OZ: the revolution

La storia di Oz è una storia che abbraccia un decennio e che ha coinvolto personalità del mondo della musica, dell’arte e della letteratura underground.

Issue three: the Mona Lisa cover. Photograph: University of Wollongong Archives

Durante gli anni ’60 erano molte le riviste eclettiche che popolavano il panorama underground: Friends, The Oracle of Southern California, Wendingen e molte altre. Tra queste spiccava però la rivista “OZ”, nata dalle menti geniali di Richard Neville, caporedattore, Richard Walsh e Martin Sharp, il direttore artistico.

Ci troviamo nell’Australia del 1963, un paese benpensante in cui la mentalità alternativa e controcorrente rappresentava ancora un problema per la società.

In questo contesto rigido nasceva però un filone del dissenso, della provocazione e della satira: nasceva OZ.

The first issue of British OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Lo staff era composto principalmente da personaggi del mondo dell’arte e della letteratura quali Robert Hughes e Bob Ellis.

Il primo numero fu lanciato il giorno del pesce d’Aprile del 1963. Con un totale di sole 16 pagine e 6000 copie portava in copertina la notizia fasulla del crollo del The Sydney Harbour Bridge e al suo interno la storia della cintura di castità e un racconto veritiero sull’aborto (ancora illegale al tempo).

L’uscita del primo numero fece tale scalpore che il Daily Mirror cancellò il contratto con la rivista e minacciò di licenziamento Peter Grose, uno dei suoi dipendenti che collaborava con la rivista.

In quel primo anno OZ ricevette la sua prima denuncia per oscenità. Il direttore e i collaboratori si dichiararono colpevoli evitando la pena detentiva ma nel 1964 una seconda denuncia li costrinse ai lavori forzati.

I temi che avevano introdotto erano visti in maniera negativa. La censura, l’odio, il sesso, la brutalità della polizia, il razzismo, la guerra in Vietnam e la ridicolizzazione delle istituzioni rappresentavano una provocazione alla mentalità chiusa del tempo, che non voleva saperne di tutto ciò che la rivoluzione hippy stava portando alla luce.

Sharp e Neville decisero di partire nel 1966. La meta designata era Londra, dove le tematiche erano sentite maggiormente dai giovani e dove, grazie alla stampa offset, era possibile arricchire la rivista in bellezza.

La nuova versione inglese fu fondata quello stesso anno in uno scantinato di Notting Hill arredato con oggetti di culto e poster psichedelici. Tra i fondatori comparve anche Jim Anderson.

Richard Neville (left) and later editors, Felix Dennis, and Jim Anderson, at the close of the trial, 1971.  JONES/DAILY EXPRESS/GETTY IMAGES

Nel numero 11 della rivista vennero introdotti adesivi psichedelici rossi, verdi e gialli, nonché disegni alternativi e provocanti.

Il numero 16, chiamato Magic Theatre, pubblicato nel novembre 1968, era composto da sola grafica realizzata dalla mente di Sharp e Philippe Mora e venne definito “Il più grande successo della stampa alternativa britannica”.

La rivista raccolse consensi tra varie personalità, inclusi John Lennon e Yoko Ono nonché Mick Jagger e vi comparvero interviste di Pete Townsend, Jimmy Page e Andy Warhol.

Nel 1970 i fondatori decisero di fare un numero curato da bambini selezionati e venne chiamato Schoolkids OZ.

I bambini vennero prima interrogati sulle loro opinioni in educazione, politica e società, nonché su sesso, droga e rock ‘n’ roll.

Il numero 28, che vendette poche copie, presentava una parodia di sesso esplicito di Rupert The Bear, voluta proprio da uno dei piccoli scrittori e causò un dissenso tale da provocare il più grande scandalo per oscenità di tutta l’Inghilterra.

The teenage contributors to the 28th issue of OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Schoolkids OZ, numero 28, 1970.

A cropped section of the cover of the 28th issue of OZ magazine, which features blue women in the nude.

I tre principali autori vennero considerati i responsabili di tutto quanto fosse riportato in quel numero, sebbene fossero stati dei minorenni a scriverlo, e vennero accusati di oscenità e oltraggio al pudore, nonché cospirazione atta alla corruzione della morale pubblica, capi d’accusa che prevedevano il carcere.

