La stilista visionaria che ha cambiato il mondo della moda

Madeleine Vionnet nacque nel 1876 e già dall’età di 11 anni cominciò il lavoro di sarta che le avrebbe garantito un futuro brillante.

Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi divenendo Première solo due anni dopo. Nel frattempo si era sposata e aveva avuto una figlia. Infelice del risultato ottenuto e per niente adatta alla vita classica e convenzionale di madre di famiglia, partì per l’Inghilterra dove divorziò dal marito. La bimba morì in un incidente solo un mese dopo l’arrivo a Londra. Qui intraprese diversi lavori che la videro impegnata sempre nel mondo del cucito, finché tornò a Parigi con l’inizio del nuovo secolo.

Al tempo si stava sviluppando una nuova corrente di pensiero che proponeva una riforma dell’abbigliamento femminile in favore di un modello ispirato all’abito alla greca. Le donne cominciavano a stancarsi degli stretti corsetti e delle imposizioni pompose che fino ad allora avevano regnato in tutta Europa.

Nello stesso periodo inoltre, una giovane ballerina e artista di nome Isadora Duncan cominciava a danzare a piedi scalzi indossando una tunica che le permetteva movimenti ampi. La riforma stava cominciando ad espandersi e anche se non sappiamo con certezza quanto influì sullo stile di Vionnet, sappiamo che ne fu in qualche modo pilastro portante.

A Parigi lavorò per diverse case di moda e nel 1907 realizzò una collezione di abiti innovativi, ispirati alle performance della stessa Duncan.

Propose un nuovo modello di abito femminile privo del famoso busto, commentando:

“Io stessa non ero mai stata capace di sopportare corsetti, quindi perché mai avrei dovuto infliggerli alle altre donne?”

ed escogitando nuove tendenze che di lì a poco divennero chic e in voga.

Nel 1912 aprì il suo primo atelier dove potè di fatto coronare le sue idee e realizzare abiti innovativi e moderni e al tempo stesso comodi e pratici.

Finanziata da Germaine Lillaz, Madeleine fu protagonista assoluta di una storia di donne, per le donne, per la loro cultura, la loro creatività e la loro bellezza. L’emancipazione che realizzò grazie a Madame Lillaz, fu un punto cardine della sua filosofia di moda e di vita, anticipando quella che sarebbe diventata ben presto una rivoluzione sociale a tutti gli effetti.

Non abbiamo molte informazioni in merito ai modelli dei primi anni della maison, sappiamo solo che l’ispirazione del tempo era il kimono orientale che affascinava le giovani donne e sembrava pratico e confortevole non solo per passare le giornate in casa, ma anche per uscire all’aria aperta.

Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale che la vide costretta a chiudere l’atelier e rifugiarsi a Roma, aprì una nuova società.

Da questa nuova avventura, cominciata dopo lunghi e tormentati anni di battaglia e morte, nacque una delle innovazioni più moderne e popolari del secolo: l’abito in sbieco.

Negli anni ’20, quando gli uomini erano impegnati sul fronte bellico, le donne avevano preso parte alla vita sociale e collettiva in maniera diversa. Per la prima volta avevano avuto la possibilità di lavorare, di aiutare e di diventare più emancipate che mai. Curare feriti, guidare automobili, fabbricare munizioni richiedeva un abbigliamento pratico e comodo, nulla a che vedere con quanto si indossava in passato. I corsetti vennero nascosti negli armadi, lontani dalla vista, le gonne si accorciarono abbandonando la loro lunghezza plateale in favore della praticità, i capelli si portavano ora corti per potersi dedicare ad altro, mettendo in secondo piano la seduzione e la bellezza.

Dove Chanel aveva proposto un modello maschile, Vionnet rimase fedele allo sguardo femminile che apprezzava tanto.

Ritornò all’abito mediterraneo, su ispirazione Greca, lavorando il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in modo che potesse seguirle e abbracciarle in maniera autonoma.

Il primo modello fu composto da quattro quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. Quattro cuciture tenevano insieme il tutto e una cintura annodata in vita rappresentava l’accessorio finale. Il risultato era una sorta di chitone greco con una caduta semplice e nuova che aderiva al corpo.

Madeleine Vionnet, abito da sera, 1918-19. A destra abito da sera, inverno 1920, Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La robe “quatre mouchoirs” è confezionata in crêpe di seta avorio

Il taglio in sbieco che cominciò da qui ad utilizzare prevede che la stoffa venga usata in obliquo invece che secondo il senso della tessitura (drittofilo).

