La casa del vero espresso italiano

In un angolo dimenticato tra Vallejo Street e Grant Avenue perdura un luogo magico e poetico che ha animato intere generazioni.

Il Caffè Trieste nacque quando Giovanni Giotta, conosciuto come Papa Gianni, decise di portare la tradizione italiana del caffè nella fiorente Little Italy di San Francisco.

Papa Gianni, immigrato italiano, arrivò in America alla ricerca di nuove possibilità e lavoro. Qui si scontrò con le difficoltà dettate dal nuovo contesto e con la diversa mentalità che a tratti cozzava con il suo spirito italiano.

Incuriosito da nuove prospettive lavorative, prese un locale di modeste dimensioni chiamato Piccola Cafe e lo modernizzò per dare vita al Caffè Trieste.

La sua idea era quella di importare caffè direttamente dall’Italia, cosa che negli anni ’50 non si faceva ancora, per poter ricreare il vero espresso italiano che mancava in quei luoghi.

Così facendo aprì le porte ad un fiorente business che perdura ancora oggi e fa del caffè il centro propulsore della sua economia.

Il celebre locale diventò famoso subito dopo la sua apertura. Dapprima gli Italiani emigrati furono richiamati dall’aroma speziato che proveniva da quel bar alternativo; dopo di loro seguirono gli americani, curiosi di provare qualcosa di forte che non fosse il classico caffè solubile che conoscevano.

In pochi anni il luogo divenne un centro di incontro per svariate personalità. Scrittori, pittori, poeti e fotografi si sedevano ai tavoli per poter discutere di argomenti colti e portare avanti i loro lavori artistici indisturbati. Tra di loro vi erano personalità fisse come Ferlinghetti, Kerouac, Ginsberg, ma anche lo stesso Coppola che, a quanto si dice, terminò parte della sceneggiatura del “Padrino” comodamente seduto a sorseggiare la sua bevanda.

Ad oggi il bar è ancora meta dei personaggi alternativi che abitano l’intorno di Vallejo Street e di qualche curioso turista appassionato ai luoghi di nicchia.

Il locale è piccolo e arredato esattamente come lo era negli anni ’50. Il bancone, vecchio e consumato, ricorda molto la povertà con cui si scontrarono i primi emigrati.

Alle pareti è possibile osservare un colorato mosaico di fotografie. Tra di esse spuntano volti noti, come Bocelli, e altri meno noti. Il tutto è arricchito da un’aura di malinconia e mistero, celata sotto un velo perenne di polvere e odore di tabacco e caffè.

La bellezza dimenticata dei festival Delfici

Sotto il sole caldo e intenso, tra l’odore di ulivi e salsedine, mentre il vento accarezza le fronde degli alberi e muove i ciuffi scuri delle chiome ricce, si svolgevano i Δελφικέσ Εορτέσ.

I festival Delfici che prendono il nome dalla celebre cittadina famosa per il suo oracolo, La pizia, furono voluti da Angelos Sikelianos e dalla moglie Eva Palmer, nel lontano 1927.

Il sito archeologico di questa importante città vanta infatti una delle più belle strutture antiche di tutta la Grecia ed è proprio in onore di questa antichità che i due coniugi vollero dar vita alle rovine passate mediante giorni di festa, musiche, danze e tragedie.

A metà maggio di quell’anno venne messa in scena la tragedia del Prometeo Incatenato, opera di Eschilo, facendo accorrere masse di turisti incuriositi dalla bellezza architettonica e dalla cultura antica che nasceva da ogni roccia.

Maschere, costumi, voci echeggiarono nel teatro come nel tempo che fu, animando i cuori e suggellando un ritorno di notevole grandezza.

Lo scopo era riportare in auge i tempi d’oro di Delfi e far conoscere al pubblico la profonda arte che veniva trasmessa in questi luoghi sacri.

