari di vario calibro, pur avendo studiato cinema e avendo appreso tecniche innovative che furono il pilone portante dei suoi lavori successivi.

Il film, capolavoro trash tra il comico e l’horror, vede protagoniste 7 ragazzine durante le vacanze estive e una casa infestata. 

La trama, piuttosto semplice, come i nomi delle ragazze che corrispondono alle loro caratteristiche portanti, è imbevuta di bellezze del genere e di scene alquanto particolari che hanno reso il film un cult per diverse generazioni.

Le idee, innovative e mai banali (vedi micetti assassini), riescono a strappare un misto di orrore e sdegno, ma alimentano l’eclettismo ricercato con inquadrature nuove e elementi iconici. Le atmosfere oniriche e idilliache vi coinvolgeranno, così come la colonna sonora e le continue grida delle povere sventurate mandate al macello. 

La particolarità più rilevante rimane però la tecnica fotografica che viene usata in maniera inusuale, ma che non sfocia mai in qualunquismi convenzionali e preconfezionati. Il film merita, non tanto per la trama, quanto proprio per l’idea che sta alla base della sua realizzazione. Guardare per credere!

Bellezze artistiche: il manoscritto misterioso

Era il 1912 quando Wilfrid Voynich, mercante di libri rari di origine polacca, comprò al collegio gesuita di villa Mondragone una serie di libri.

Tra questi c’era un manoscritto di pergamena di vitello molto insolito.

All’interno del libro c’era una lettera che riportava come un tempo fosse stato di proprietà di Rodolfo II di Boemia che lo aveva acquistato per 600 ducati credendolo realizzato dal famoso Ruggero Bacone.

Il libro, oggi segnato con la sigla Ms 408 presso la biblioteca di Yale, famosa per la sua collezione di manoscritti rari, viene denominato Manoscritto di Voynich.

La sua particolarità risiede nella sua stranezza linguistica. Il manoscritto infatti, che contiene diverse sezioni, sembra essere scritto in una lingua sconosciuta e intraducibile.

Da anni gli studiosi si sono contesi il merito di aver tradotto quest’opera, ma con il tempo sono stati tutti smentiti nei fatti: il manoscritto sembra essere davvero scritto in una lingua estinta.

La struttura è peculiare: ci sono 116 fogli di cui 14 sono andati persi.

All’interno ci sono 4 sezioni chiamate per convenzione botanica, astronomica-astrologica, biologica e farmacologica. 

Le illustrazioni, a colori, ritraggono piante non riconoscibili, costellazioni, donne intente a quelli che sembrano dei bagni termali e varie boccette di natura chimica.

Fino al 2011 molti lo ritenevano un falso, costruito ad arte per prendere in giro Rodolfo II, in particolare modo da parte di Edward Kelley.

La prova della sua falsità è stata scardinata dalla datazione scientifica al radiocarbonio che lo fa risalire al XV secolo e dalle prove effettuate su pergamena nel corso degli anni.

Il manoscritto sembra essere quindi estremamente antico, probabilmente scritto come enciclopedia di natura medica la cui realizzazione rimane sconosciuta.

La particolarità, notata da Bennett nel 1976, è la bassa entropia della lingua, ovvero lo scarsissimo numero di parole, molte delle quali si ripetono in un susseguirsi di stranezze, che la assocerebbero tra le lingue moderne, solo all’hawaiano.

Alcuni studiosi recentemente hanno pensato si trattasse di una sorta di dialetto antico, ormai estinto, forse realizzato come una lingua artificiale per scopi medici.

Altri credono che sia riconducibile a lingue provenienti dall’Asia minore, sia per il suo alfabeto, estremamente inusuale, sia per la struttura delle frasi.

Ad oggi il mistero rimane.

L’origine del manoscritto è sconosciuta e tutti gli studi più illustri sembrano solo dimostrare la difficoltà di riconoscimento della lingua e del contenuto. Tutt’ora rimane uno dei reperti più stravaganti e misteriosi che possediamo, un mistero che ha alimentato la fantasia di autori e artisti, che ha lasciato spazio a speculazioni di vario genere, alcune decisamente sopra le righe.

Il suo valore storico tuttavia rimane il fulcro portante delle ricerche scientifiche ed è la base fondante degli studi di molti illustri scienziati e linguisti.

Riusciremo mai a tradurlo? Forse. Sta di fatto che la sua bellezza artistica rimane ancora incontestata e impareggiabile.