L’opinione pubblica si spezzò. Alcuni credevano che la rivista provocasse una deviazione morale non indifferente e che il numero 28 in particolare potesse portare all’omosessualità i giovani e causare dei gravi problemi psicologici; altri, come Lennon e Ono, lo difesero a spada tratta, fino a registrare una canzone intitolata God Save OZ e poi cambiata in God Save Us per raccogliere fondi.

Il Times of London dichiarò di aver ricevuto più lettere sul processo che sulla crisi di Suez e un’effige del giudice venne bruciata davanti alle aule del tribunale in segno di protesta.

I tre furono scagionati dall’accusa di cospirazione, ma ritenuti responsabili di due reati minori per cui era previsto il carcere. Qui gli vennero tagliati i capelli lunghi, causando ulteriori proteste da parte della comunità underground e hippy della Swinging London.

Oz Obscenity Trial Invitation issued by editors of Oz Magazine, 1 October, 1971. © Victoria and Albert Museum, London

Nella storia orale di Jonathan Green, Neville dichiarò in merito alla nascita della rivista:

“I sensed there was a substratum of genuine irritation with the society. There was no access to rock ‘n’ roll, pirate radio had gone, women couldn’t get abortions. This again was something which seem like another piece of repressive puritical behavior that one wanted to fight”.

La passione di Neville però si stava spegnendo:

“Mi sembrò che stessi diventando sempre più propagandista, non più l’autore di una rivista che provava a offrire una piattaforma per scrittori e fumettisti.”

Alla revisione del processo i tre vennero rilasciati definitivamente.

La rivista chiuse i battenti nel 1973 con il numero 48. La causa ufficiale fu la bancarotta.

Gli scrittori e i collaboratori erano poco pagati- o per nulla- e non giravano molti soldi a causa dello scarso numero di copie vendute (circa 30000) anche se i lettori effettivi erano molti di più.

Dennis, uno dei collaboratori, ormai divenuto miliardario nel mondo editoriale, dichiarò riferendosi alla figura carismatica di Neville:

” No one else would avere have managed to get me working for nothing.”

La fine della rivista rappresentò la fine di un momento storico nato in seno agli anni ’60 e fortemente voluto dai giovani del tempo che non si rispecchiavano nelle visioni più conservative.

OZ, V&A archives

Diary of Felix Dennis for the period of 14 – 27 December, 1970 covering police raid on Oz offices. © Victoria and Albert Museum, London
Guest editors of Oz #28 – School Kids Issue, 1970. © Victoria and Albert Museum, London

Una frase rimase emblematica all’interno della rivista:

“TAKE THE PLUNGE! commit a revolutionary act. Subscribe to OZ”

Ad oggi è possibile trovare i numeri della rivista in questo archivio: https://ro.uow.edu.au/ozsydney/

Altri articoli sul tema: https://canal-mag.com/l-incredibile-oz-mitico-magazine-australiano/ https://www.atlasobscura.com/articles/oz-magazine-obscenity-trial https://www.anothermanmag.com/life-culture/9936/why-oz-was-the-most-controversial-magazine-of-the-1960s

https://www.messynessychic.com/2020/05/07/that-1960s-revolution-of-underground-press-is-still-alive-well/

Le tre gocce d’acqua

Christina, Katha e Megan, tre gemelle identiche e bellissime.

La loro storia si intreccia con quella della rivista “LIFE” dove compaiono sin da bambine mettendo in mostra la loro grazia ed eleganza.

A partire dal 1956 intrattengono un rapporto professionale con la fotografa Nina Leen che decide di ritrarle nel corso degli anni.

Con le loro lunghe trecce cominciano a diventare presto popolari e spesso posano come modelle. La principale caratteristica che attirava il pubblico e la fotografa non era solo la loro evidente bellezza e gli occhi da cerbiatte, ma anche e principalmente il loro taglio di capelli.

Innovative, sensuali, eclettiche, hanno introdotto un nuovo modo di portare i capelli che è diventato sinonimo di moda e modernità.

Il taglio, operato da Vidal Sassoon, al tempo astro nascente del panorama della moda europea, prevedeva un taglio corto portato a coprire l’occhio.

Le tre gemelle avevano deciso di sacrificare la propria individualità in favore dello stretto rapporto che intercorreva tra loro, cercando di sembrare l’una l’esatta copia dell’altra.