E mentre il coro intonava il peana ad Apollo, si poteva guardare uno dei tramonti più belli di tutto il Peloponneso, sentendosi parte di un mondo tanto lontano quanto misterioso, meraviglioso e fragile che ha fondato l’intero assetto della civiltà moderna.

Georgia O’Keeffe

“Dove sono nata e dove ho vissuto non ha importanza. è quello che ho fatto con i luoghi dove sono stata che dovrebbe essere interessante”.

Con queste parole, dette decine di anni fa, si presentava una grande artista, pilastro del modernismo Americano: Georgia O’Keeffe.

Inutile quindi dilungarsi sulla sua storia personale. Nacque e crebbe in una fattoria nel Wisconsin e già da bambina, con la tenera e squillante voce che solo i bambini possiedono, ha deciso di diventare artista.

“Che tipo di artista?” le fu chiesto; lei non seppe rispondere. Si divertiva a disegnare con gli acquerelli e a fare i classici giochi che i bambini fanno, non aveva idea di che tipo di artista avrebbe voluto essere, se non che avrebbe voluto essere un’artista.

Nel 1905 frequentò la scuola d’arte di Chicago e nel 1908 incontrò il suo futuro marito Alfred Stieglitz. Lui aveva una sala d’esposizione a New York, la famosa galleria 291, e fu grazie a lui che conobbe l’arte di Rodin, di cui rimase colpita e affascinata.

Nel suo primo periodo artistico, attorno agli anni ’10, Georgia usava ancora l’acquerello per le sue rappresentazioni pittoriche. Negli anni ’20 cominciò invece a sperimentare con i colori ad olio, a cui rimarrà fedele per tutto il suo percorso artistico.

Hibiscus with Plumeria, Georgia O’Keeffe 1939

Il mondo dell’arte del tempo era fatto principalmente da figure maschili, erano loro che dettavano le regole del gusto in fatto di pittura. Questo poteva creare una frizione verso i lavori delle donne del tempo, considerati di serie b. Georgia fu criticata da questi per l’uso troppo vivace dei colori o per le sue scelte pittoriche, ma lei, donna coraggiosa ed eversiva, dipingeva colori ancor più vivaci e portava avanti i suoi soggetti a testa alta.

In merito ad alcune sue opere sui fiori- ne realizzò molte- disse:

” Io vi ho chiesto di prendere del tempo per guardare quello che vedevo e quando voi ci avete messo del tempo a osservare davvero il mio fiore, avete appiccicato tutte le vostre associazioni con i fiori al mio fiore e adesso scrivete del mio fiore come se io pensassi e vedessi quello che voi pensate e vedete- e non è così”.

Blue Morning Glories, Georgia O’Keeffe, 1935

Music, Pink and Blue, Georgia O’Keeffe
Lake George, Georgia O’Keeffe, 1922

Da donna forte la O’Keeffe rigettava l’idea dell’interpretazione troppo frivola e complessa che la critica spesso le rivolgeva. il suo spirito pittorico si manifestava nel voler rappresentare ciò che trovava interessante e meraviglioso. Ed era straordinariamente brava nel farlo.

Per questo motivo si trasferì permanentemente nel Nuovo Messico nel 1949 a seguito della morte del marito. In questo periodo cominciò a dipingere il paesaggio o a ricalcare con il colore l’aspetto architettonico della sua casa o degli edifici religiosi del luogo. I soggetti erano dunque diversi, si staccava dal sogno americano portandone tuttavia dei barlumi all’interno delle sue opere. In questo periodo era solita fare lunghe camminate sulle montagne e tra i deserti della regione, raccogliendo sassi od ossa di animali per poi rappresentarli a suo modo sulla tela.

Ram’s Head, White Hollyhock-Hills, Georgia O’Keeffe, 1935

Deer’s Skull with Pedernal, Georgia O’Keeffe, 1936

Morì negli anni 80, dopo aver trascorso tutta la sua vita al servizio della pittura. Prima di morire le fu conferita la medaglia nazionale delle Arti dal presidente Reagan in persona.

