Il Victoria’s Secret Fashion Show di cui (forse) non avevamo bisogno

Martedi 15 Ottobre 2024 si è tenuto il nuovo famosissimo show nella grande mela. Tra gli ospiti vecchi angeli illustri che hanno fatto la storia del brand – ma non solo- e nuovi volti con buoni propositi e tanta curiosità.

Sulla scia delle edizioni passate (e che edizioni!) il Victoria’s Secret Fashion Show 2024 ha dichiarato di impegnarsi in un tema attuale di vitale importanza: l’inclusività.

Ma al di là delle buone intenzioni (con un pizzico o più di marketing vista la situazione disastrosa in cui verte il brand), non è riuscito a stimolare la fantasia dello spettatore come faceva nel suo passato illustre.

Abituate com’eravamo a vedere modelle uscire da giochi di ombre, scatole regalo natalizie, su note coinvolgenti e sexy, questo nuovo spettacolo ha avuto pochissimo a che fare con le stravaganze del passato, con i glitter delle edizioni in cui Taylor Swift dominava la passerella, con il mistero creato dalla chiusura della sfilata operata da Rihanna.

Ci troviamo nella mitica New York, una passerella lunga e colorata di rosa – il classico colore del brand- con una Gigi Hadid che apre lo show sulle musiche di Lisa, con poca convinzione e una camminata traballante che ha poco a che fare con l’alta moda di cui è abituata. La prima sfilata, all’insegna del tipico colore, viene chiusa da una Adriana Lima decisamente cambiata da piccole e studiate iniezioni al viso, ben lontana dal look fresco che portava in passerella nei tempi d’oro della sua carriera.

Il secondo momento, coronato da una straordinaria Tyla, si popola di bianco e vede alcune storiche modelle ricalcare le orme del passato. Una Candice sempre straordinaria, anche se decisamente nervosa, una bellissima Barbara, che con il corpo a pera che ha poteva benissimo essere valorizzata da lingerie studiata ad hoc invece che dal vestito lungo e coprente che ne ha mascherato la fisicità tonica e sana.

La terza sfilata vede come protagonista assoluta una Kate Moss fiacca che apre le danze con poca verve e coinvolgimento. Una storica Behati anch’essa coperta da un abito lungo, una Irina che riesce a risollevare il ritmo della narrazione.

Ritorna quindi Lisa con una melodia dai toni più soavi, e qui vediamo diverse modelle Plus size calcare la passerella portando avanti la nuova concezione inclusiva del brand. Ad aprire, una non proprio in forma Ashley Graham, decisamente oltre il concetto di plus size abbracciato dall’azienda. In questo pezzo emergono anche volti storici come Eva Herzigova e Carla Bruni a fare da padroni a completini di pizzo nero e vene più sensuali e mature.

È ora la volta della performance più attesa: Una Cher che pare in forma, sul pezzo, ma che si riduce a cantare in playback mentre un coro di ballerini le fa da sfondo per creare movimento. Apre quindi la sezione rossa, che vede ancora una volta protagonista l’italiana Vittoria Ceretti ed infine l’attesissima – e segretissima- Bella Hadid a chiusura dello spezzone. Una mossa geniale, considerata la portata di questa top model, nominata la modella del decennio, con alle spalle collaborazioni che hanno fatto la storia delle passerelle. 

Prima dell’atto finale, ecco emergere dal pavimento una Tyra Banks, l’unica forse in tutta la sfilata, ad avere la grinta necessaria a portare avanti una camminata su passerella. La vera plus size, dai tempi passati degli storici show in giro per il mondo, riesce a strappare un sorriso e un che di ammirazione. In forma smagliante, con un corpo proprio che va oltre i canoni estetici portati avanti dalla Heroin chic degli anni ’90, regala una performance che vale tutto lo show. 

Di fronte a questo cosa pensa il pubblico? A leggere i commenti americani nessuno aveva bisogno di questo show. A tratti sconnesso, poco entusiasmante, con artisti di un livello inferiore a ciò a cui eravamo abituati, lascia desiderare anche nel design delle ali e della lingerie. Lo sfondo della sfilata, senza alcun tipo di gioco di luci, colori, animazione, rende tutto piatto, statico, una performance che non coinvolge e soprattutto non convince. Le modelle, a tratti atletiche e dai fisici sani, portavoci di uno stile di vita fatto a favore del benessere, vengono mischiate a fisici decisamente scarni, poco salutari, o in certi casi troppo in carne, promuovendo ancora una volta una narrazione dell’eccesso. Non c’è via di mezzo. Troppo magre o troppo grasse. Viene da chiedersi dove siano finiti i modelli dell’antica Grecia: un corpo tonico -ognuno con le sue caratteristiche e peculiarità- portato al miglioramento perché ci si vuole bene e ci si prende cura di sé. 