Madeleine Vionnet, abito da sera, in “Vogue France”, ottobre 1935, foto Horst P. Horst

Anche se Vionnet negò sempre la maternità dell’invenzione che di fatto era già utilizzata nell’ottocento per realizzare colletti e cuffie, fu la prima stilista ad utilizzarlo per la realizzazione di abiti interi.

Altro elemento che utilizzò moltissimo fu quello geometrico, la chiave fondamentale della sua idea creativa.

Le figure geometriche che utilizzò nel taglio garantivano un effetto mai visto prima, portando gli abiti ad avere una complessità straordinaria (per certi versi quasi impossibile da comprendere) e una fantasia minimale che sfociava in leggi matematiche precise.

Madeleine Vionnet, abito da sera

Una delle particolarità della filosofia di Vionnet fu quella di utilizzare un manichino per la realizzazione dei vestiti e solo in seguito creare uno schizzo dell’abito. In questo modo e lavorando in maniera privata in una stanza separata, riusciva a creare abiti che si adattassero perfettamente al corpo, lasciandolo libero di muoversi e creando anche una sfarzosità minimal che viene ricercata anche al giorno d’oggi.

Madeleine Vionnet al lavoro sul suo manichino

Famosissime furono le realizzazioni delle sue rose, realizzate utilizzando precisione e ripetizione, in maniera meccanica, per renderle tutte uguali e il più possibile verosimili ai fiori.

Madeleine Vionnet, cappa da sera con rose, 1921 Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La fotografia si trova in uno degli album di copyright della Maison Vionnet

Negli anni ’30 il metodo Vionnet divenne famoso anche oltreoceano, dove venne valorizzato dalle dive Hollywoodiane che indossavano ora abiti a sirena realizzati proprio attraverso il taglio in sbieco. Questo modello classico serviva a far emergere tutta la potenza seduttrice del corpo della diva rendendo però facile la recitazione.

Sempre negli stessi anni introdusse anche la gonna ampia, un nuovo modello che piacque moltissimo a Hollywood che la incorporò insieme allo sbieco e alla forma a sirena. I tessuti che vennero utilizzati erano estremamente delicati e decorativi. Il crêpe Rosalba di Bianchini-Férier, il crêpe Romain o quello broccato aux tonneaux di Ducherne divennero il simbolo della maison.

Madeleine Vionnet, abito da sera, estate 1938 New York, The Metropolitan Museum of Art. Il modello, di Crêpe di seta avorio, è ricamato ad applicazione di frange in tinta che formano un disegno a festoni

La popolarità di Vionnet rimane tale anche per la sua personalità vivace e distante dalla mentalità del tempo. Un’innovatrice a tutti gli effetti fu anche portavoce dello stare bene con sé stesse e andò contro le imposizioni dietetiche che ancora oggi son presenti.

Come disse in una celebre frase:

“In fondo, non ho avuto che una cosa da soddisfare nella mia vita, la mia indipendenza”.

Madeleine morì all’età di 99 anni e rimane un faro per la moda internazionale e una grandissima voce innovativa per la società.

Ertè, tra illustrazioni, scenografie ed arte

Romain de Tirtoff nacque il 23 novembre 1892 a San Pietroburgo.

Interessato sin da piccolo al mondo patinato e glamour della moda e dell’arte, nel 1912 si trasferì in Francia per poter affinare la sua dote naturale. Fu illustratore, costumista, scenografo e creatore di spettacoli visivi in Francia a partire dall’inizio del XX secolo.

La particolarità della visione di Ertè, nome d’arte ricavato dalla pronuncia delle iniziali del nome e del cognome, era quella di abbracciare sia il vestiario sia gli accessori, per poi orientarli nel mondo dell’opera, del balletto e delle produzioni drammatiche di vario genere e calibro.

Nel 1912 a Parigi conobbe un altro celebre stilista. Poiret lo fece lavorare presso il suo atelier dove disegnò diversi abiti per la clientela altolocata.

Tra il 1916 e il 1937 lavorò per Harper’s Bazaar dove realizzò stupende copertine in stile art decò.

Fu anche un grandissimo costumista per il teatro francese, realizzando abiti di notevole pregio e bellezza per le Folies Bergère e in particolare modo per Joséphine Baker. Questo sodalizio con il teatro durò più di dieci anni e diede frutti molto positivi.