Fu una delle pittrici più prolifiche e affascinanti della storia americana, portavoce di una filosofia innovativa e testimonianza di quello che la meraviglia dell’arte riesce a creare.

La moda poliedrica della Swinging London

Nella fervente Londra degli anni ’60 i sogni e le possibilità sembrano un terreno sconfinato da esplorare. Tra la musica dei Beatles e i nuovi interessi dei giovani, spicca la nuova moda introdotta da Mary Quant.

Mary Quant

Mary nasce in un quartiere di Londra, a Blackheat, in una giornata fredda del 1934. I genitori sono tranquilli insegnanti e desiderano per la figlia la stessa sicurezza e tranquillità dettata dalle loro professioni.

Mary però ha un altro sogno, un sogno innovativo che cavalcherà grazie all’amicizia- divenuta poi amore- con l’aristocratico Alexander Plunket Greene.

Il suo percorso incomincia nel 1953 quando, fresca di diploma di arte, decide di vivere una vita alla bohéme con il suo compagno. Mangiano quando trovano del cibo e si vestono come desiderano, provocando e sfidando il sistema ancora troppo concentrato su una moda standard.

Nel ’55 Alexander eredita una certa somma di denaro che gli permette di acquistare una casa a Chelsea, con un annesso piccolo spazio che i due decidono di utilizzare come negozio.

Mary non è una sarta, si sbizzarrisce con le sue idee grazie ai corsi serali di cucito e comprando quotidianamente nuovo tessuto e materiali da poter usare nelle sue creazioni. A dispetto della laboriosità e stranezza del suo stile, i giovani la accolgono entusiasti. Ben presto il negozio diventa il centro propulsore della nuova moda inglese, per coloro che come Mary sono stanchi della silhouette del passato e vogliono spaziare di più.

La vetrina del negozio invita i giovani ad entrare non esponendo tutti i modelli presenti che si scoprono solo una volta varcate le soglie di questo piccolo paradiso. All’interno splendono i colori- il rosso, il prugna e il Ginger- e l’esperienza stessa dello shopping è totalmente cambiata: ci sono free drink per le clienti, l’orario di apertura è allungato e viene riprodotta della musica.

Per una giovane del tempo gli anni ’60 rappresentavano la possibilità concreta di rivendicazione e cambiamento in ogni ambito, specialmente in quello dei look. Risulta facile capire come l’innovazione portata dalla Quant, che rispondeva ad un preciso bisogno della gioventù, sia diventata immediatamente popolare e ricercatissima, al punto tale che a seguito del primo “Bazaar” – così si chiamava la boutique- ne aprì un’altra e da lì si fece spazio all’interno del mondo della moda con cosmetici, scarpe e design di interni.

Da una piccola avventura in cui si misuravano i guadagni giornalieri che servivano a comprare nuove stoffe per nuovi abiti da esporre il giorno dopo, è passata, nel giro di pochi anni, ad attività fiorente e meccanizzata.

Mary Quant, Victoria and Albert museum. Sulla sinistra bozzetto, sulla destra abito con gonna ad A, late ’50s.

Le idee che porta sono sempre nuove. Per esempio l’uso dell’effetto “bagnato” sui vestiti o l’uso del PVC per creare i suoi famosi “weatherproof boots”. Per essere cool a Londra dovevi avere almeno un capo firmato Mary Quant.

I suoi vestiti con una linea larga, ad A, corti fino al ginocchio e di fantasie moderne facevano furore tra le giovani, diventando sempre più ricercati dopo che Twiggy, una parrucchiera Londinese trasformatasi in modella, li indossò per la prima volta.

Twiggy, 1960s

Esposizione di Mary Quant al Victoria and Albert museum, mostra retrospettiva. Abiti effetto bagnato.

Alcuni studiosi attribuiscono alla Quant l’invenzione della minigonna, anche se non ci sono delle evidenze circa la sua effettiva maternità. In particolare modo lo stilista André Courrèges disse di essere lui stesso il padre del famoso capo e probabilmente fu così.

