Da sempre ricca di fascino, la conchiglia incarna una serie di significati variegati e legati perlopiù al mondo delle emozioni e dell’inconscio.
Portatrice di bellezza raggiunge l’apice della perfezione nella sua struttura equilibrata e matematica, fonte di ispirazione per artisti e studiosi di ogni epoca.
Rinascita, fecondità, profondità di animo, mistero, femminilità, amore sono solo alcuni dei significati che le sono stati attribuiti nel corso dei secoli. Non resta che meravigliarsi di fronte alla bellezza di questa creazione ricalcata nell’arte di molti.
Tra tutti gli artisti del ‘900 uno in particolare conquistò l’interesse di André Breton che arrivò a studiarne la personalità e la produzione.
Adolf Wölfli (Bowli 29.02.1864- Berna 06.11.1930) fu l’esempio vivente del rapporto viscerale tra genio e follia.
Nato in una famiglia contadina povera, ultimo di sette fratelli, sin dall’infanzia incontra terribili difficoltà. Il padre, alcolizzato, finisce in prigione e abbandona la famiglia quando Adolf ha soli 6 anni. La madre, lavandaia, non può permettersi di mantenere sette figli così, nel 1873, il piccolo Adolf viene venduto come bracciante.
Alla morte della madre, insorta l’anno dopo, Adolf viene affidato a diverse famiglie che spesso lo maltrattano e abusano di lui.
Responsabile di diversi tentativi di stupro (alcuni ai danni di bambine di 3 e 5 anni) finisce nel manicomio Waldau nel 1895.
Qui la diagnosi di schizofrenia sembra chiarire la condizione dell’uomo che spesso è fortemente agitato, violento e sente le voci.
Nei 35 anni trascorsi all’interno della struttura, passa la totalità del tempo a disegnare e realizzare una biografia monumentale di oltre 25mila pagine.
Il disegno, incoraggiato anche dai terapeuti e dallo psichiatra responsabile, Walter Morgenthaler, sembra calmarlo e dargli un obiettivo di vita che prende seriamente a cuore e che persegue facendosi mettere spesso in isolamento per avere la concentrazione adatta a immergersi nel suo personalissimo mondo.
Adolf prende spunto da ogni cosa: riviste, atlanti, cartoline, libri… reinventa la sua vita, il suo passato e il suo futuro nell’ottica, un po’ infantile, di un mondo altro, immaginario, in cui lui stesso è il protagonista unico e assoluto.
Crea parole, immagini, disegni, collage, spartiti musicali che diligentemente assembla nella sua biografia chiamata “Leggenda di Sant’Adolfo”.
Inizialmente scrive con lo pseudonimo di Doufi, nomignolo di quando era bambino, successivamente adotta il nome d’arte di St. Adolf II, protagonista di una battaglia cosmica creata dalla sua mente geniale.
Adolf viene studiato per tutta la sua vita. Il dottor Morgenthaler ne scrive una biografia nel 1921, attribuendo al paziente un’abilità artistica innata, forse germogliata proprio in seno alla malattia, mentre Freud ne rimane affascinato.
Wölfi era incolto anche se alcune fonti riferiscono che avesse avuto un umile approccio scolastico finendo i primi anni di scuola. Sicuramente inesperto d’arte, divenne nel corso dei decenni uno dei principali esponenti dell’Art Brut, avvicinandosi alle neoavanguardie del ‘900.
La sua opera è caratterizzata da un estremo ornamento, spesso incorniciato, in cui ritrae con diverse tecniche la realtà. La ripetizione è la chiave del suo lavoro e si mostra meticolosa anche se a tratti infantile, mancando un vero e proprio apporto prospettico alle opere. Dettagli, ghirigori e simboli sono fortemente presenti nell’opera di Wölfi e contribuiscono a creare il mondo immaginario dello stesso artista.
Pioniere rispetto ai tempi in cui viveva, Adolf utilizza la fotografia della lattina di zuppa di pomodoro Campbell nel 1929, Andy Warhol farà lo stesso solo trent’anni dopo.