Anche oltreoceano, nella grande America, cominciò ad essere conosciuto e richiesto, arrivando a lavorare nella creazione di costumi per le Ziegfeld Follies e per George White’s Scandals.

L’ispirazione per le sue creazioni veniva dal mondo preraffaellita, dal floreale e soprattutto dallo sguardo attento verso l’art decò.

Nelle sue illustrazioni si possono trovare donne dalle forme longilinee che emanano un’aura di glamour e stile, rendendole dive e protagoniste della rappresentazione.

Interessante fu anche la realizzazione di un’illustrazione “alfabeto” in cui ogni donna, vestita con abiti specificatamente realizzati dalla sua sapiente penna, mimavano le lettere dell’alfabeto.

Su di lui si fecero numerose mostre retrospettive, colorando di popolarità quella che era stata la sua arte per certi versi messa da parte, che ritorno presto in auge e presa come spunto per altri stilisti e artisti del periodo successivo.

La poesia innovativa ed esotica di Paul Poiret

Siamo agli inizi del Novecento, quando la Haute Couture rappresentava il modello di punta della moda parigina e interessava tutte le donne di buon gusto. Uscire di casa era un’occasione per mettere in mostra stoffe e gioielli e per ricordare ai propri simili lo status sociale di appartenenza.

Paul Poiret, figlio di un commerciante di tessuti, aveva manifestato sin dalla tenera età, una forte propensione per il disegno. Finite le scuole andò a lavorare presso un negozio di ombrelli, lavoro noioso e poco creativo, che però gli diede la spinta necessaria a mettere su carta delle toilettes di fantasia. Vendendole alle case di moda riuscì a mettersi da parte qualche soldo per arrotondare finché non gli fu proposto un contratto in esclusiva per la maison Doucet, nel 1898.

Adibito alla sezione del taglio, la sua creatività che sfociava spesso nella teatralità, lo incanalò verso la realizzazione di preziosi costumi di scena per le attrici in voga al tempo.

Il suo primo lavoro importante fu un mantello di taffettà nero, dipinto da Billotey con grandi Iris Mauve e bianchi e ricoperto di tulle creato per Réjane. Ad esso seguirono svariati lavori per Mistinguett e Ida Rubistein.

Nel 1901 cominciò a lavorare per Worth, grande casa di moda che però stava perdendo vigore di fronte ai cambiamenti apportati al vestiario. Il compito di Paul era quello di rendere innovativa l’immagine della maison apportando modifiche più giovanili e sbarazzine, tipiche del nuovo secolo di promesse e buone intenzioni.

Il cambiamento si rivelò arduo; le clienti erano ancora troppo affezionate allo stile pomposo portato avanti dalla maison e difficilmente si lasciavano condizionare dallo stile eclettico che Poiret voleva introdurre. L’unico abito che si concretizzò diventando un successo fu l’abito “Byzantine”, completamente ricamato in oro e argento, con uno strascico bordato di zibellino, fu indossato in occasione di un matrimonio mondano ed ebbe l’effetto di mettere in secondo piano la sposa.

Nel 1903 Poiret aprì la sua prima maison al 5 di Rue Auber. La particolarità di questo negozio situato dietro l’Opéra fu quella di avere delle vetrine dotate di esposizioni spettacolari, talmente belle da diventare famose presso tutta la città.

Vetrina della Maison Poiret. 5 Rue Auber in “Le Figaro Modes”, febbraio 1904

La sua moda diventò presto famosa e ricercatissima: linee semplice e innovazione erano le parole chiave di questa nuova prospettiva fondata sulla morbidezza piuttosto che sulla compostezza del passato. Celebre fu il modello a “Kimono” che diventò un’istanza nella Parigi del tempo. Si stava infatti diffondendo un forte senso di esotismo che piaceva molto alle donne occidentali.

Nel 1906 spostò l’atelier al 37 di Rue Pasquier dove organizzò la struttura in reparti specializzati. In quest’ottica innovativa sperimentò per la prima volta gli abiti senza busto che fino ad allora avevano costretto il corpo femminile nella famosa linea ad S. Il primo abito, senza corsetto, fu denominato “Lola Montes” ed indossato da Denise, sua moglie, in occasione del battesimo della loro primogenita. C’è da dire che in realtà Poiret non cancellò del tutto il corsetto, piuttosto lo riadattò in modo da mettere in risalto la naturale bellezza femminile semplificandone l’aspetto.