La Quant diventò cavaliere della corona, un’onorificenza attribuita solo ai più grandi del loro genere, e ottenne una stella nella Walk of Fame.

Al Victoria and Albert museum è possibile vedere delle esposizioni su questa straordinaria stilista e vedere le innovazioni che ha sapientemente cucito nella società Londinese della Swinging London.

Cult di fantascienza: BARBARELLA

Ricordando i favolosi sixties e le avventure cinematografiche che hanno portato, ci viene in mente subito l’iconico Barbarella.

Film di fantascienza con protagonista una frizzante e bellissima Jane Fonda, si ispira al fumetto omonimo di Jean-Cloude Forest che mixa più o meno sapientemente avventura, erotismo e comicità.

La trama è piuttosto semplice.

Barbarella è una giovane eroina e viaggiatrice dello spazio che deve risolvere la misteriosa sparizione dello scienziato Durand Durand.

I famosi titoli di testa, poi censurati, venivano proiettati sulle parti scoperte della giovane protagonista che posava nuda in assenza di gravità. Questo era uno degli elementi erotici, soft-porn, che animavano la commedia.

In effetti la protagonista assecondava la sua performance di “Regina della Galassia” con ammiccamenti e doppi sensi esuberanti in un connubio che non tutti potevano trovare divertente.

Cover Image from the March 29,1968, Issue of LIFE: Jane Fonda in the title role of the movie, Barbarella. Ph by Carlo Bavagnoli

Il ruolo fu inizialmente offerto a Virna Lisi, per poi passare alla Bardot e alla Loren che rifiutarono proprio per gli elementi erotici alquanto spinti della trama.

Infine Jane Fonda accettò, su consiglio del marito che ne era anche il regista.

Il film incassò i favori del pubblico e della critica diventando un vero e proprio cult nel corso dei decenni.

Importantissimi furono anche i costumi, ispirati dall’arte di Paco Rabanne, che avevano cenni futuristici e rimangono tutt’ora elementi iconici della cultura pop, avendo consacrato definitivamente l’attrice a sex symbol dell’universo intero..

Jane Fonda as Barbarella in the “excessive machine”

Jane Fonda and her husband, the director Roger Vadim, on the set of Barbarella, 1968.

Jane Fonda in una fotografia promozionale per Barbarella

Jane Fonda nell’iconico costume verde della “Queen of the Galaxy”

Jane Fonda in uno scatto promozionale di Barbarella

La pittrice musa del cubismo

Lydia Corbett era conosciuta con il nome d’arte di Sylvette David.

Originaria di Parigi e figlia di due pittori crebbe sull’isola di Ile du Levant, sulla costa meridionale francese. 

Nell’anno 1953 mentre era fuori con le amiche conobbe un famoso pittore nel suo atelier di Rue de Fournas a Vallauris. Il pittore in questione aveva il nome di Picasso. 

In effetti L’artista aveva già realizzato una piccola opera con protagonista la fanciulla, a memoria, tecnica che spesso utilizzava, e ne aveva esposto la copia in bella vista. Sylvette vide il ritratto e “fu come un invito” a conoscere il pittore. Incantato dall’incontro con la 19enne, le propose di posare per lui per diverse opere.

Da quel fatidico momento nacque un sodalizio artistico che vide la David diventare la musa ufficiale dell’artista spagnolo.

by Andrè Villers

Mentre Picasso era concentrato nella scomposizione della bellezza quasi nordica della David, lei sedeva su una rocking chair per ore e fu in quel momento che cominciò a dipingere.

Inizialmente era solo per passare il tempo, per combattere la noia dei lunghi pomeriggi all’atelier. Quando invecchiò cominciò invece a considerarsi una vera artista, con una certa capacità e un certo stile, e cominciò a esporre le sue opere in varie gallerie. L’influenza dello spagnolo fu sicuramente fondamentale per la sua esperienza artistica che nacque proprio da quel ricco e fertile studio ricolmo di tele.