Nel 2024 abbiamo davvero bisogno di questo messaggio impoverito, ancora una volta ai limiti? Non eravamo troppo magre allora e non siamo troppo grasse adesso

Forse l’inclusività non è abbracciare ogni eccesso come se fosse la normalità, mapromuovere uno stile di vita sano, uno stile di vita sportivo dove l’indulgenza di un cheeseburger o due va a braccetto con frutta e verdura, dove bere una bibita o una birra non significa abusarne, dove non c’è spazio per droghe, Ozempic, o due dita in gola, ma solo la buona volontà di fare qualcosa per sé stesse perché è molto più remunerativo e soddisfacente.

Nel complesso lo show regala momenti indimenticabili, soprattutto con le “veterane” di questa passerella, ma in ultimo rimane una mossa di marketing deludente e sotto le righe. 

Ci aspettiamo ancora una Adriana Lima che entra da una porta gigantesca con ali nere, Una Gisele vestita da regalo di Natale, Una Tyra che sulle note di Bang Bang di Nancy Sinatra popola l’immaginario femminile dell’erotismo e della sensualità, tutte cose ben lontane dal Victoria’s Secret Fashion Show 2024.

OZ: the revolution

La storia di Oz è una storia che abbraccia un decennio e che ha coinvolto personalità del mondo della musica, dell’arte e della letteratura underground.

Issue three: the Mona Lisa cover. Photograph: University of Wollongong Archives

Durante gli anni ’60 erano molte le riviste eclettiche che popolavano il panorama underground: Friends, The Oracle of Southern California, Wendingen e molte altre. Tra queste spiccava però la rivista “OZ”, nata dalle menti geniali di Richard Neville, caporedattore, Richard Walsh e Martin Sharp, il direttore artistico.

Ci troviamo nell’Australia del 1963, un paese benpensante in cui la mentalità alternativa e controcorrente rappresentava ancora un problema per la società.

In questo contesto rigido nasceva però un filone del dissenso, della provocazione e della satira: nasceva OZ.

The first issue of British OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Lo staff era composto principalmente da personaggi del mondo dell’arte e della letteratura quali Robert Hughes e Bob Ellis.

Il primo numero fu lanciato il giorno del pesce d’Aprile del 1963. Con un totale di sole 16 pagine e 6000 copie portava in copertina la notizia fasulla del crollo del The Sydney Harbour Bridge e al suo interno la storia della cintura di castità e un racconto veritiero sull’aborto (ancora illegale al tempo).

L’uscita del primo numero fece tale scalpore che il Daily Mirror cancellò il contratto con la rivista e minacciò di licenziamento Peter Grose, uno dei suoi dipendenti che collaborava con la rivista.

In quel primo anno OZ ricevette la sua prima denuncia per oscenità. Il direttore e i collaboratori si dichiararono colpevoli evitando la pena detentiva ma nel 1964 una seconda denuncia li costrinse ai lavori forzati.

I temi che avevano introdotto erano visti in maniera negativa. La censura, l’odio, il sesso, la brutalità della polizia, il razzismo, la guerra in Vietnam e la ridicolizzazione delle istituzioni rappresentavano una provocazione alla mentalità chiusa del tempo, che non voleva saperne di tutto ciò che la rivoluzione hippy stava portando alla luce.

Sharp e Neville decisero di partire nel 1966. La meta designata era Londra, dove le tematiche erano sentite maggiormente dai giovani e dove, grazie alla stampa offset, era possibile arricchire la rivista in bellezza.

La nuova versione inglese fu fondata quello stesso anno in uno scantinato di Notting Hill arredato con oggetti di culto e poster psichedelici. Tra i fondatori comparve anche Jim Anderson.

Richard Neville (left) and later editors, Felix Dennis, and Jim Anderson, at the close of the trial, 1971.  JONES/DAILY EXPRESS/GETTY IMAGES

Nel numero 11 della rivista vennero introdotti adesivi psichedelici rossi, verdi e gialli, nonché disegni alternativi e provocanti.

Il numero 16, chiamato Magic Theatre, pubblicato nel novembre 1968, era composto da sola grafica realizzata dalla mente di Sharp e Philippe Mora e venne definito “Il più grande successo della stampa alternativa britannica”.

La rivista raccolse consensi tra varie personalità, inclusi John Lennon e Yoko Ono nonché Mick Jagger e vi comparvero interviste di Pete Townsend, Jimmy Page e Andy Warhol.

Nel 1970 i fondatori decisero di fare un numero curato da bambini selezionati e venne chiamato Schoolkids OZ.

I bambini vennero prima interrogati sulle loro opinioni in educazione, politica e società, nonché su sesso, droga e rock ‘n’ roll.

Il numero 28, che vendette poche copie, presentava una parodia di sesso esplicito di Rupert The Bear, voluta proprio da uno dei piccoli scrittori e causò un dissenso tale da provocare il più grande scandalo per oscenità di tutta l’Inghilterra.

The teenage contributors to the 28th issue of OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Schoolkids OZ, numero 28, 1970.

A cropped section of the cover of the 28th issue of OZ magazine, which features blue women in the nude.