Alla sua morte, avvenuta a causa di un tumore allo stomaco, Wölfi viene dimenticato.
Riscoperto da Jean Dubuffet nel 1945, ritorna in auge e viene esposto nel 1972.
Di lui ci rimangono 1300 disegni, quaderni scritti in parole e musica e 25mila pagine di biografia (i cui quaderni raggiungono l’altezza di oltre due metri!).
La sua storia, intrecciata con le vicende personali difficili, violente e illegali, sembra sottolineare uno stretto rapporto tra l’atto creativo e le facoltà mentali.
In quest’ottica Adolf Wölfi rappresenta in tutto e per tutto l’epiteto del genio folle, della visione creativa che nasce e si nutre della pazzia e dei disturbi mentali e che tuttavia rimane una caratteristica innata propria dell’individuo che ancora ci meraviglia e ci stupisce, nascosta nell’intricato mistero della mente umana.
“If we seek the real source of the dance, if we go to nature, we find the dance of the future is the dance of the past, the dance of Eternity, and has been and always will be the same.
The movement of waves, of winds, of the Earth is ever the same lasting Harmony”
The Art of Dance, p. 54
Isadora Duncan nasce a San Francisco il 27 maggio 1877. Ultima di quattro figli, cresce in un contesto fortemente artistico voluto dalla mamma Irlandese e dal padre Scozzese che li abbandona quando Isadora ha un paio di anni.
Il padre, un banchiere, era amante della cultura Greca e aveva scritto un poema intitolato “Intaglio: Lines on Beautiful Greek Antique” che Isadora prende a cuore e da cui inizia a conoscere la cultura Greca che diventerà il perno fondante tutta la sua filosofia di vita.
Nel 1899, poco più che ventenne, arriva a Londra con la famiglia. Qui passa le sue giornate al British Museum per i primi quattro mesi di soggiorno. L’appuntamento quotidiano serviva ad alimentare la sua curiosità e la sua ispirazione, nonché la sua mente colta e raffinata per la storia.
Trasferitasi a Parigi qualche anno dopo, si immerge nelle sale del Louvre, dove scopre inestimabili tesori Greci che diventano la salda e principale ispirazione per i suoi movimenti, poi fotografati dal fratello Raymond.
Isadora Duncan, Unknown.
Fondatrice di un movimento artistico a tutti gli effetti, tiene le prime esibizioni in terra natia, dove ottiene scarso successo. In Europa, al contrario, viene apprezzata come una visionaria della danza e portavoce di uno stilema innovativo e unico.
Il suo messaggio voleva essere controcorrente rispetto al rigore accademico che vigeva in quegli anni nel mondo del balletto, contornato da costumi stretti e scarpette da punta.
Isadora utilizza abiti semplici e leggeri, molto simili ai pepli greci e danza a piedi nudi, con i capelli sciolti, un’assoluta novità nel panorama di quegli anni.
Il suo metodo è basato sulla creazione di Danze Libere: improvvisazioni emotive suscitate dalla musica di artisti quali Chopin, Beethoven e Gluck.
Fondamentale il sentimento alla base del movimento e la forza della musica.
Le sue idee nascono in seno alla tradizione antica Greca, per cui lei ha sviluppato con gli anni una totale ossessione.
“To bring to life again, the ancient ideal! I do not mean to say, copy it, imitate it; but to breathe its life, to recreate it in one’s self, with personal inspiration: to start from its beauty and then go toward the future”
The Art of Dance, p.96
Nel 1903 tiene un convegno a Berlino, il tema è la danza del futuro e da molti sarà visto come il Manifesto della Danza Moderna.
Nel 1904 fa una tournée a San Pietroburgo, dove influenza fortemente la compagnia dei Balletti Russi.
Fonda diverse scuole in Europa e in Russia, dove porta avanti il suo metodo basato sulla ricerca del movimento libero e naturale.
Isadora è anche pioniera di una nuova visione della donna. Staccatesi dai corpetti stretti a seguito della prima guerra mondiale, le donne volevano dare spazio alla propria fisicità senza costrizioni di genere. Isadora diviene un punto di riferimento per la rivoluzione di costume di quegli anni e la sua libertà spaziò molto anche nell’ambito del matrimonio, fino ad allora considerato sacro e imperituro.