L’esperimento scientifico più inusuale della storia

Biosphere 2, questo è il nome attribuito a un esperimento scientifico iniziato con la costruzione di enormi padiglioni nel mezzo del deserto dell’Arizona.

La costruzione, avviata nel 1987 e terminata nel 1991, prevedeva l’allestimento di un’estesa superficie per la creazione di una “seconda terra”.

All’interno delle istallazioni di metallo e vetro coesistevano 6 diversi ecosistemi: la foresta tropicale, un oceano con tanto di barriera corallina, una palude di mangrovie, un deserto, la savana e terreni coltivabili. In aggiunta erano presenti numerosi laboratori per lo studio di piante e animali.

L’idea nacque da John Polk Allen, uno scienziato esperto in leghe metalliche e la moglie, Marie Harding, fotografa. Prima di allora avevano sperimentato diversi anni di vita in un ecovillaggio fondato da loro nel 1969, il Synergia Ranch, situato a Santa Fe, nel New Mexico.

La funzione di queste mastodontiche strutture doveva essere quella di introdurre dei possibili sistemi di colonizzazione di altri pianeti, come Luna e Marte, lo studio della crescita della flora e della fauna e i vari cicli vitali e chimici che interessano il Pianeta Terra.

Un’ulteriore finalità era quella di provare l’ipotesi Gaia, del biofisico James Lovelock e della microbiologa Lynn Margulis che nel 1972 avevano ipotizzato che terra, piante e animali si fossero sviluppati nel corso delle epoche in un sistema autoregolante.

All’interno degli spazi furono introdotte più di tremila specie differenti, tra piante e animali, pesci e insetti, oltre che cereali e verdure di vario tipo.

L’esperimento venne avviato il 26 Settembre del 1991, con otto partecipanti, quattro uomini e quattro donne che per un periodo di due anni dovevano vivere all’interno di Biosfera 2 in maniera autosufficiente, quasi completamente isolati dall’esterno, mentre conducevano esperimenti pratici per raccogliere dati.

Questa straordinaria idea però cominciò ben presto a vacillare.

La mancanza di sole non garantiva una corretta crescita delle specie al loro interno, la scomparsa degli insetti impollinatori rappresentò un problema anche di fronte all’alto tasso di riproducibilità di formiche e blatte, che presto invasero tutti i compartimenti, e una pericolosa caduta dei livelli di ossigeno compromisero l’esperimento al punto tale che il sistema isolato dovette ricorrere a numerosi aiuti esterni.

Anche sotto un profilo psicologico la situazione si fece tesa.

Ben presto si svilupparono due fazioni di pensiero, capeggiate da due delle scienziate presenti che avevano visioni diverse circa la conduzione dell’esperimento e il mantenimento del suo isolamento dal mondo esterno.

Nonostante tutto gli otto scienziati rimasero per la durata intera dei due anni e uscirono nel 1993.

L’anno successivo venne annunciata una seconda missione, anche in luce al fallimento colossale della prima e delle varie problematiche che si erano istaurate all’interno del complesso esperimento.

La missione 2 fallì dopo appena 32 giorni per la natura troppo estrema dell’esperimento.

La struttura, eccessivamente grande e costata 150 milioni di dollari, fu affidata alla Columbia University fino al 2003, per poi passare all’università dell’Arizona.

Tutt’ora è un museo aperto al pubblico, ma non disdegna una funzione scientifica. Si studiano infatti gli ecosistemi e le loro relazioni, nonché nuove proposte per fronteggiare il cambiamento climatico.

Una delle note più interessanti è sicuramente l’aspetto psicologico dell’esperimento, che viene elaborato all’interno degli studi psicologici e sociali avviati nella struttura, e in particolare modo la relazione tra uomo e natura, che nel corso degli anni è stata persa, nonché la relazione sociale tra uomini, fattore fondamentale per le eventuali future colonizzazioni di altri pianeti.

Ulteriori studi riguardano l’acidificazione degli oceani, causa principale dell’estinzione della barriera corallina e le pratiche necessarie a impedirla.

Questa idea, nata principalmente con scopi scientifici validi e definiti, è diventata nel corso degli anni fonte di imbarazzo per gli ideatori, un’utopia troppo grande e pretenziosa per poter essere raggiunta.

Molti sono stati coloro che hanno storto il naso di fronte a Biosfera 2, di fronte al suo costo e di fronte alla metodologia con cui gli esperimenti sono stati condotti.