I tre principali autori vennero considerati i responsabili di tutto quanto fosse riportato in quel numero, sebbene fossero stati dei minorenni a scriverlo, e vennero accusati di oscenità e oltraggio al pudore, nonché cospirazione atta alla corruzione della morale pubblica, capi d’accusa che prevedevano il carcere.

L’opinione pubblica si spezzò. Alcuni credevano che la rivista provocasse una deviazione morale non indifferente e che il numero 28 in particolare potesse portare all’omosessualità i giovani e causare dei gravi problemi psicologici; altri, come Lennon e Ono, lo difesero a spada tratta, fino a registrare una canzone intitolata God Save OZ e poi cambiata in God Save Us per raccogliere fondi.

Il Times of London dichiarò di aver ricevuto più lettere sul processo che sulla crisi di Suez e un’effige del giudice venne bruciata davanti alle aule del tribunale in segno di protesta.

I tre furono scagionati dall’accusa di cospirazione, ma ritenuti responsabili di due reati minori per cui era previsto il carcere. Qui gli vennero tagliati i capelli lunghi, causando ulteriori proteste da parte della comunità underground e hippy della Swinging London.

Oz Obscenity Trial Invitation issued by editors of Oz Magazine, 1 October, 1971. © Victoria and Albert Museum, London

Nella storia orale di Jonathan Green, Neville dichiarò in merito alla nascita della rivista:

“I sensed there was a substratum of genuine irritation with the society. There was no access to rock ‘n’ roll, pirate radio had gone, women couldn’t get abortions. This again was something which seem like another piece of repressive puritical behavior that one wanted to fight”.

La passione di Neville però si stava spegnendo:

“Mi sembrò che stessi diventando sempre più propagandista, non più l’autore di una rivista che provava a offrire una piattaforma per scrittori e fumettisti.”

Alla revisione del processo i tre vennero rilasciati definitivamente.

La rivista chiuse i battenti nel 1973 con il numero 48. La causa ufficiale fu la bancarotta.

Gli scrittori e i collaboratori erano poco pagati- o per nulla- e non giravano molti soldi a causa dello scarso numero di copie vendute (circa 30000) anche se i lettori effettivi erano molti di più.

Dennis, uno dei collaboratori, ormai divenuto miliardario nel mondo editoriale, dichiarò riferendosi alla figura carismatica di Neville:

” No one else would avere have managed to get me working for nothing.”

La fine della rivista rappresentò la fine di un momento storico nato in seno agli anni ’60 e fortemente voluto dai giovani del tempo che non si rispecchiavano nelle visioni più conservative.

OZ, V&A archives

Diary of Felix Dennis for the period of 14 – 27 December, 1970 covering police raid on Oz offices. © Victoria and Albert Museum, London
Guest editors of Oz #28 – School Kids Issue, 1970. © Victoria and Albert Museum, London

Una frase rimase emblematica all’interno della rivista:

“TAKE THE PLUNGE! commit a revolutionary act. Subscribe to OZ”

Ad oggi è possibile trovare i numeri della rivista in questo archivio: https://ro.uow.edu.au/ozsydney/

Altri articoli sul tema: https://canal-mag.com/l-incredibile-oz-mitico-magazine-australiano/ https://www.atlasobscura.com/articles/oz-magazine-obscenity-trial https://www.anothermanmag.com/life-culture/9936/why-oz-was-the-most-controversial-magazine-of-the-1960s

https://www.messynessychic.com/2020/05/07/that-1960s-revolution-of-underground-press-is-still-alive-well/

The World of Tomorrow

Era il 1939 quando al Flushing Meadows-Corona Park nel Queens (NY) veniva organizzata la seconda fiera americana più cara di sempre, con un costo di oltre 67 milioni di dollari.

Ma facciamo un passo indietro.

Nel 1935, ancora in ballo nella Grande Depressione, diversi businessmen NewYorkesi decisero di fondare la New York World’s Fair Corporation, con uffici ai piani alti dell’Empire State Building.

Il presidente eletto fu Grover Whalen, politico e uomo di affari, e tra i partecipanti alla corporazione vi era anche il Sindaco Fiorello la Guardia che rimase in carica fino al ’46.

L’obiettivo di questi imprenditori e uomini d’affari era quello di portare una ventata di fresca economia a New York favorendo il commercio e lo scambio internazionale.

La Corporation decise quindi di inaugurare una fiera aprendo i cancelli il giorno del 150° anniversario dell’inaugurazione di George Washington come presidente degli Stati Uniti e chiamandola “The World of Tomorrow”.

Si trattava di un evento di portata stratosferica, il più importante in maniera indiscussa dalla prima guerra mondiale.

Il presidente Whalen aveva idee precise in merito alla tematica della fiera: i beni di consumo. Emblematica fu l’introduzione della televisione come oggetto ormai alla portata di tutti.

Per farsi pubblicità utilizzarono delle fasce disposte sul braccio sinistro degli atleti dei Brooklyn Dodgers, NY Giants e NY Yankees, oltre alla sponsorizzazione in giro per il mondo operata da Howard Hughes con il suo aereo.