Sylvette con Picasso
Sylvette in posa con Picasso

Il periodo che vede la musa al centro delle opere cubiste viene deniminato Ponytail Period, per via dell’acconciatura a coda di cavallo che Sylvette portava sempre. 

Come disse lei in un’intervista, lo fece per il padre che le aveva confessato di aver visto l’acconciatura in un dramma greco a Parigi e di essersene innamorato. 

Sylvette nell’atelier di Picasso

Non fu in effetti solo musa di Picasso. Il suo portamento e stile vennero imitati da moltissime ragazze nel corso del tempo e si dice che anche Brigitte Bardot si ispirò a lei.

Sylvette aveva incontrato la Bardot lungo la Croisette di Cannes. Come riportò in un’intervista per la sua biografia “I was Sylvette”, la Bardot al tempo era castana e dopo averla vista si tinse di biondo. Provò anche a fare da musa a Picasso ma egli la rifiutò perché lo stile era troppo simile all’originalità della sua musa.

Sylvette e Picasso

Alcuni si chiedono se lei e Picasso furono amanti. Come dichiarò lei, al tempo era fidanzata e tra i due non successe mai nulla. La David lo identificava come la figura paterna che nella vita reale le mancava e sottolineò in diverse interviste come fosse restia ad essere vista come ragazza sensuale, abbracciando di più la sua naturale ingenuità e fanciullezza.

Come disse Christoph Grunenberg alla BBC nel 2014, “poiché Picasso non la conquistò, aveva bisogno di conquistarla sulle tele, sulla carta e in scultura” conservando comunque uno sguardo artistico verso la giovane e mai dettato da un impulso sessuale o sentimentale.

Ad oggi la David è un’artista e ceramista stimata e affermata, avendo affinato lo stile delle sue opere nel corso degli anni. 

Cercando il suo nome su google ci si può collegare al suo sito dove sono acquistabili diverse opere e corsi di pittura tenuti da lei.

Fishes in the Lillies, Sylvette David

My vision now, Sylvette David.

Blue blue blue Honesty, Sylvette David, 2001

La bellezza surreale nell’arte di Harry Clarke

Harry Clarke, originario dell’Irlanda, fu un disegnatore molto prolifico che visse a cavallo tra l’800 e il ‘900.

Figlio di un artista impegnato nella decorazione di vetrate, anch’egli si interessò ben presto a questa particolare branca artistica imparando nuove tecniche sempre più raffinate per creare lavori di assoluta bellezza.

L’influenza principale della sua vena artistica fu sicuramente l’art Nouveau che si può individuare in molte delle sue opere.

Fu anche illustratore di libri e pubblicò nel 1916 il suo primo libro.

Si trattava di diverse illustrazioni delle favole di Hans C. Andersen. Questo includeva 16 tavole realizzate a colori e 24 in bianco e nero. L’opera più importante, però, fu sicuramente la realizzazione di un libro illustrato per “Tales of Mistery and Imagination” di Edgar Allan Poe, nel 1919. Molti artisti prima di lui avevano provato a cimentarsi in questa difficile e delicata opera, invano.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, mostrano dei dettagli spiazzanti e linee precise, meticolose, fino al limite dell’ossessione. I personaggi sono vibranti di emozioni e vivi nel loro essere, con una profondità di espressione difficile da realizzare.

Dopo quest’avventura, che vide diverse pubblicazioni e rifiniture alle tavole, acquistò un certo prestigio come illustratore, facendosi spazio tra i grandi di questo mondo artistico.

Importanti e di straordinaria bellezza sono anche le sue vetrate caratterizzate da disegni fini e precisi e dall’uso sapiente e ricco del colore. Generalmente queste trattano soggetti religiosi di varia natura e sono destinate a cattedrali e chiese.

Morì a causa della salute cagionevole che gli aveva procurato una grave tubercolosi nel 1931 lasciando un vastissimo patrimonio ancora oggi visibile in diverse parti della Gran Bretagna.