Isadora infatti si sposa tre volte. Dalla prima relazione con Edward Gordon Graig nasce la figlia Deirdre. Dal secondo matrimonio con Paris Eugene Singer, il fondatore dell’omonima azienda di macchine da cucire, nasce il figlio Patrick.
Nel 1913 però la tragedia la colpisce in maniera dura e inaspettata.
Durante una passeggiata in auto sulla Senna, l’auto che trasportava i figlioletti e la governante si guastò. Il conducente scese per cercare di avviare il motore a manovella, ma dimenticò di inserire il freno a mano e l’auto scivolò nel fiume.
L’anno dopo, da una breve relazione con un Italiano, dà alla luce un terzo figlio, che muore poco dopo il parto.
Presa dalla disperazione per il lutto, Isadora si dà all’alcol e smette di praticare come un tempo.
Gli amici fanno da scudo attorno a lei e se ne prendono cura. In particolare Eleonora Duse, che la ospita a Viareggio per diversi mesi.
Successivamente si sposa una terza volta con il Russo Sergey Esenin, di diciotto anni più giovane, che non parlava una singola parola di inglese. Isadora sapeva poche parole di russo e il matrimonio dura solo 15 mesi a causa del carattere turbolento del compagno, dedito alle scenate a causa dell’abuso di alcol. Esenin la lascia e due anni dopo si suicida.
Con fatica Duncan riprende la forza di danzare e di occuparsi delle sue allieve, chiamate le “Isadorables”, e della sua attività.
La nuova tournée americana è un nuovo fiasco e le vengono mosse pesanti critiche sul suo aspetto fisico, compromesso dall’abuso di alcol e dalla depressione.
Trascorre gli ultimi due anni della sua vita tra Nizza e Parigi.
Il 14 Settembre 1927, Benoit Falchetto, un amico e amante di Isadora, passa a prenderla con la sua Bugatti Type 35 ad un ristorante sulla Promenade Anglais a Nizza.
Isadora indossa una lunga sciarpa a frange che lascia volare libera al vento.
Prima che la macchina parta, saluta gli amici, alcuni dicono con la frase ” Adieu, mes Amis. Je vais à la glorie!”, altri dicono con “Je vais à l’amour!”.
Subito dopo accade l’inverosimile: la sciarpa si impiglia nei raggi della ruota dell’auto, spezzandole l’osso del collo di netto.
La fine tragica di Isadora afflisse tutto il panorama artistico di quegli anni, compresa Gertrude Stein.
Rimane tutt’oggi una delle più grandi artiste del panorama del balletto, una mente vivace, introspettiva, pronta al contatto con la natura e al contatto con il proprio sè. Pioniera di una rivoluzione del movimento che continuerà per tutto il novecento, riportò in auge l’antichità classica conferendole un valore inestimabile.
“The true dance is expression of serenity. it is controlled by the profound rhythm of inner emotion. emotion does not reach the moment of frenzy out of a spurt of action. it broods first, it sleeps like the life in the seed, and it unfolds with a gentle slowness.
The Greek understood the continuing beauty of a movement that mounted, that spread, that ended with a promise of rebirth.
The Dance- it is the rhythm of all that dies in order to live again; it is the eternal rising of the sun.”
Era il 1939 quando al Flushing Meadows-Corona Park nel Queens (NY) veniva organizzata la seconda fiera americana più cara di sempre, con un costo di oltre 67 milioni di dollari.
Ma facciamo un passo indietro.
Nel 1935, ancora in ballo nella Grande Depressione, diversi businessmen NewYorkesi decisero di fondare la New York World’s Fair Corporation, con uffici ai piani alti dell’Empire State Building.
Il presidente eletto fu Grover Whalen, politico e uomo di affari, e tra i partecipanti alla corporazione vi era anche il Sindaco Fiorello la Guardia che rimase in carica fino al ’46.
L’obiettivo di questi imprenditori e uomini d’affari era quello di portare una ventata di fresca economia a New York favorendo il commercio e lo scambio internazionale.