L’apertura ufficiale fu fissata il 30 aprile 1939, una domenica nuvolosa. Solo il primo giorno arrivarono ai cancelli 206mila persone.

Diverse personalità presenziarono con discorsi di varia natura. Da Roosevelt ad Einstein, per passare a diverse star del cinema.

All’interno erano presenti diversi padiglioni provenienti da tutte le parti del mondo e dal design diverso e innovativo.

7 erano le zone tematiche, diverse architettonicamente, alcune costruite in maniera semicircolare attorno al centro realizzato da W. Harrison e M. Abramovitz che consisteva in due bianchi edifici chiamati Trylon e Perisphere ( all’interno di quest’ultimo vi era un modellino della città del futuro).

Il padiglione italiano, costato oltre 3 milioni, era caratterizzato da uno stile romano integrato con l’architettura più moderna. Una fontana alta 61 metri ne coronava l’entrata ed era dedicata a Guglielmo Marconi. Nella Hall of Nations il pavimento a mosaico circondava una statua della Lupa, madre di Romolo, tutt’intorno sulle pareti vi erano raffigurazioni dell’impero moderno realizzate in marmo nero e stucco romano bianco. Al centro della Hall troneggiava una statua in bronzo di Benito Mussolini realizzata da Romano Romanelli.

Il famoso ristorante italiano ospitato nel padiglione aveva invece l’aspetto di una lussuosa nave da crociera per mimare la tradizione italiana.

Tra gli altri luoghi di interesse c’era sicuramente la Westinghouse Time Capsule, destinata ad essere aperta solamente nel 6939 e contenente scritti di Einstein, Mann, copie di Life Magazine, un orologio di Mickey Mouse, un rasoio Gillette, un dollaro, un pacchetto di sigarette Camel, semi di varie specie tra cui cotone, soia, carota e tabacco e molto altro.

Nella Westinghouse era presente anche “Elektro the Moto Man”. Si trattava di un robot alto 2,1 metri in grado di parlare e fumare.

A sud della fiera c’era il World’s Fair Boulevard con l’area Amusement, decisamente la preferita dai visitatori. Qui potevano intrattenersi su montagne russe, attrazioni di varia natura come una torre da cui paracadutarsi e repliche di vari luoghi naturali come le Victoria Falls. In questa zona vi erano anche esibizioni di uccelli e animali rari, un orangotango addomesticato, tre elefanti performanti e la possibilità di fare dei brevi viaggi sul dorso dei cammelli.

Per intrattenere il pubblico venivano organizzati anche spettacoli esotici, con donne in topless o in costume.

Nella zona Acquacade venivano realizzati musical con giochi d’acqua e coreografie irriverenti al costo di 80 cent.

Ogni giorno all’interno della fiera era a tema. Per esempio il 3 Giugno 1940 fu il “Superman Day”, in cui si realizzò un Contest atletico e ci fu la presenza dello stesso Superman, probabilmente interpretato da Bud Collyer.

Tra istallazioni per il divertimento, ristoranti, padiglioni coronati da sculture e fontane di rara bellezza come “The Fountain of Atom” realizzata da Wayland Gregory in ceramica, padiglioni realizzati da Salvador Dali o altri personaggi di un certo spessore, un planetario e varie istallazioni artistiche, rimaneva poco spazio per la scienza e l’innovazione.

Alcune delle introduzioni che vennero fatte furono la luce fluorescente, il nylon, i set televisivi, una macchina futuristica, un temperino e poco altro.

Fortemente voluta per la classe media emergente e per superare le avversità della Grande Depressione, ospitò oltre 44 milioni di visitatori e durò da Aprile ad Ottobre 1939 e da Aprile a Ottobre del 1940.

Con un guadagno di soli 48 milioni di dollari di fronte alla spesa di oltre 67, chiuse ufficialmente i battenti il 27 Ottobre 1940 a causa della bancarotta.

Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
The General Motors Pavilion is a popular site at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The National Cash Register building shows the number of persons in attendance at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Wonder Bakery displays a wheat field exhibit at the 1939 World’s Fair. The model, Penelope Shoo, is wearing an outfit designed by Hattie Carnegie. The wheat field was billed as “the first planted in New York City since 1875.” (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Ford Cars Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
An aerial view of the 1939 World’s Fair shows the music hall advertising Hot Mikado with Bill Robinson. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)