La rivista risqué prima di Playboy

Prima delle pagine patinate di Playboy e dell’erotismo moderno esisteva una rivista dal fare peccaminoso, nata in Francia nel 1863.

Si chiamava la Vie Parisienne, la vita Parigina, quasi a voler offrire una finestra sulla realtà di questa bellissima città.

La rivista, pubblicata settimanalmente, continuò ad essere popolare e molto letta sino al 1970, anno in cui non venne più data alle stampe, dopo oltre un secolo di successo.

Nata inizialmente come un mix di diversi aspetti innovativi- dai racconti brevi al gossip e al fashion- nel 1905 prese una direzione totalmente diversa che la orientò su un panorama decisamente erotico per il tempo.

Le pagine peccaminose che ritraevano giovani donne in mise provocanti e seducenti erano viste di cattivo occhio dagli Americani più conservatori durante la I guerra mondiale, tanto che i soldati dell’esercito vennero invitati a non comprare più la rivista, per tutelare il loro spirito.

Elemento importante sono sicuramente le raffigurazioni artistiche realizzate per ciascun numero. Queste inglobano aspetti dell’art Nouveau e Deco ripercorrendo i movimenti artistici del tempo e colorando la scrittura di elementi satirici e intellettuali.

Numerosi scrittori parteciparono alla redazione della rivista, con pubblicazioni occasionali. Tra questi troviamo anche la celeberrima Colette che fu giornalista e scrittrice ed estremamente popolare nel mondo.

Ad oggi la rivista non è più realizzata, ma rimangono delle collezioni sparse per tutto il mondo dove è possibile ammirare i dettagli delle illustrazioni e gli interessi che animavano le persone di cent’anni fa.

Frank Lloyd Wright, pioniere dell’architettura organica

Frank Lloyd Wright è sicuramente uno degli esponenti più illustri dell’architettura organica americana.

Nato dopo la prima metà del 1800 da una famiglia abbiente di origini Inglesi e Gallesi, si sposta spesso in gioventù a causa del lavoro del padre. I genitori divorziano quando lui ha solo 18 anni e proprio grazie al cambiamento famigliare così importante si riscopre sempre più profondamente attratto dall’architettura.

Appassionato di arte giapponese, trascorre diversi anni della sua vita nello stesso Giappone dove si lascia influenzare e ispirare per le sue architetture innovative.

Fu un pioniere nell’ambito dell’architettura organica, movimento del XX secolo volto a unire in maniera serena e equilibrata l’aspetto architettonico realizzato dall’uomo e la natura circostante.

Questa innovativa corrente di pensiero si trovava in contrasto con il rigore accademico e i classicismi imposti dal secolo precedente. Wright voleva, al contrario, imbrigliare l’essenza delle sue opere in un connubio perfetto di armonia e di rispetto verso l’ambiente circostante. Anche l’arredamento e gli interni risultavano importanti in questa nuova filosofia. Tutto infatti era all’insegna dell’equilibrio per creare uno spazio armonico che non fosse “altro” dall’esterno.

Fece numerosi progetti, oltre 1000, e ne realizzò almeno la metà, in varie parti del mondo.

L’esempio più illustre della sua visione architettonica è sicuramente la casa sulla cascata, o casa Kaufmann.

Questa villa venne realizzata nel ’39 per Edgar J. Kaufmann, un commerciante molto ricco di Pittsburgh, sulle rive del ruscello Bear Run che scorreva liberamente nei boschi dell’ovest della Pennsylvania.

Particolarità della struttura è quella di collocarsi su vari piani sovrapposti che si integrano perfettamente con i cambiamenti naturali del corso d’acqua. Il richiamo alle rocce stratificate circostanti crea un effetto scenico impressionante, dovuto anche alla presenza di una cascata naturale che scorre, quasi letteralmente, attraverso la struttura.