Nonostante ciò potrebbe essere un importante punto di svolta per gli studi climatici e per tutte le questioni ambientali, faunistiche e floristiche che ci riguardano da vicino. Avere una struttura così vasta, con dei sistemi ecologici già stabiliti e adattati potrebbe rappresentare il punto di partenza per ulteriori studi e per ulteriori missioni, garantendo una risorsa fondamentale e non indifferente anche per le generazioni future.

Film per una (troppo) soleggiata domenica estiva

Quando il caldo dell’estate si fa sentire, come in queste ultime settimane, diventa difficile fare attività all’aperto. Solo l’idea di buttarci sotto il sole cocente ci sfinisce e l’unica soluzione plausibile sembra stare chiusi in casa con il condizionatore sparato a mille.

Certo è allettante stare al fresco, abbandonati sul divano a passare le ore in una sorta di dormiveglia collettivo.

Però a volte ci si annoia a morte a passare i pomeriggi così, soprattutto per chi non ha la fortuna di una bella piscina fresca in cui buttarsi ancora vestito.

Insomma bisogna trovare qualcosa da fare.

Se siete i tipi da libri forse questo non è il miglior post che potete trovare. Se invece siete deconcentrati dal caldo e volete passare un pomeriggio afoso di fronte alla tv (o al pc) questa lista fa per voi:

Il giardino delle vergini suicida (1999) di Sofia Coppola:

Storia complessa, di fatto una mezza tragedia, ma se siete degli esperti di estetica troverete questo film decisamente piacevole. Forse è un po’ impegnato per un pomeriggio estivo, ma merita per la fotografia e in generale per la recitazione. Ah parla di vergini suicida, come potevate immaginare.

Picnic a Hanging Rock (1975) di Peter Weir:

Questa chicca ambientata nel 1900 vi lascerà di stucco per la misteriosità della sua trama. Allo stesso tempo però vi intrigherà così tanto che probabilmente cercherete la spiegazione su internet. Cercare di capire perché delle giovani donne sono scomparse in maniera del tutto imprevedibile vi terrà attaccati allo schermo e alla fine finirete per apprezzare l’estetica anni 70 di questo piccolo capolavoro.

LOLITA, Jeremy Irons, Dominique Swain, 1997

Lolita (1997) di Adrian Lyne:

Un classico estivo, a mio modesto parere. Se siete appassionati di lettura consiglio il romanzo, un grande capolavoro di letteratura 900esca. Il film del 97 ha toni più soavi di quello di Kubrick, di cui non sono ad oggi una grande fan. La storia è la stessa, ma a mio avviso Dominique Swain ha fatto un lavoro sublime e il vibe merita.

Laguna Blu (1979) di Randal Kleiser:

Anche questa perla (caraibica) viene da un rinomato romanzo. La storia d’amore dei due protagonisti ha visto i limiti della pedofilia secondo alcuni, secondo altri è solo una rappresentazione naturale della vita di due giovani dispersi su un’isola remota. E poi parliamoci chiaro: Brooke Shields con i capelli al vento, lunghi fino alla vita, è decisamente un’icona degli anni ottanta e comunque la visione di un mare caraibico è sempre preferibile alla siccità.

Rose Red (2002) su idea di Stephen King:

Per gli amanti dell’horror, come me, una piccola chicca poco conosciuta in patria. Una miniserie piuttosto vintage, ma che vi rapirà senza ombra di dubbio. Ambientata in una casa infestata, è il modo perfetto per trascorrere un weekend di paura e di forti emozioni. Anche di questa consiglio il libro “il diario di Ellen Rimbauer” che trae spunto dalla miniserie e racconta in modo più approfondito gli antefatti della storia.

Jennifer’s Body (2009) di Karyn Kusama:

Anche in questo caso si tratta di un horror (o quasi) che però merita per il disimpegno dei toni e la sua colonna sonora. Un film piacevole e non troppo impegnato, carino tutto sommato e che merita di essere visto. Megan Fox è stupenda nella parte della teenager mangiatrice di ragazzi.

Il canto dell’usignolo: il connubio perfetto tra arte, musica e danza

Anni fa andai a una mostra di matisse a Roma. Tra le sale e i bellissimi capolavori ricchi di colori sgargianti, mi imbattei in una visione che mi estasiò.

Non sapevo che uno dei più grandi artisti mai esistiti si fosse occupato di un balletto classico, il mio primo e grande amore.