La Corporation decise quindi di inaugurare una fiera aprendo i cancelli il giorno del 150° anniversario dell’inaugurazione di George Washington come presidente degli Stati Uniti e chiamandola “The World of Tomorrow”.
Si trattava di un evento di portata stratosferica, il più importante in maniera indiscussa dalla prima guerra mondiale.
Il presidente Whalen aveva idee precise in merito alla tematica della fiera: i beni di consumo. Emblematica fu l’introduzione della televisione come oggetto ormai alla portata di tutti.
Per farsi pubblicità utilizzarono delle fasce disposte sul braccio sinistro degli atleti dei Brooklyn Dodgers, NY Giants e NY Yankees, oltre alla sponsorizzazione in giro per il mondo operata da Howard Hughes con il suo aereo.
L’apertura ufficiale fu fissata il 30 aprile 1939, una domenica nuvolosa. Solo il primo giorno arrivarono ai cancelli 206mila persone.
Diverse personalità presenziarono con discorsi di varia natura. Da Roosevelt ad Einstein, per passare a diverse star del cinema.
All’interno erano presenti diversi padiglioni provenienti da tutte le parti del mondo e dal design diverso e innovativo.
7 erano le zone tematiche, diverse architettonicamente, alcune costruite in maniera semicircolare attorno al centro realizzato da W. Harrison e M. Abramovitz che consisteva in due bianchi edifici chiamati Trylon e Perisphere ( all’interno di quest’ultimo vi era un modellino della città del futuro).
Il padiglione italiano, costato oltre 3 milioni, era caratterizzato da uno stile romano integrato con l’architettura più moderna. Una fontana alta 61 metri ne coronava l’entrata ed era dedicata a Guglielmo Marconi. Nella Hall of Nations il pavimento a mosaico circondava una statua della Lupa, madre di Romolo, tutt’intorno sulle pareti vi erano raffigurazioni dell’impero moderno realizzate in marmo nero e stucco romano bianco. Al centro della Hall troneggiava una statua in bronzo di Benito Mussolini realizzata da Romano Romanelli.
Il famoso ristorante italiano ospitato nel padiglione aveva invece l’aspetto di una lussuosa nave da crociera per mimare la tradizione italiana.
Tra gli altri luoghi di interesse c’era sicuramente la Westinghouse Time Capsule, destinata ad essere aperta solamente nel 6939 e contenente scritti di Einstein, Mann, copie di Life Magazine, un orologio di Mickey Mouse, un rasoio Gillette, un dollaro, un pacchetto di sigarette Camel, semi di varie specie tra cui cotone, soia, carota e tabacco e molto altro.
Nella Westinghouse era presente anche “Elektro the Moto Man”. Si trattava di un robot alto 2,1 metri in grado di parlare e fumare.
A sud della fiera c’era il World’s Fair Boulevard con l’area Amusement, decisamente la preferita dai visitatori. Qui potevano intrattenersi su montagne russe, attrazioni di varia natura come una torre da cui paracadutarsi e repliche di vari luoghi naturali come le Victoria Falls. In questa zona vi erano anche esibizioni di uccelli e animali rari, un orangotango addomesticato, tre elefanti performanti e la possibilità di fare dei brevi viaggi sul dorso dei cammelli.
Per intrattenere il pubblico venivano organizzati anche spettacoli esotici, con donne in topless o in costume.
Nella zona Acquacade venivano realizzati musical con giochi d’acqua e coreografie irriverenti al costo di 80 cent.
Ogni giorno all’interno della fiera era a tema. Per esempio il 3 Giugno 1940 fu il “Superman Day”, in cui si realizzò un Contest atletico e ci fu la presenza dello stesso Superman, probabilmente interpretato da Bud Collyer.
Tra istallazioni per il divertimento, ristoranti, padiglioni coronati da sculture e fontane di rara bellezza come “The Fountain of Atom” realizzata da Wayland Gregory in ceramica, padiglioni realizzati da Salvador Dali o altri personaggi di un certo spessore, un planetario e varie istallazioni artistiche, rimaneva poco spazio per la scienza e l’innovazione.