Two women pose on a Kodak photo posing stand during the 1939 New York World’s Fair. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A statue decorates the entrance to the Maritime Transport and Commerce Pavilion at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The General Motors Pavilion is a popular site at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
General Motors displays a transparent car in the pavilion at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Glass Incorporated Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Aquacade Floor Show at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Ford Car Parts Display at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Tomas Bata exhibit, in the Czechoslovakian Pavilion, at the 1939 World’s Fair. Bata (1828-1932) was a Czech industrialist who founded a large shoe factory. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A model of New York as the “City of Light,” in the Consolidated Edison Pavilion, at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
“Futurama” model in the General Motors Pavailion at the 1939 New York World’s Fair. The exhibit was designed by Norman Bel Geddes. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Stuffed Moose in Canadian Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Lucky Strike Cigarettes and Wonderbread buildings are shown illuminated at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Electric Utilities Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Firestone Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The General Electric and Westinghouse pavilions are attractions at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A statue of a Pony Express carrier being ambushed by Native Americans, at the American Telephone and Telegraph Pavilion, at the 1939 World’s Fair. | Located in: American Telephone and Telegraph Pavilion. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Chrysler Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Time and the Fates of Man sculpture and the Perisphere, at the 1939 New York World’s Fair. | Detail of: ‘Time and the Fates of Man’ by Paul Manship. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A row of statues leads to the Perisphere and Trylon at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Lucky Strike Cigarettes, Wonder Bread Bakery, and Sheffield Farms buildings stand on part of the grounds of the 1939 New York World’s Fair. Peter Campbell / Corbis via Getty

The Life Savers Candy Parachute Jump. Adults paid 40 cents a trip; children paid 25 cents. After the fair, the ride was moved to Coney Island, where it operated on and off until the 1960s. Peter Campbell / Corbis via Getty

People visit the Trylon and Perisphere at the 1939 New York World’s Fair. Inside the Perisphere was a diorama of a futuristic utopian city named Democracity. After viewing, visitors would leave by descending a long spiral walkway named the Helicline.Peter Campbell / Corbis via Getty

Donne d’arte: la prosa di Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese.

Nata il 13 Giugno del 1914, Anna Maria Ortese trascorre la vita migrando da una città all’altra. La sua formazione scolastica è minima, senza picchi artistici, ma è la sua volontà di imparare da autodidatta che le permette di crescere artisticamente sin dalla tenera età.

Una vita difficile quella di Anna Maria, che subisce due lutti importanti in famiglia. La morte degli amati fratelli Emanuele nel ’33 e il gemello Antonio nel ’37, lascia in lei un profondo senso di tristezza e solitudine che alimenta la sua scrittura e plasma il suo carattere. 

Lei stessa arriva a dire “I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può davvero trovarsi”. Una porta aperta, una mano tesa per coloro che come lei sono stati toccati dalla potenza distruttiva dell’esistenza.

Nel ’37 pubblica la sua prima raccolta, “Angelici Dolori” che viene accolta in maniera divisiva.

Dal 1939 comincia a scrivere per diverse riviste come il Mattino, Il Messaggero e il Corriere della Sera affinando la sua abilità.  

È nel 1945 che inizia il suo sodalizio d’oro, non con un autore, bensì con una città di cui Ortese si innamora perdutamente e che comincia a descrivere nei suoi racconti come una casa ritrovata, un luogo che si esprime chiaramente nella sua confusione e che definisce eccezionale: Napoli. 

È proprio da questo rapporto viscerale che nasce “Il mare non bagna Napoli” che vince il premio speciale per la narrativa al Premio Viareggio del 1953. Una raccolta di racconti evocativi con protagonista la città dilaniata dal dopoguerra, in cui vivono ancora intellettuali e letterati che l’autrice ritrae nelle loro miserie e nelle loro gioie.

Questa raccolta la porta ad una rottura con le personalità di Napoli e a un successivo trasferimento al nord dove, nonostante tutto, non riesce mai a dimenticare la città amata.

Nel 1967 pubblica il romanzo “Poveri e Semplici” che vince il Premio Strega, un altro importante traguardo della sua carriera. Nel 1975 si trasferisce a Rapallo, luogo che ospiterà le sue spoglie mortali fino all’ultimo giorno della sua esistenza, il 9 marzo 1998.

La vita di Anna Maria è coronata dalla sofferenza, dallo sradicamento e dal bisogno di scrivere come modo per ritornare a casa. Una sorta di riparazione alla vita, all’essere in vita, che comporta un costo, un dispendio di una parte di noi che viene inevitabilmente persa negli eventi caotici che ci toccano. La sua arte abbraccia l’invisibile come parte del reale e si accosta al realismo magico, al surrealismo, senza però venirne definita appieno.

Ortese concretizza il suo apice artistico nella forma del racconto breve, con virgole frequenti; una scrittura moderna e metamorfica, in cui le metafore servono a comprendere il mondo e sé stessi in maniera profonda e a radicarsi in qualsiasi cosa ci possa offrire accoglienza. 

Come una sorta di rivoluzionaria Leopardi si immerge nel suo dolore ma lo tramuta, lo specchia nella struttura stessa della città di Napoli, una città che definisce grigia, ma intensa di colori, ricca e piena di contraddizioni.

Accostabile alla pittura di Thomas Jones, che ritrae Napoli usando proprio quel grigiume e quella pietra che Anna Maria ricalca nei suoi scritti, Ortese realizza un perfetto ritratto di Napoli, della donna come condizione sovversiva e di sé stessa come animo gentile, ma bestiale, che scava nel profondo della realtà per trovare una comunione con il cosmo intero.

La rivista risqué prima di Playboy

Prima delle pagine patinate di Playboy e dell’erotismo moderno esisteva una rivista dal fare peccaminoso, nata in Francia nel 1863.