L’opera prende il nome di “Le chant du Rossignol”, su musica composta da niente meno che Stravinskij stesso.

Ma facciamo un passo indietro.

L’opera fu composta tra il 1908 e il 1914 dal grande musicista che si fece convincere da Djagilev, un grande impresario teatrale di origini russe, a riadattarla in un balletto.

Il primo adattamento fu un flop, le parti ballate erano scarse e in generale il pubblico non apprezzò.

Successivamente si decise di movimentare l’opera.

nizialmente la scenografia fu attribuita a Fortunato Depero, ma le sue idee erano decisamente troppo stravaganti per la poetica dell’opera e venne accantonato.

Fu allora assunto Matisse come costumista ufficiale. Con la sua linea raffinata, dolce e gentile, realizzò dei costumi all’avanguardia, bellissimi e ciascuno dipinto a mano.

Il balletto andò in scena all’Opera di Parigi nel 1920 con la famosa compagnia dei Balletti Russi. La coreografia, affidata a Leonide Massine, risulto anch’essa un flop, troppi passi in controtempo e decisamente innovativa, forse un po’ troppo per lo spirito dell’epoca.

Nel ’25 la coreografia fu riadattata all’arte di un grandissimo ballerino e coreografo: Balanchine.

Il ballerino sembrò risollevare l’opera dalla sua precedente caduta e mise in scena un balletto all’avanguardia, ricco nel suo stile e di grande impatto scenico (come solo lui sapeva fare).

Da qui si susseguirono diversi esperimenti circa la coreografia che si protrassero per tutto il 900.

Ad oggi anche se i costumi realizzati da Matisse sono pezzi da museo, confinati dietro un vetro protettivo per la loro delicata essenza, il balletto conosce ancora i suoi momenti di gloria, riadattato per ovvie ragioni, viene messo in scena dalle più svariate compagnie, rimanendo tuttavia una piccola perla rara nel mondo della danza.

Margaretha, la ballerina dai mille volti.

Correva l’anno 1917, precisamente un Lunedì di metà Ottobre, quando Margaretha fu svegliata di buon mattino nella cella in cui era tenuta prigioniera.

Si vestì con calma, con l’aiuto di due suore e si incamminò verso il destino che era stato scelto per lei.

Presto, quella mattina, sarebbe stata legata ad un palo e fucilata da un plotone di esecuzione.

L’accusa che mosse questa vicenda era di spionaggio.

Fu colpita quattro volte, di cui una direttamente al cuore. Il suo corpo, ormai devastato dalla potenza micidiale dei proiettili fu gettato in una fossa comune e così dimenticato.

Un tempo quel corpo era stato oggetto di sogni proibiti e fantasie da parte di tutta Parigi. Ufficiali, uomini illustri, ma anche donne, vi avevano poggiato lo sguardo grazie all’esuberante sensualità che riusciva a trasmettere attraverso le sue danze. Pochi anni prima Margaretha non era conosciuta con il nome di battesimo, bensì con il suo nome d’arte: Mata Hari.

Il nome le venne dato nel 1905 sulla scena Parigina, dove si era rifugiata dopo un matrimonio disastroso. La bella Mata, che nella lingua malese significa “alba” o “occhi del sole”, cominciò a mantenersi come modella e a prostituirsi per riuscire a guadagnare abbastanza per un pasto.

Fu casualmente, ad una festa, che ebbe modo di sfoggiare il suo talento in tutto il suo splendore.

Cominciò infatti a danzare quella che sembrava essere una danza orientale, come disse lei, ispirata ai movimenti sensuali delle sacerdotesse del dio Shiva. La cosa non finiva qui: le sacerdotesse si spingevano fino a togliersi le vesti in un approccio erotico-amoroso verso il dio stesso. La serata fu un successo, ma fu la sua replica a casa di una popolare cantante che la consacrò nel mondo patinato delle star.

Da qui Mata cominciò a esibirsi anche in diversi teatri, attirando un pubblico maggiore e incrementando il suo successo.

Il suo numero consisteva in un lento e sensuale spogliarello di sete e tessuti trasparenti, fino a rimanere seminuda e ricoperta solo di gioielli orientali. In verità non mostrò mai apertamente i seni, ma questo bastava ad incuriosire gli animi degli spettatori della Belle Epoque.