Si interessò anche al periodo neoclassico realizzando abiti in tessuti innovativi con stoffe che guardavano alla pittura d’avanguardia europea, in particolare modo ai fauves come Matisse e Derain. Importante fu anche l’uso dei colori che al tempo erano tenui e poco vivaci. Poiret introdusse il rosso, il verde e molti altri, per dare più espressione all’anemia del tempo. Il modello chiave della collezione fu l’abito “Joséphine” su ispirazione del modello Impero ed insieme ad esso propose abiti di ispirazione esotica guardando principalmente al Giappone e alla Cina.

Nel 1908 si concretizzò un sodalizio vitale per la moda di Poiret: venne pubblicato un album intitolato “Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe”, contenente dieci tavole a colori e pubblicato in un numero ridotto di 150 copie. Qui si potevano osservare i modelli della maison ed oltre a ciò comprenderne a fondo anche lo spirito artistico. Le donne erano ritratte alte e sottili, senza forme in vista, con i capelli corti avvolti da un nastro colorato. Importante in questi anni fu anche l’attenzione rivolta ai Ballets Russes che cominciarono a diffondersi a macchia d’olio a Parigi.

Paul Iribe per Paul Poiret.

Accanto alla naturale propensione per la creazione di abiti meravigliosi, Poiret si interessò anche ai profumi e all’arredamento, allargando ulteriormente la maison fino a farla diventare un marchio vero e proprio connotato da eleganza e stile.

Durante gli anni della prima guerra mondiale la casa di moda subì delle ingenti perdite che non furono mai del tutto risanate. Quando lo stilista riuscì a ripartire con le sue creazioni, le idee che trasmetteva non risultavano più coerenti con lo spirito del tempo e la stessa clientela che un tempo lo aveva preso come riferimento ora lo metteva da parte in funzione di qualcosa di più moderno e innovativo. Fu così che la maison chiuse i battenti lasciando solamente il ricordo della sfarzosità e insieme semplicità che era riuscita a creare nel corso degli anni del suo splendore.

Paul Poiret, modello “Linzeler”, 1919.

La casa del vero espresso italiano

In un angolo dimenticato tra Vallejo Street e Grant Avenue perdura un luogo magico e poetico che ha animato intere generazioni.

Il Caffè Trieste nacque quando Giovanni Giotta, conosciuto come Papa Gianni, decise di portare la tradizione italiana del caffè nella fiorente Little Italy di San Francisco.

Papa Gianni, immigrato italiano, arrivò in America alla ricerca di nuove possibilità e lavoro. Qui si scontrò con le difficoltà dettate dal nuovo contesto e con la diversa mentalità che a tratti cozzava con il suo spirito italiano.

Incuriosito da nuove prospettive lavorative, prese un locale di modeste dimensioni chiamato Piccola Cafe e lo modernizzò per dare vita al Caffè Trieste.

La sua idea era quella di importare caffè direttamente dall’Italia, cosa che negli anni ’50 non si faceva ancora, per poter ricreare il vero espresso italiano che mancava in quei luoghi.

Così facendo aprì le porte ad un fiorente business che perdura ancora oggi e fa del caffè il centro propulsore della sua economia.

Il celebre locale diventò famoso subito dopo la sua apertura. Dapprima gli Italiani emigrati furono richiamati dall’aroma speziato che proveniva da quel bar alternativo; dopo di loro seguirono gli americani, curiosi di provare qualcosa di forte che non fosse il classico caffè solubile che conoscevano.

In pochi anni il luogo divenne un centro di incontro per svariate personalità. Scrittori, pittori, poeti e fotografi si sedevano ai tavoli per poter discutere di argomenti colti e portare avanti i loro lavori artistici indisturbati. Tra di loro vi erano personalità fisse come Ferlinghetti, Kerouac, Ginsberg, ma anche lo stesso Coppola che, a quanto si dice, terminò parte della sceneggiatura del “Padrino” comodamente seduto a sorseggiare la sua bevanda.

Ad oggi il bar è ancora meta dei personaggi alternativi che abitano l’intorno di Vallejo Street e di qualche curioso turista appassionato ai luoghi di nicchia.

Il locale è piccolo e arredato esattamente come lo era negli anni ’50. Il bancone, vecchio e consumato, ricorda molto la povertà con cui si scontrarono i primi emigrati.