Si chiamava la Vie Parisienne, la vita Parigina, quasi a voler offrire una finestra sulla realtà di questa bellissima città.

La rivista, pubblicata settimanalmente, continuò ad essere popolare e molto letta sino al 1970, anno in cui non venne più data alle stampe, dopo oltre un secolo di successo.

Nata inizialmente come un mix di diversi aspetti innovativi- dai racconti brevi al gossip e al fashion- nel 1905 prese una direzione totalmente diversa che la orientò su un panorama decisamente erotico per il tempo.

Le pagine peccaminose che ritraevano giovani donne in mise provocanti e seducenti erano viste di cattivo occhio dagli Americani più conservatori durante la I guerra mondiale, tanto che i soldati dell’esercito vennero invitati a non comprare più la rivista, per tutelare il loro spirito.

Elemento importante sono sicuramente le raffigurazioni artistiche realizzate per ciascun numero. Queste inglobano aspetti dell’art Nouveau e Deco ripercorrendo i movimenti artistici del tempo e colorando la scrittura di elementi satirici e intellettuali.

Numerosi scrittori parteciparono alla redazione della rivista, con pubblicazioni occasionali. Tra questi troviamo anche la celeberrima Colette che fu giornalista e scrittrice ed estremamente popolare nel mondo.

Ad oggi la rivista non è più realizzata, ma rimangono delle collezioni sparse per tutto il mondo dove è possibile ammirare i dettagli delle illustrazioni e gli interessi che animavano le persone di cent’anni fa.

Frank Lloyd Wright, pioniere dell’architettura organica

Frank Lloyd Wright è sicuramente uno degli esponenti più illustri dell’architettura organica americana.

Nato dopo la prima metà del 1800 da una famiglia abbiente di origini Inglesi e Gallesi, si sposta spesso in gioventù a causa del lavoro del padre. I genitori divorziano quando lui ha solo 18 anni e proprio grazie al cambiamento famigliare così importante si riscopre sempre più profondamente attratto dall’architettura.

Appassionato di arte giapponese, trascorre diversi anni della sua vita nello stesso Giappone dove si lascia influenzare e ispirare per le sue architetture innovative.

Fu un pioniere nell’ambito dell’architettura organica, movimento del XX secolo volto a unire in maniera serena e equilibrata l’aspetto architettonico realizzato dall’uomo e la natura circostante.

Questa innovativa corrente di pensiero si trovava in contrasto con il rigore accademico e i classicismi imposti dal secolo precedente. Wright voleva, al contrario, imbrigliare l’essenza delle sue opere in un connubio perfetto di armonia e di rispetto verso l’ambiente circostante. Anche l’arredamento e gli interni risultavano importanti in questa nuova filosofia. Tutto infatti era all’insegna dell’equilibrio per creare uno spazio armonico che non fosse “altro” dall’esterno.

Fece numerosi progetti, oltre 1000, e ne realizzò almeno la metà, in varie parti del mondo.

L’esempio più illustre della sua visione architettonica è sicuramente la casa sulla cascata, o casa Kaufmann.

Questa villa venne realizzata nel ’39 per Edgar J. Kaufmann, un commerciante molto ricco di Pittsburgh, sulle rive del ruscello Bear Run che scorreva liberamente nei boschi dell’ovest della Pennsylvania.

Particolarità della struttura è quella di collocarsi su vari piani sovrapposti che si integrano perfettamente con i cambiamenti naturali del corso d’acqua. Il richiamo alle rocce stratificate circostanti crea un effetto scenico impressionante, dovuto anche alla presenza di una cascata naturale che scorre, quasi letteralmente, attraverso la struttura.

Per la struttura Wright decise di usare del calcestruzzo color beige, in modo da fondere ancora di più l’ambiente architettonico con quello boschivo circostante.

La casa rimase una casa vacanze fino ai primi anni ’60 quando venne donata alla Wester Pennsylvania Conservancy che la fece diventare una casa museo aperta al pubblico e ancora totalmente arredata secondo la visione originaria del suo architetto.

Nel corso degli anni si sono resi necessari dei lavori di manutenzione della struttura, che risultava precaria, con inserimenti in acciaio per sostenere le varie deformazioni.

Nel 2019 è stata inserita nell’UNESCO, insieme ad altre opere con la stessa paternità.

La casa sulla cascata

La casa sulla cascata

Esempio Interno cucina realizzato da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Esempio di salotto ideato da F.L.W

Esempio di interno cucina realizzato da F.L.W per la casa del figlio

Casa realizzata da F.L.W

La star del cinema italiano ormai dimenticata

Il concetto di sex symbol è nato negli anni ’50 per connotare quelle donne con una bellezza travolgente, sensuale ed esotica.

Sotto questa categoria possiamo mettere personaggi che spaziano da Sofia Loren fino a Virna Lisi che con i loro sguardi ammiccanti e le movenze da diva hanno cambiato il panorama cinematografico italiano.

Così come la Loren e la Lisi c’era un’attrice di origini Cubane: Chelo Alonso.