Fu acclamata dalla critica che la definì “essa stessa la danza” ed ebbe numerosi ammiratori che le chiesero la mano. Purtroppo però l’idillio finì presto: l’affacciarsi del primo conflitto mondiale interruppe tristemente la sua carriera di danzatrice per lanciarla in un mondo completamente diverso e pericoloso.

Durante questi anni l’incertezza scandiva la vita in Europa.

Mata divenne amante del banchiere tedesco Van Der Schalk, che si dice fu il primo ad avviarla alla professione di spia. Inizialmente doveva portare informazioni sull’aeroporto di Contrexeville, in Francia, agli alleati tedeschi per cui faceva la spia sotto il nome di agente H21.

Visti i suoi numerosi amanti di spicco nel mondo della politica e dello spionaggio fu tenuta in osservazione, senza che lei lo sapesse, dal controspionaggio Inglese e Francese che si stava contemporaneamente muovendo per avere informazioni contro i Tedeschi.

Mata Hari

Durante le sue “missioni” però ebbe contatti diretti con il capo del controspionaggio Francese che le propose di entrare nel gioco per aiutare la Francia. Accettò l’offerta, sotto un pagamento di un milione di franchi, una cifra enorme per il tempo.

Da qui cominciò il suo doppio gioco. Spia tedesca e spia francese. I due lati di una realtà opposta ed estremamente pericolosa.

I tedeschi scoprirono ben presto il suo piano e la fecero arrestare in Francia.

Di fronte alle accuse gravissime Mata Hari inizialmente negò ogni cosa, ma quando la pressione cominciò a pesare sulle sue spalle, vuotò il sacco. La sentenza del tribunale la trovò colpevole del reato e fu condannata a morte il 15 Ottobre del 1917.

Fu forse la cieca fiducia nelle sue capacità seduttrici che in ultimo la condannò a un destino nefasto. Forse furono i troppi amanti, personaggi troppo in vista che sapevano molto bene cosa si celava dietro ogni mossa della Nazione. Forse fu una mossa sbagliata, una parola di troppo. Forse fu semplicemente il destino che giocò a sua volta con l’esistenza di Mata.

Una cosa è certa: la sua sensualità rimase un faro abbagliante. Come lei non ci fu nessun’altra. Molte presero ispirazione, ma nessuna riuscì ad eguagliare, nemmeno lontanamente, il suo successo e il suo apprezzamento.

In un momento storico che vedeva ancora la sensualità come un grosso tabù, Mata riuscì a creare qualcosa di iconico che perdura, un’unione tra Oriente e Occidente basata sull’erotismo ai massimi livelli e sulla fiducia nelle proprie capacità. Ancora oggi rimane un’ispirazione, una grande ballerina e performer che ha cambiato la mentalità del proprio tempo.

Zsuzsi e William: una storia d’amore tragica

Dietro al mondo dorato e fastoso della monarchia inglese si nascondono delle regole ferree, talvolta insostenibili, che scandiscono la vita iper programmata dei reali. Molto prima di Harry e Meghan e delle innovazioni che hanno portato nel regno inglese c’erano Zsuzsi e William.

William di Gloucester era il cugino della Regina, quarto in linea per il trono inglese.

Spirito libero e volenteroso di avere una vita normale, nel 1968, all’età di 26 anni, si trasferisce in Giappone, per lavorare nella diplomazia. Qui incontra lo sguardo di una donna un po’ più grande di lui, Zsuzsi Starkoff, di origine Ungherese.

William è bello, intelligente e terribilmente sexy e attira facilmente lo sguardo delle donne che gli garantiscono la fama di playboy.

Zsuzsi però è diversa. Non solo è più grande, che già di per sé potrebbe rappresentare un problema per la corona inglese, ma è anche divorziata, madre di due figli e lavora come hostess e modella nell’ambiente chic di Tokyo per mantenersi.

La relazione prende il volo in pochi mesi e i due si scoprono profondamente innamorati e uniti.

Nel 1969 la Principessa Margaret arriva in città per questioni reali ( in realtà ci sono voci che dicono che fosse in loco per controllare la relazione) e qui incontra la bella Zsuzsi. La modella supera la prova ed entra nelle grazie di Margaret che comunque dice a William di aspettare e vedere come procede il rapporto prima di prendere scelte affrettate.

Sempre in quell’anno i due decidono però di sposarsi, nonostante tutto.

A detta di William non pensava di provare un amore così intenso per una donna.