Alle pareti è possibile osservare un colorato mosaico di fotografie. Tra di esse spuntano volti noti, come Bocelli, e altri meno noti. Il tutto è arricchito da un’aura di malinconia e mistero, celata sotto un velo perenne di polvere e odore di tabacco e caffè.

La bellezza dimenticata dei festival Delfici

Sotto il sole caldo e intenso, tra l’odore di ulivi e salsedine, mentre il vento accarezza le fronde degli alberi e muove i ciuffi scuri delle chiome ricce, si svolgevano i Δελφικέσ Εορτέσ.

I festival Delfici che prendono il nome dalla celebre cittadina famosa per il suo oracolo, La pizia, furono voluti da Angelos Sikelianos e dalla moglie Eva Palmer, nel lontano 1927.

Il sito archeologico di questa importante città vanta infatti una delle più belle strutture antiche di tutta la Grecia ed è proprio in onore di questa antichità che i due coniugi vollero dar vita alle rovine passate mediante giorni di festa, musiche, danze e tragedie.

A metà maggio di quell’anno venne messa in scena la tragedia del Prometeo Incatenato, opera di Eschilo, facendo accorrere masse di turisti incuriositi dalla bellezza architettonica e dalla cultura antica che nasceva da ogni roccia.

Maschere, costumi, voci echeggiarono nel teatro come nel tempo che fu, animando i cuori e suggellando un ritorno di notevole grandezza.

Lo scopo era riportare in auge i tempi d’oro di Delfi e far conoscere al pubblico la profonda arte che veniva trasmessa in questi luoghi sacri.

E mentre il coro intonava il peana ad Apollo, si poteva guardare uno dei tramonti più belli di tutto il Peloponneso, sentendosi parte di un mondo tanto lontano quanto misterioso, meraviglioso e fragile che ha fondato l’intero assetto della civiltà moderna.

Georgia O’Keeffe

“Dove sono nata e dove ho vissuto non ha importanza. è quello che ho fatto con i luoghi dove sono stata che dovrebbe essere interessante”.

Con queste parole, dette decine di anni fa, si presentava una grande artista, pilastro del modernismo Americano: Georgia O’Keeffe.

Inutile quindi dilungarsi sulla sua storia personale. Nacque e crebbe in una fattoria nel Wisconsin e già da bambina, con la tenera e squillante voce che solo i bambini possiedono, ha deciso di diventare artista.

“Che tipo di artista?” le fu chiesto; lei non seppe rispondere. Si divertiva a disegnare con gli acquerelli e a fare i classici giochi che i bambini fanno, non aveva idea di che tipo di artista avrebbe voluto essere, se non che avrebbe voluto essere un’artista.

Nel 1905 frequentò la scuola d’arte di Chicago e nel 1908 incontrò il suo futuro marito Alfred Stieglitz. Lui aveva una sala d’esposizione a New York, la famosa galleria 291, e fu grazie a lui che conobbe l’arte di Rodin, di cui rimase colpita e affascinata.

Nel suo primo periodo artistico, attorno agli anni ’10, Georgia usava ancora l’acquerello per le sue rappresentazioni pittoriche. Negli anni ’20 cominciò invece a sperimentare con i colori ad olio, a cui rimarrà fedele per tutto il suo percorso artistico.

Hibiscus with Plumeria, Georgia O’Keeffe 1939

Il mondo dell’arte del tempo era fatto principalmente da figure maschili, erano loro che dettavano le regole del gusto in fatto di pittura. Questo poteva creare una frizione verso i lavori delle donne del tempo, considerati di serie b. Georgia fu criticata da questi per l’uso troppo vivace dei colori o per le sue scelte pittoriche, ma lei, donna coraggiosa ed eversiva, dipingeva colori ancor più vivaci e portava avanti i suoi soggetti a testa alta.

In merito ad alcune sue opere sui fiori- ne realizzò molte- disse:

” Io vi ho chiesto di prendere del tempo per guardare quello che vedevo e quando voi ci avete messo del tempo a osservare davvero il mio fiore, avete appiccicato tutte le vostre associazioni con i fiori al mio fiore e adesso scrivete del mio fiore come se io pensassi e vedessi quello che voi pensate e vedete- e non è così”.