Per la struttura Wright decise di usare del calcestruzzo color beige, in modo da fondere ancora di più l’ambiente architettonico con quello boschivo circostante.

La casa rimase una casa vacanze fino ai primi anni ’60 quando venne donata alla Wester Pennsylvania Conservancy che la fece diventare una casa museo aperta al pubblico e ancora totalmente arredata secondo la visione originaria del suo architetto.

Nel corso degli anni si sono resi necessari dei lavori di manutenzione della struttura, che risultava precaria, con inserimenti in acciaio per sostenere le varie deformazioni.

Nel 2019 è stata inserita nell’UNESCO, insieme ad altre opere con la stessa paternità.

La casa sulla cascata

La casa sulla cascata

Esempio Interno cucina realizzato da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Esempio di salotto ideato da F.L.W

Esempio di interno cucina realizzato da F.L.W per la casa del figlio

Casa realizzata da F.L.W

Il diario dello scandalo

Amore, sesso, incesti e storie lussuriose, condite di crudele realismo e a volte di sfrenato umorismo. Tra le infinite pagine, i sei libri, sono racchiuse vicende, impressioni, personaggi e artisti di altri tempi.

“Questo diario è il mio Kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio. È la mia droga e il mio vizio. Invece di scrivere un romanzo, mi sdraio con questo libro e una penna e indulgo in rifrazioni e diffrazioni”

Queste sono le parole che identificano e definiscono le pagine scritte nell’arco di una vita intera da Anaïs Nin.

Nata non lontano da Parigi nel 1908, Anaïs incontra ben presto l’arte della scrittura quando, abbandonata dal padre, intraprende un lungo viaggio verso la grande America ricca di opportunità.

Durante la traversata scrive con meticolosa puntigliosità i dettagli, le impressioni e le esperienze che vive quotidianamente sotto forma di una lettera indirizzata al padre ormai estraneo.

Tornata a Parigi nel 1929 conosce il mondo letterario francese, colorito delle sue incertezze e peccaminose verità.

Si abbandona ben presto a numerosi amanti, nonostante il matrimonio con Hugh Guiler.

Per lei non c’è molta differenza tra uomini o donne. Apertamente bisessuale e fiera di questa sua propensione non si tirerà mai indietro intrecciando, tra l’altro, un sodalizio letterario-amoroso anche con il famoso Henry Miller e la moglie June Mansfield.

Durante la seconda guerra mondiale a Miller vennero commissionati racconti erotici. Stanco della monotonia di questi, chiese alla Nin, ormai amica e confidente, di provvedere alla stesura di alcune piccole opere al posto suo.

Ben presto le richieste divennero costanti e spinte esclusivamente sul versante sessuale, prive di dettagli di natura sentimentale o sensoriale. La Nin rideva di queste richieste cercando di ampliare il suo repertorio con esperienze personali, esperienze di amici e invenzioni esplicite.

La sua abilità nello scrivere però si concretizza in maniera principale tra le pagine del diario, dove dà libero sfogo a pensieri e considerazioni di qualsiasi natura.

Imbastisce la sua scrittura su modello di Miller, con realismo, attenzione e sguardo alla profondità delle cose. Scrisse fino al 1977, anno della sua morte. Si tratta di un’opera monumentale, 15mila pagine in 150 cartelle, che solo negli anni ’60 vide la sua fortunata pubblicazione, rendendola esponente di spicco del movimento femminista.

Anaïs e Henry

La Nin analizzò la vita e le sue perversioni in maniera scandalosa ma onesta, rendendosi portavoce di una realtà che era ben conosciuta e popolare negli anni ’30-’40 a Parigi.

L’amore tormentato, i rapporti spinti con uomini e donne e la descrizione del piacere condiscono i volumi monumentali che rapiscono il lettore. I nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy.

Mai banale, metodica, profonda e sensibile, Anaïs si interessò delle vicende umane con uno sguardo innovativo, spiritoso e profondamente tragico allo stesso tempo.