Purtroppo però le cose non vanno come previsto. Il padre di William infatti soffre di un ictus e Will è costretto a tornare in patria, dove incontra ostilità per via della sua scelta amorosa. I familiari lo incoraggiano a lasciar perdere in quanto la relazione non potrebbe mai consolidarsi in un matrimonio approvato dalla regina. Le regole sono chiare e non ci si può opporre.

I due si separano per diverso tempo, ma Zsuzsi rimane convinta dell’amore di William.

I due cercano di mantenere qualche contatto sporadico, ma l’allontanamento pesa sulla relazione che arriva a concludersi nonostante i due si amino ancora.

Quello che non si aspettano però è la piega che la vita prenderà di lì a breve.

Nel 1972, all’età di 30 anni, William incontra la tragedia.

Pilota appassionato, il 28 Agosto di quell’anno, decide di partecipare ad una gara vicino a Wolverhampton.

L’aereo su cui viaggia si schianta poco dopo il decollo, non lasciando al pilota e al copilota nessuno scampo.

In un documentario rilasciato nel 2015 la Starkoff dichiarò che in quell’occasione William la invitò a partecipare con lui alla gara, ma per varie ragioni lei non accettò evitando inconsapevolmente il destino nefasto riservato al suo amato.

Fino alla morte, avvenuta nel 2020, Zsuzsi ha indossato l’anello che William le aveva regalato, la copia identica di quello che lui indossava al momento della sua morte.

Walter Russell: L’uomo che il mondo non è pronto ad avere

Questa frase risuona attorno alla personalità di Walter. Fu il famoso Nikola Tesla, scienziato e inventore a dichiararla dopo averlo conosciuto nel 1921. “Il mondo non è pronto alle tue intuizioni”, gli disse Tesla dopo avere ammirato i suoi lavori. Ed in parte fu così.

Walter Russell nacque nel 1871 a Boston, Massachusetts. Crebbe senza avere una particolare istruzione se non la scuola primaria fino ai 9 anni, che abbandonò per dare una mano in casa.

Si trasferì a Parigi dove ebbe modo di frequentare una scuola d’arte e nel 1894 tornò a New York componendo, nel 1900, il famoso dipinto “The might of ages”.

Fu innanzitutto un artista molto prolifico, un filosofo, uno scultore acclamato, un musicista e un autore, ma sono soprattutto le sue scoperte inerenti la natura che mi hanno affascinata.

La sua prima illuminazione avvenne all’età di 7 anni quando ebbe una esperienza fuori dal corpo.

A 14 anni fu dichiarato morto di difterite, ma per un qualche strano miracolo, riuscì a ritornare, come disse lui :”Mi hanno chiesto di tornare”.

Queste esperienze insolite plasmarono moltissimo la vita e le credenze di Walter e lo spinsero ad indagare maggiormente gli aspetti metafisici dell’esistenza umana.

I suoi interessi sono vari e spazia da discipline più umanitarie e artistiche a ricerche scientifiche.

Nel 1926 pubblica la sua tavola periodica a spirale che prediceva nuovi elementi, nuovi elementi radioattivi e situazioni chimiche e fisiche al di sotto dello standard atomico dell’idrogeno.

Nel 1929 per 39 giorni ebbe un’esperienza illuminante che ricorda come “illuminazione nella luce della coscienza cosmica”, in cui dichiarò di aver compreso i perché più reconditi dell’esistenza umana. Una sorta di Illuminazione Buddhista.

La sua abilità artistica gli permise di realizzare disegni e diagrammi che potevano rappresentare le sue visioni, molti dei quali estremamente difficili da interpretare e comprendere.

Fu autore di dozzine di libri, come “the Universal One” del 1926 e “The Book of early whisperings” del 1949.

La sua filosofia si basava sulla luce e può essere racchiusa da questa affermazione:


“All matter is a manifestation of light, everything is related”

Essenzialmente credeva che l’universo fosse dato da onde elettromagnetiche in movimento e che colui in grado di comprendere questa realtà fosse chiamato alla trascendenza stessa. La forza motrice e creatrice di tutto era vista e interpretata nel sesso, come unione di forze opposte entrambe creatrici.

Si spense il giorno del suo compleanno del 1963, lasciando numerosi disegni e scritti di natura metafisica e scientifica.

Non fu preso particolarmente sul serio come studioso di scienze, ma di sicuro alcune delle intuizioni che ebbe furono portate avanti nel corso dei decenni, fino ad arrivare a noi.