Blue Morning Glories, Georgia O’Keeffe, 1935

Music, Pink and Blue, Georgia O’Keeffe
Lake George, Georgia O’Keeffe, 1922

Da donna forte la O’Keeffe rigettava l’idea dell’interpretazione troppo frivola e complessa che la critica spesso le rivolgeva. il suo spirito pittorico si manifestava nel voler rappresentare ciò che trovava interessante e meraviglioso. Ed era straordinariamente brava nel farlo.

Per questo motivo si trasferì permanentemente nel Nuovo Messico nel 1949 a seguito della morte del marito. In questo periodo cominciò a dipingere il paesaggio o a ricalcare con il colore l’aspetto architettonico della sua casa o degli edifici religiosi del luogo. I soggetti erano dunque diversi, si staccava dal sogno americano portandone tuttavia dei barlumi all’interno delle sue opere. In questo periodo era solita fare lunghe camminate sulle montagne e tra i deserti della regione, raccogliendo sassi od ossa di animali per poi rappresentarli a suo modo sulla tela.

Ram’s Head, White Hollyhock-Hills, Georgia O’Keeffe, 1935

Deer’s Skull with Pedernal, Georgia O’Keeffe, 1936

Morì negli anni 80, dopo aver trascorso tutta la sua vita al servizio della pittura. Prima di morire le fu conferita la medaglia nazionale delle Arti dal presidente Reagan in persona.

Fu una delle pittrici più prolifiche e affascinanti della storia americana, portavoce di una filosofia innovativa e testimonianza di quello che la meraviglia dell’arte riesce a creare.

La moda poliedrica della Swinging London

Nella fervente Londra degli anni ’60 i sogni e le possibilità sembrano un terreno sconfinato da esplorare. Tra la musica dei Beatles e i nuovi interessi dei giovani, spicca la nuova moda introdotta da Mary Quant.

Mary Quant

Mary nasce in un quartiere di Londra, a Blackheat, in una giornata fredda del 1934. I genitori sono tranquilli insegnanti e desiderano per la figlia la stessa sicurezza e tranquillità dettata dalle loro professioni.

Mary però ha un altro sogno, un sogno innovativo che cavalcherà grazie all’amicizia- divenuta poi amore- con l’aristocratico Alexander Plunket Greene.

Il suo percorso incomincia nel 1953 quando, fresca di diploma di arte, decide di vivere una vita alla bohéme con il suo compagno. Mangiano quando trovano del cibo e si vestono come desiderano, provocando e sfidando il sistema ancora troppo concentrato su una moda standard.

Nel ’55 Alexander eredita una certa somma di denaro che gli permette di acquistare una casa a Chelsea, con un annesso piccolo spazio che i due decidono di utilizzare come negozio.

Mary non è una sarta, si sbizzarrisce con le sue idee grazie ai corsi serali di cucito e comprando quotidianamente nuovo tessuto e materiali da poter usare nelle sue creazioni. A dispetto della laboriosità e stranezza del suo stile, i giovani la accolgono entusiasti. Ben presto il negozio diventa il centro propulsore della nuova moda inglese, per coloro che come Mary sono stanchi della silhouette del passato e vogliono spaziare di più.

La vetrina del negozio invita i giovani ad entrare non esponendo tutti i modelli presenti che si scoprono solo una volta varcate le soglie di questo piccolo paradiso. All’interno splendono i colori- il rosso, il prugna e il Ginger- e l’esperienza stessa dello shopping è totalmente cambiata: ci sono free drink per le clienti, l’orario di apertura è allungato e viene riprodotta della musica.

Per una giovane del tempo gli anni ’60 rappresentavano la possibilità concreta di rivendicazione e cambiamento in ogni ambito, specialmente in quello dei look. Risulta facile capire come l’innovazione portata dalla Quant, che rispondeva ad un preciso bisogno della gioventù, sia diventata immediatamente popolare e ricercatissima, al punto tale che a seguito del primo “Bazaar” – così si chiamava la boutique- ne aprì un’altra e da lì si fece spazio all’interno del mondo della moda con cosmetici, scarpe e design di interni.

Da una piccola avventura in cui si misuravano i guadagni giornalieri che servivano a comprare nuove stoffe per nuovi abiti da esporre il giorno dopo, è passata, nel giro di pochi anni, ad attività fiorente e meccanizzata.

Mary Quant, Victoria and Albert museum. Sulla sinistra bozzetto, sulla destra abito con gonna ad A, late ’50s.