Attrice e showgirl si fece notare come ballerina. Proprio grazie alla sua bravura venne reclutata tra le file de Le Folies Bergère a Parigi, nel 1957, dove danzava con movenze esotiche e lussureggianti. Venne paragonata alla famosissima Josephine Baker e rinominata “Cuban H bomb”.

Da qui si affacciò al mondo del cinema che la vide partecipare a diverse produzioni prevalentemente di avventura dove, piuttosto che al talento recitativo, si guardava all’esteriorità. Bellezza esotica, La Alonso era la scelta preferita di numerosi registi che cercavano una presenza femminile forte e sexy. Partecipò a “Il segno di Roma” del ’59, in cui “rubò”, per così dire, il ruolo di sex symbol alla più famosa Anita Ekberg e a numerose altre produzioni quali “Morgan il pirata” del 1960.

Ormai paladina del film italiano, sebbene non riconosciuta per il talento recitativo ma piuttosto per la forte presenza scenica, sposò Aldo Pomilia da cui ebbe un figlio.

Fece un cameo nel film di Clint Eastwood “Il buono, il brutto e il cattivo” del 1966 e continuò l’esperienza del cinema italiano fino al 1969, per poi dedicarsi prevalentemente alla televisione.

Con l’età abbandonò la recitazione per orientarsi su altre attività quali un hotel a quattro stelle.

Visse per la gran parte della sua vita in Italia, innamorata della nazione e delle sue bellezze.

Si spense nel 2019, a 85 anni.

Di lei ci rimane il ricordo di una bellezza fuori dal comune, quasi da principessa orientale e le danze sensuali che hanno fatto sognare un’intera generazione.

Case melodiose per artisti alternativi

Los Angeles, California.

Tra le fastose dimore di ricchi imprenditori e celebrità annoiate si trova una dimora che ha tutta l’aria di essere un piccolo gioiello destinato a vita eterna.

Costruita su ben 15 mila metri quadrati, con una piscina enorme che confonde il suo azzurro con quello del cielo, la casa ha un che di particolare che interessa i più curiosi fan del Grande Liberace.

Strutturata con stanze in stile barocco, affrescata come un paradiso in terra, piena di specchi e chincaglierie di ogni genere, ha la particolarità di avere pianoforti ovunque.

Non solo il celebre strumento per suonare melodie chopeniane, ma proprio pezzi di arredo marmorei ispirati alla struttura stessa del pianoforte… e una piscina piano.

Dettagli della stanza da letto di Liberace, in una delle sue famose case.

Stanza di una delle dimore di Liberace

Sì, può sembrare un’esagerazione ai più, ma cosa ci puoi davvero fare con oltre 110 milioni di patrimonio?

La casa è la famosa dimora dell’altrettanto famoso compositore, musicista, attore, showman che è conosciuto con il nome di Liberace.

Enfant prodige della musica- cominciò a 4 anni- ha costruito una solida carriera, facendo della professione di musicista una miniera d’oro.

Liberace, che di nome faceva Walter, cominciò a suonare con la Chicago Symphony Orchestra a soli 20 anni.

La sua arte inizialmente consisteva nel suonare le grandi composizioni classiche. Annoiato dalla monotonia di queste ultime cominciò ben presto a inserire del Pop all’interno del suo repertorio, mixando a suo piacere quelle che erano tradizioni musicali diverse, creando un meraviglioso assetto melodico che incantava il pubblico.

Fu anche la sua abilità di disegnatore di abiti a farlo emergere.

Realizzava infatti costumi di scena elaboratissimi, cosparsi di diamanti e di bottoni d’oro che servivano a valorizzarlo sul palco insieme ad anelli grossi come un dito intero.

Anche la sua nuova concezione di spettacolo lo portò al successo.

Intratteneva gli spettatori e parlava con loro, chiedendo cosa preferissero che suonasse, dando piccole lezioni e esempi di virtuosismo e lasciandosi addirittura abbracciare e baciare dalle fan ammaliate dal suo talento.

Il suo stile eclettico, barocco, prontato sull’immagine di una grande superstar si riflette nelle sue numerose dimore, sparse tra Los Angeles e Las Vegas.

Per un tour completo:

Hedy, il genio più bello del mondo

Hedy Lamarr è principalmente nota per la sua carriera cinematografica.

Negli anni ’40 realizzò centinaia di produzioni come protagonista assoluta, insieme alla sua bellezza esotica che stupiva e incantava lo spettatore.

Pseudonimo di Hedwig Eva Maria Kiesler, Hedy, crebbe in Austria dove si affacciò al mondo della recitazione sin dai 16 anni.

La sua più famosa recitazione rimarrà quella nel film “Estasi” del 1932, che la vide impegnata in una scena di nudo quasi integrale che destò moltissimo scalpore e bloccò la circolazione del film per diversi anni.

La Lamarr disse di non essere a conoscenza della scena stessa che doveva svolgersi in un fiume e che fu principalmente il regista che la sollecitò ad esporsi in quanto sotto contratto.