Alcune delle introduzioni che vennero fatte furono la luce fluorescente, il nylon, i set televisivi, una macchina futuristica, un temperino e poco altro.
Fortemente voluta per la classe media emergente e per superare le avversità della Grande Depressione, ospitò oltre 44 milioni di visitatori e durò da Aprile ad Ottobre 1939 e da Aprile a Ottobre del 1940.
Con un guadagno di soli 48 milioni di dollari di fronte alla spesa di oltre 67, chiuse ufficialmente i battenti il 27 Ottobre 1940 a causa della bancarotta.
Romain de Tirtoff nacque il 23 novembre 1892 a San Pietroburgo.
Interessato sin da piccolo al mondo patinato e glamour della moda e dell’arte, nel 1912 si trasferì in Francia per poter affinare la sua dote naturale. Fu illustratore, costumista, scenografo e creatore di spettacoli visivi in Francia a partire dall’inizio del XX secolo.
La particolarità della visione di Ertè, nome d’arte ricavato dalla pronuncia delle iniziali del nome e del cognome, era quella di abbracciare sia il vestiario sia gli accessori, per poi orientarli nel mondo dell’opera, del balletto e delle produzioni drammatiche di vario genere e calibro.
Nel 1912 a Parigi conobbe un altro celebre stilista. Poiret lo fece lavorare presso il suo atelier dove disegnò diversi abiti per la clientela altolocata.
Tra il 1916 e il 1937 lavorò per Harper’s Bazaar dove realizzò stupende copertine in stile art decò.
Fu anche un grandissimo costumista per il teatro francese, realizzando abiti di notevole pregio e bellezza per le Folies Bergère e in particolare modo per Joséphine Baker. Questo sodalizio con il teatro durò più di dieci anni e diede frutti molto positivi.
Anche oltreoceano, nella grande America, cominciò ad essere conosciuto e richiesto, arrivando a lavorare nella creazione di costumi per le Ziegfeld Follies e per George White’s Scandals.
L’ispirazione per le sue creazioni veniva dal mondo preraffaellita, dal floreale e soprattutto dallo sguardo attento verso l’art decò.
Nelle sue illustrazioni si possono trovare donne dalle forme longilinee che emanano un’aura di glamour e stile, rendendole dive e protagoniste della rappresentazione.
Interessante fu anche la realizzazione di un’illustrazione “alfabeto” in cui ogni donna, vestita con abiti specificatamente realizzati dalla sua sapiente penna, mimavano le lettere dell’alfabeto.
Su di lui si fecero numerose mostre retrospettive, colorando di popolarità quella che era stata la sua arte per certi versi messa da parte, che ritorno presto in auge e presa come spunto per altri stilisti e artisti del periodo successivo.
“Dove sono nata e dove ho vissuto non ha importanza. è quello che ho fatto con i luoghi dove sono stata che dovrebbe essere interessante”.
Con queste parole, dette decine di anni fa, si presentava una grande artista, pilastro del modernismo Americano: Georgia O’Keeffe.
Inutile quindi dilungarsi sulla sua storia personale. Nacque e crebbe in una fattoria nel Wisconsin e già da bambina, con la tenera e squillante voce che solo i bambini possiedono, ha deciso di diventare artista.
“Che tipo di artista?” le fu chiesto; lei non seppe rispondere. Si divertiva a disegnare con gli acquerelli e a fare i classici giochi che i bambini fanno, non aveva idea di che tipo di artista avrebbe voluto essere, se non che avrebbe voluto essere un’artista.
Nel 1905 frequentò la scuola d’arte di Chicago e nel 1908 incontrò il suo futuro marito Alfred Stieglitz. Lui aveva una sala d’esposizione a New York, la famosa galleria 291, e fu grazie a lui che conobbe l’arte di Rodin, di cui rimase colpita e affascinata.
Nel suo primo periodo artistico, attorno agli anni ’10, Georgia usava ancora l’acquerello per le sue rappresentazioni pittoriche. Negli anni ’20 cominciò invece a sperimentare con i colori ad olio, a cui rimarrà fedele per tutto il suo percorso artistico.