Dopo il primo momento di popolarità, le gemelle caddero nel dimenticatoio e si sa pochissimo della loro vita (o della loro morte).

Rimane però interessante notare i magnifici scatti fatti nel corso degli anni da Leen e divenuti così emblematici e alternativi.

Triplets Christina Dees (L), Katha Dees (C) and Megan Dees modeling their braids before getting haircuts.

Look-alike dresses being modeled by Dees triplets

Cult di fantascienza: BARBARELLA

Ricordando i favolosi sixties e le avventure cinematografiche che hanno portato, ci viene in mente subito l’iconico Barbarella.

Film di fantascienza con protagonista una frizzante e bellissima Jane Fonda, si ispira al fumetto omonimo di Jean-Cloude Forest che mixa più o meno sapientemente avventura, erotismo e comicità.

La trama è piuttosto semplice.

Barbarella è una giovane eroina e viaggiatrice dello spazio che deve risolvere la misteriosa sparizione dello scienziato Durand Durand.

I famosi titoli di testa, poi censurati, venivano proiettati sulle parti scoperte della giovane protagonista che posava nuda in assenza di gravità. Questo era uno degli elementi erotici, soft-porn, che animavano la commedia.

In effetti la protagonista assecondava la sua performance di “Regina della Galassia” con ammiccamenti e doppi sensi esuberanti in un connubio che non tutti potevano trovare divertente.

Cover Image from the March 29,1968, Issue of LIFE: Jane Fonda in the title role of the movie, Barbarella. Ph by Carlo Bavagnoli

Il ruolo fu inizialmente offerto a Virna Lisi, per poi passare alla Bardot e alla Loren che rifiutarono proprio per gli elementi erotici alquanto spinti della trama.

Infine Jane Fonda accettò, su consiglio del marito che ne era anche il regista.

Il film incassò i favori del pubblico e della critica diventando un vero e proprio cult nel corso dei decenni.

Importantissimi furono anche i costumi, ispirati dall’arte di Paco Rabanne, che avevano cenni futuristici e rimangono tutt’ora elementi iconici della cultura pop, avendo consacrato definitivamente l’attrice a sex symbol dell’universo intero..

Jane Fonda as Barbarella in the “excessive machine”

Jane Fonda and her husband, the director Roger Vadim, on the set of Barbarella, 1968.

Jane Fonda in una fotografia promozionale per Barbarella

Jane Fonda nell’iconico costume verde della “Queen of the Galaxy”

Jane Fonda in uno scatto promozionale di Barbarella

Nella Parigi della Beat Generation

Al 9 rue git le coeur, nel quartiere latino di Parigi, famoso per la sua movida, sorge un hotel quattro stelle chiamato Relais hotel du Vieux Paris.

La struttura portante, oggi rinomata come boutique hotel, un tempo ospitava un luogo magico e fiorente: il Beat hotel.

Popolare meta di artisti e scrittori, tra gli anni ’50 e ’60, vide nei suoi corridoi e nelle sue stanze la creazione di opere- Basti pensare a “Kaddish” o a “Naked Lunch” -che rimangono ancora oggi il cardine della Beat Generation.

L’hotel disponeva di 42 stanze e minimi standard di igiene, cosa che oggi verrebbe considerata inammissibile. Il prezzo era modesto, 50 centesimi a notte, con acqua calda solo il giovedì, il venerdì e il sabato, e una singola vasca da bagno per potersi lavare nel seminterrato, da prenotarsi con largo anticipo.

I proprietari, i Rachou, erano ospitali e abbastanza di manica larga per quanto riguarda le regole. Si poteva far uso di droga e fumare hascisc, l’odore veniva perdonato dalla polizia tramite succulenti sandwich che la padrona di casa preparava costantemente.

Madame

Qui la creatività doveva poter fluire incessantemente. Tra cene preparate da Madame Rachou e discorsi al bar, l’arte veniva costantemente alimentata dalla comunità presente in maniera vivace e allegra.

Madame con diversi artisti

Il nome venne dato da uno degli illustri personaggi che bazzicavano al suo interno. Gregory Corso fu infatti colui che lo rese la meta preferita degli artisti Americani (e non) che stavano vivendo il loro intenso momento parigino alla ricerca di una più profonda connessione con la loro anima.