Le idee che porta sono sempre nuove. Per esempio l’uso dell’effetto “bagnato” sui vestiti o l’uso del PVC per creare i suoi famosi “weatherproof boots”. Per essere cool a Londra dovevi avere almeno un capo firmato Mary Quant.

I suoi vestiti con una linea larga, ad A, corti fino al ginocchio e di fantasie moderne facevano furore tra le giovani, diventando sempre più ricercati dopo che Twiggy, una parrucchiera Londinese trasformatasi in modella, li indossò per la prima volta.

Twiggy, 1960s

Esposizione di Mary Quant al Victoria and Albert museum, mostra retrospettiva. Abiti effetto bagnato.

Alcuni studiosi attribuiscono alla Quant l’invenzione della minigonna, anche se non ci sono delle evidenze circa la sua effettiva maternità. In particolare modo lo stilista André Courrèges disse di essere lui stesso il padre del famoso capo e probabilmente fu così.

La Quant diventò cavaliere della corona, un’onorificenza attribuita solo ai più grandi del loro genere, e ottenne una stella nella Walk of Fame.

Al Victoria and Albert museum è possibile vedere delle esposizioni su questa straordinaria stilista e vedere le innovazioni che ha sapientemente cucito nella società Londinese della Swinging London.

Cult di fantascienza: BARBARELLA

Ricordando i favolosi sixties e le avventure cinematografiche che hanno portato, ci viene in mente subito l’iconico Barbarella.

Film di fantascienza con protagonista una frizzante e bellissima Jane Fonda, si ispira al fumetto omonimo di Jean-Cloude Forest che mixa più o meno sapientemente avventura, erotismo e comicità.

La trama è piuttosto semplice.

Barbarella è una giovane eroina e viaggiatrice dello spazio che deve risolvere la misteriosa sparizione dello scienziato Durand Durand.

I famosi titoli di testa, poi censurati, venivano proiettati sulle parti scoperte della giovane protagonista che posava nuda in assenza di gravità. Questo era uno degli elementi erotici, soft-porn, che animavano la commedia.

In effetti la protagonista assecondava la sua performance di “Regina della Galassia” con ammiccamenti e doppi sensi esuberanti in un connubio che non tutti potevano trovare divertente.

Cover Image from the March 29,1968, Issue of LIFE: Jane Fonda in the title role of the movie, Barbarella. Ph by Carlo Bavagnoli

Il ruolo fu inizialmente offerto a Virna Lisi, per poi passare alla Bardot e alla Loren che rifiutarono proprio per gli elementi erotici alquanto spinti della trama.

Infine Jane Fonda accettò, su consiglio del marito che ne era anche il regista.

Il film incassò i favori del pubblico e della critica diventando un vero e proprio cult nel corso dei decenni.

Importantissimi furono anche i costumi, ispirati dall’arte di Paco Rabanne, che avevano cenni futuristici e rimangono tutt’ora elementi iconici della cultura pop, avendo consacrato definitivamente l’attrice a sex symbol dell’universo intero..

Jane Fonda as Barbarella in the “excessive machine”

Jane Fonda and her husband, the director Roger Vadim, on the set of Barbarella, 1968.

Jane Fonda in una fotografia promozionale per Barbarella

Jane Fonda nell’iconico costume verde della “Queen of the Galaxy”

Jane Fonda in uno scatto promozionale di Barbarella

La pittrice musa del cubismo

Lydia Corbett era conosciuta con il nome d’arte di Sylvette David.

Originaria di Parigi e figlia di due pittori crebbe sull’isola di Ile du Levant, sulla costa meridionale francese. 

Nell’anno 1953 mentre era fuori con le amiche conobbe un famoso pittore nel suo atelier di Rue de Fournas a Vallauris. Il pittore in questione aveva il nome di Picasso. 

In effetti L’artista aveva già realizzato una piccola opera con protagonista la fanciulla, a memoria, tecnica che spesso utilizzava, e ne aveva esposto la copia in bella vista. Sylvette vide il ritratto e “fu come un invito” a conoscere il pittore. Incantato dall’incontro con la 19enne, le propose di posare per lui per diverse opere.

Da quel fatidico momento nacque un sodalizio artistico che vide la David diventare la musa ufficiale dell’artista spagnolo.

by Andrè Villers

Mentre Picasso era concentrato nella scomposizione della bellezza quasi nordica della David, lei sedeva su una rocking chair per ore e fu in quel momento che cominciò a dipingere.