Hedy non rimase sicuramente felice della scelta, ma tuttavia si mostrava molto naturale nei confronti dell’aspetto amoroso-sessuale e non fu mai restia a mostrarsi o a celebrare questo aspetto della vita umana.

Ebrea di nascita, fu costretta a fuggire su un transatlantico verso l’America quando le cose in Europa cominciarono a diventare difficili.

Durante la seconda guerra mondiale, pur recitando in diverse produzioni, rimase molto ancorata alle sue capacità logiche che in passato l’avevano vista cominciare la facoltà di ingegneria all’università e le avevano conferito l’appellativo di “genio”.

Hedy infatti aveva un quoziente intellettivo estremamente alto e veniva considerata una promessa della scienza oltre che bellissima.

Fu proprio grazie alle sue capacità analitiche e alla sua perspicacia che nel 1941 depositò il brevetto n. 2.292.387 per aiutare durante la guerra che stava imperversando in tutta Europa.

La sua idea era basata principalmente su nozioni apprese autonomamente e sui discorsi che aveva potuto sentire in casa del primo marito, Fritz Mandl, armiere, che l’aveva abbandonata nel ’38, facendo sciogliere il matrimonio per motivi razziali.

Il brevetto che depositò insieme all’amico George Antheil, compositore di avanguardia vicino al movimento surrealista, venne bocciato dalla marina militare e considerato inutilizzabile per i fini bellici.

Questo prevedeva la possibilità di un salto di frequenza per contrastare i segnali radio dei nemici.

Inutile dire che l’invenzione si rivelò utile in seguito: nel ’62 la sua idea venne utilizzata sulle navi impegnate nel Blocco di Cuba.

Nel 1985 il suo brevetto finalmente venne riconosciuto meritevole, anche con premi in denaro e riconoscimenti pubblici, uno dei quali fu l’istituzione del “giorno degli inventori” in Austria, Svizzera e Germania, il 9 Novembre, giorno del suo compleanno.

La sua vita fu difficile. Come disse lei la sua bellezza e il suo sex-appeal la fecero sfondare nel mondo del cinema, ma in ultimo, come ogni attrice del periodo, fu sottoposta a diete ferree per il controllo dell’aspetto e all’assunzione di droghe pesanti per poter sostenere gli estenuanti ritmi di lavoro sui set.

Fu considerata per gran parte della sua vita una sciocca attrice, priva di vero talento, propensa solo a mostrarsi nuda di fronte alla moralità imperante del tempo.

In realtà fu un’inventrice brillante, una lettrice accanita, sia di opere letterario-artistiche che di materiale tecnico, e fu sicuramente una grande personalità sullo schermo.

Morì nel 2000 di un infarto, lasciando un ricordo indelebile per coloro che hanno avuto il privilegio di vederla dal vivo o assaporare le sue considerazioni in merito ad ogni aspetto della vita.

JLG, stella polare del cinema del ‘900

Addio Jean-Luc.

Si è spento tramite suicidio assistito, un grande regista del cinema del novecento.

Non fu, in verità solo un regista.

Cominciò la sua carriera come un critico di cinema, appassionato sì, ma molto radicale nelle sue idee.

Da lì prese la strada dei cortometraggi e fu solamente nel 1959 che sperimentò con i lungometraggi con l’opera “Fino all’ultimo respiro”, capostipite che diede il via all’era Godardiana.

Esponente illustrissimo della “Nouvelle Vague”, termine coniato nel ’57, cominciò a porre l’accento su un cinema differente, opposto al classico “cinema di papà” che al tempo andava di moda.

Il senso delle opere non era più attorno all’attore o alla scenografia, bensì attorno al regista stesso che, come uno scrittore, apre le pagine del proprio diario interiore per realizzare qualcosa di personale ed intimo, oltre ogni aspettativa.

Nascono quindi nuovi modi di girare e realizzare questi piccoli capolavori.

Diventa importante l’elemento della luce, non più accentuata da proiettori, ma solamente dalla sua essenza naturale, che permette di creare familiarità con i personaggi nonchè vivo realismo. I protagonisti sono di solito amici o conoscenti e le ambientazioni usate sono gli appartamenti e le case dei vari partecipanti, andando ancora una volta a scardinare le imposizioni del cinema del tempo. Anche le vie e le traverse rappresentano un terreno fertile per la cinepresa che mira ad estrarre dalla realtà ogni goccia di ispirazione, volendo portare alla luce dello spettatore lo “splendore del vero”.

Abbraccerà le idee Marxiste che riproporrà nel cinema, arrivando anche allo sperimentalismo con il gruppo “DZIGA VERTOV” che prevedeva la realizzazione di opere collettive in cui perde importanza il protagonismo del singolo per assumerne, invece, la collettività.

Fu, fino al suo ultimo respiro, una pietra miliare di quella sottile ed eversiva arte celebre ai cineasti di tutto il mondo.

Godard vinse il leone d’oro nel 1984 e l’Oscar alla carriera nel 2011, due grandi manifestazioni di riconoscimento del suo talento.