Tra essi vi erano Ginsberg, Orlovsky, Burroughs, Gysin, Norse e altri.

William Burroughs nella sua stanza

Ginsberg e Orlovsky,1957

Gregory Corso nella sua stanza fotografato da Ginsberg

Una pratica tipica per coloro che non riuscivano a permettersi di pagare l’affitto delle stanze era quella di dedicare poesie, tele, scritti di vario genere alla proprietaria.

Lei stessa, memore di un’esperienza lavorativa in un locale frequentato da Picasso, decise di concedere agli artisti la possibilità di arredare e dipingere le proprie stanze a loro piacimento. L’hotel divenne quindi un luogo eclettico e alternativo, punto cardine della vita beat parigina, luogo di ritrovo fondamentale per la visione alternativa che questo movimento portava avanti.

Come disse Verta Kali Smart sulla rivista “Left Bank this month”, il beat hotel pareva un luogo lasciato al caso, ma la clientela era selezionatissima. Per entrare bisognava avere l’aspetto di un artista, con una tela sottobraccio, o dire le cose giuste e avere le giuste conoscenze. Chiunque avesse qualcosa di importante da dire e fosse una personalità nel suo ambito era ammesso.

Fotografia di Harold Chapman

L’avventura beat durò fino al 1963, quando ormai madame, rimasta vedova da 5 anni, non potè più gestire l’hotel e la sua vita alternativa. L’ultimo ad andarsene fu Harold Chapman, che aveva documentato nel corso del tempo la presenza di vari artisti.

Harold Champman, self-portrait.

La struttura venne venduta, ma ancora oggi rimane un luogo centrale della cultura parigina e americana.

Molti artisti rimasero con l’amaro in bocca per la decisione della vendita e continuarono a guardare con un pizzico di malinconia agli anni passati nel cuore Parigino.

Nel 1997 Burroughs scrisse in uno dei suoi diari:

“Can I bring it back, the magic and danger of those years in 9 rue Git-Le-Coeur and London and Tangier—the magic—photographs and films.

Oggi rimane un’insegna, unico elemento che ricorda il passato glorioso di quel posto. Negli anni si sono susseguiti cambiamenti e vicende che ne hanno alterato profondamente l’aspetto, ma non l’essenza originaria che permane, se non altro, nel ricordo della sua storica grandezza.

Zsuzsi e William: una storia d’amore tragica

Dietro al mondo dorato e fastoso della monarchia inglese si nascondono delle regole ferree, talvolta insostenibili, che scandiscono la vita iper programmata dei reali. Molto prima di Harry e Meghan e delle innovazioni che hanno portato nel regno inglese c’erano Zsuzsi e William.

William di Gloucester era il cugino della Regina, quarto in linea per il trono inglese.

Spirito libero e volenteroso di avere una vita normale, nel 1968, all’età di 26 anni, si trasferisce in Giappone, per lavorare nella diplomazia. Qui incontra lo sguardo di una donna un po’ più grande di lui, Zsuzsi Starkoff, di origine Ungherese.

William è bello, intelligente e terribilmente sexy e attira facilmente lo sguardo delle donne che gli garantiscono la fama di playboy.

Zsuzsi però è diversa. Non solo è più grande, che già di per sé potrebbe rappresentare un problema per la corona inglese, ma è anche divorziata, madre di due figli e lavora come hostess e modella nell’ambiente chic di Tokyo per mantenersi.

La relazione prende il volo in pochi mesi e i due si scoprono profondamente innamorati e uniti.

Nel 1969 la Principessa Margaret arriva in città per questioni reali ( in realtà ci sono voci che dicono che fosse in loco per controllare la relazione) e qui incontra la bella Zsuzsi. La modella supera la prova ed entra nelle grazie di Margaret che comunque dice a William di aspettare e vedere come procede il rapporto prima di prendere scelte affrettate.

Sempre in quell’anno i due decidono però di sposarsi, nonostante tutto.

A detta di William non pensava di provare un amore così intenso per una donna.

Purtroppo però le cose non vanno come previsto. Il padre di William infatti soffre di un ictus e Will è costretto a tornare in patria, dove incontra ostilità per via della sua scelta amorosa. I familiari lo incoraggiano a lasciar perdere in quanto la relazione non potrebbe mai consolidarsi in un matrimonio approvato dalla regina. Le regole sono chiare e non ci si può opporre.