Inizialmente era solo per passare il tempo, per combattere la noia dei lunghi pomeriggi all’atelier. Quando invecchiò cominciò invece a considerarsi una vera artista, con una certa capacità e un certo stile, e cominciò a esporre le sue opere in varie gallerie. L’influenza dello spagnolo fu sicuramente fondamentale per la sua esperienza artistica che nacque proprio da quel ricco e fertile studio ricolmo di tele.

Sylvette con Picasso
Sylvette in posa con Picasso

Il periodo che vede la musa al centro delle opere cubiste viene deniminato Ponytail Period, per via dell’acconciatura a coda di cavallo che Sylvette portava sempre. 

Come disse lei in un’intervista, lo fece per il padre che le aveva confessato di aver visto l’acconciatura in un dramma greco a Parigi e di essersene innamorato. 

Sylvette nell’atelier di Picasso

Non fu in effetti solo musa di Picasso. Il suo portamento e stile vennero imitati da moltissime ragazze nel corso del tempo e si dice che anche Brigitte Bardot si ispirò a lei.

Sylvette aveva incontrato la Bardot lungo la Croisette di Cannes. Come riportò in un’intervista per la sua biografia “I was Sylvette”, la Bardot al tempo era castana e dopo averla vista si tinse di biondo. Provò anche a fare da musa a Picasso ma egli la rifiutò perché lo stile era troppo simile all’originalità della sua musa.

Sylvette e Picasso

Alcuni si chiedono se lei e Picasso furono amanti. Come dichiarò lei, al tempo era fidanzata e tra i due non successe mai nulla. La David lo identificava come la figura paterna che nella vita reale le mancava e sottolineò in diverse interviste come fosse restia ad essere vista come ragazza sensuale, abbracciando di più la sua naturale ingenuità e fanciullezza.

Come disse Christoph Grunenberg alla BBC nel 2014, “poiché Picasso non la conquistò, aveva bisogno di conquistarla sulle tele, sulla carta e in scultura” conservando comunque uno sguardo artistico verso la giovane e mai dettato da un impulso sessuale o sentimentale.

Ad oggi la David è un’artista e ceramista stimata e affermata, avendo affinato lo stile delle sue opere nel corso degli anni. 

Cercando il suo nome su google ci si può collegare al suo sito dove sono acquistabili diverse opere e corsi di pittura tenuti da lei.

Fishes in the Lillies, Sylvette David

My vision now, Sylvette David.

Blue blue blue Honesty, Sylvette David, 2001

La bellezza surreale nell’arte di Harry Clarke

Harry Clarke, originario dell’Irlanda, fu un disegnatore molto prolifico che visse a cavallo tra l’800 e il ‘900.

Figlio di un artista impegnato nella decorazione di vetrate, anch’egli si interessò ben presto a questa particolare branca artistica imparando nuove tecniche sempre più raffinate per creare lavori di assoluta bellezza.

L’influenza principale della sua vena artistica fu sicuramente l’art Nouveau che si può individuare in molte delle sue opere.

Fu anche illustratore di libri e pubblicò nel 1916 il suo primo libro.

Si trattava di diverse illustrazioni delle favole di Hans C. Andersen. Questo includeva 16 tavole realizzate a colori e 24 in bianco e nero. L’opera più importante, però, fu sicuramente la realizzazione di un libro illustrato per “Tales of Mistery and Imagination” di Edgar Allan Poe, nel 1919. Molti artisti prima di lui avevano provato a cimentarsi in questa difficile e delicata opera, invano.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, mostrano dei dettagli spiazzanti e linee precise, meticolose, fino al limite dell’ossessione. I personaggi sono vibranti di emozioni e vivi nel loro essere, con una profondità di espressione difficile da realizzare.

Dopo quest’avventura, che vide diverse pubblicazioni e rifiniture alle tavole, acquistò un certo prestigio come illustratore, facendosi spazio tra i grandi di questo mondo artistico.

Importanti e di straordinaria bellezza sono anche le sue vetrate caratterizzate da disegni fini e precisi e dall’uso sapiente e ricco del colore. Generalmente queste trattano soggetti religiosi di varia natura e sono destinate a cattedrali e chiese.

Morì a causa della salute cagionevole che gli aveva procurato una grave tubercolosi nel 1931 lasciando un vastissimo patrimonio ancora oggi visibile in diverse parti della Gran Bretagna.