I due si separano per diverso tempo, ma Zsuzsi rimane convinta dell’amore di William.

I due cercano di mantenere qualche contatto sporadico, ma l’allontanamento pesa sulla relazione che arriva a concludersi nonostante i due si amino ancora.

Quello che non si aspettano però è la piega che la vita prenderà di lì a breve.

Nel 1972, all’età di 30 anni, William incontra la tragedia.

Pilota appassionato, il 28 Agosto di quell’anno, decide di partecipare ad una gara vicino a Wolverhampton.

L’aereo su cui viaggia si schianta poco dopo il decollo, non lasciando al pilota e al copilota nessuno scampo.

In un documentario rilasciato nel 2015 la Starkoff dichiarò che in quell’occasione William la invitò a partecipare con lui alla gara, ma per varie ragioni lei non accettò evitando inconsapevolmente il destino nefasto riservato al suo amato.

Fino alla morte, avvenuta nel 2020, Zsuzsi ha indossato l’anello che William le aveva regalato, la copia identica di quello che lui indossava al momento della sua morte.

Joan Didion: quell’amica geniale

Vi chiederete perché un articolo su Joan Didion in un mondo già pieno di articoli su Joan Didion. In effetti mi sono imbattuta in questa scrittrice e giornalista solo di recente. La delicata essenza che emana dalla scrittura è, per certi versi, molto simile a quello che scrivevo negli anni passati, da adolescente. Questo accostamento fortunato e inaspettato mi ha portata a cercare di capire di più di lei.

Nata negli anni 30 e vissuta a Sacramento per i primi anni di vita, questa promessa letteraria cominciò a scrivere sin dalla tenera età, come ricorda lei in un suo famoso saggio, “per capire cosa pensassi”. L’esperienza della scrittura le rimase addosso e decise di ampliarla facendo un concorso per giovani talenti a Vogue. Da lì cominciò a scrivere sempre di più come giornalista freelance e la sua carriera prese il decollo. Il suo attento sguardo alle vicende umane e il suo enorme talento le valsero una candidatura al Pulitzer, che non vinse, classificandosi comunque tra i finalisti.

Di fronte a tanta capacità, forse, è da chiedersi perché NON scrivere su Joan Didion.

L’attenzione ai particolari, ai dettagli che normalmente sfuggono all’occhio meno pronto, la capacità di mettere su carta quell’esatta sensazione, la capacità di rievocare momenti, lontani e labili, ne fanno una straordinaria scrittrice.

Una donna piccola, forse un metro e sessanta scarsi, con un grande occhio.

Fortunata, in parte, dal punto di vista letterario. Sfortunata dal punto di vista personale: perse il marito e la figlia adottiva nel giro di un anno.

Tuffarsi in una delle sue opere più illustri, “The White Album”, è un immedesimarsi nel passato degli anni 60, nella vita quotidiana prima degli omicidi della setta Manson, nella vita che a quel tempo sembrava libera da ogni freno inibitore. Si può dire che dalla lettura di queste pagine ben rilegate ci si possa sentire parte di un passato che non è poi così lontano.

Pioniera della sottile arte del New Journalism, colorito da sensazioni personali e impressioni vivide, la Didion si fece portavoce di un’intera generazione. Lontana dallo sperimentalismo spericolato degli anni sessanta, si avvicinò moltissimo alla politica, con uno sguardo vivace e intelligente. Le sue opere migliori vennero però, almeno secondo la critica specializzata, negli ultimi anni della sua vita. A seguito del duplice lutto, prima del marito, anch’egli scrittore, John Dunne, e poi della figlia Quintana, scrisse due opere mirabili: “The Year of Magical Thinking” e “Blue Nights”. Queste ultime, sul tema del dolore della perdita, portano luce sulle opinioni di una scrittrice atea che analizza in maniera profonda e ricca il momento stesso della fine di un rapporto, delle conseguenze di questa fine, e della vita che, inevitabilmente, va avanti. Prolifica e attenta a ciò che pubblicava, rimane sempre una fonte inesorabile di ispirazione rendendo la vita, per quanto banale, l’unica vera musa.