Il mondo dell’arte del tempo era fatto principalmente da figure maschili, erano loro che dettavano le regole del gusto in fatto di pittura. Questo poteva creare una frizione verso i lavori delle donne del tempo, considerati di serie b. Georgia fu criticata da questi per l’uso troppo vivace dei colori o per le sue scelte pittoriche, ma lei, donna coraggiosa ed eversiva, dipingeva colori ancor più vivaci e portava avanti i suoi soggetti a testa alta.
In merito ad alcune sue opere sui fiori- ne realizzò molte- disse:
” Io vi ho chiesto di prendere del tempo per guardare quello che vedevo e quando voi ci avete messo del tempo a osservare davvero il mio fiore, avete appiccicato tutte le vostre associazioni con i fiori al mio fiore e adesso scrivete del mio fiore come se io pensassi e vedessi quello che voi pensate e vedete- e non è così”.
Da donna forte la O’Keeffe rigettava l’idea dell’interpretazione troppo frivola e complessa che la critica spesso le rivolgeva. il suo spirito pittorico si manifestava nel voler rappresentare ciò che trovava interessante e meraviglioso. Ed era straordinariamente brava nel farlo.
Per questo motivo si trasferì permanentemente nel Nuovo Messico nel 1949 a seguito della morte del marito. In questo periodo cominciò a dipingere il paesaggio o a ricalcare con il colore l’aspetto architettonico della sua casa o degli edifici religiosi del luogo. I soggetti erano dunque diversi, si staccava dal sogno americano portandone tuttavia dei barlumi all’interno delle sue opere. In questo periodo era solita fare lunghe camminate sulle montagne e tra i deserti della regione, raccogliendo sassi od ossa di animali per poi rappresentarli a suo modo sulla tela.
Morì negli anni 80, dopo aver trascorso tutta la sua vita al servizio della pittura. Prima di morire le fu conferita la medaglia nazionale delle Arti dal presidente Reagan in persona.
Fu una delle pittrici più prolifiche e affascinanti della storia americana, portavoce di una filosofia innovativa e testimonianza di quello che la meraviglia dell’arte riesce a creare.
Sembrano le tre cifre finali di un numero di telefono. In realtà questo numero indica parte di un indirizzo: il 291 in Fifth Avenue, Midtown Manhattan, NY.
A questo civico era collocata una famosa galleria d’arte, aperta oltre un secolo fa.
I grandi meriti di questa galleria furono innanzitutto di portare in America la grande tradizione pittorica d’avanguardia Europea. Tra le sue mura vennero infatti esposti i capolavori di Matisse, Picasso, Cezane, Picabia e Duchamp, solo per citarne alcuni.
In secondo luogo, ma non meno importante, espose la fotografia al grande pubblico, conferendogli lo statuto artistico che fino ad allora le mancava.
Il fondatore della galleria, Alfred Stieglitz, era un fotografo egli stesso.
All’inizio del secolo, però, la fotografia mancava di connotazione artistica, sebbene esistessero già dei premi facoltosi per gli aspiranti fotografi. Venivano infatti allestite piccole esposizioni volte a farla conoscere, ma mai in maniera marcata, lasciandola sempre un po’ da parte, quale arte di serie b.
Fu grazie all’amicizia con Edward Steichen, pittore e fotografo, che Alfred riuscì a trovare un sostenitore alle sue idee rivoluzionarie.
Le prime esposizioni non andarono particolarmente bene e la gente era scettica nel concedergli lo spazio per le stesse.
Fu solo nel 1905 che, grazie all’aiuto dell’amico, fu possibile cominciare a porre le basi per quella che sarebbe diventata una delle gallerie più rilevanti dell’intero secolo. Steichen soggiornava proprio al 291 e aveva notato diverse stanze libere. In cerca di nuovi posti in cui esporre pensò subito all’amico a cui si erano chiuse così tante opportunità. Per un intero anno Alfred affittò tre stanze al 291 che sarebbero servite anche a scopi educazionali, per diffondere la sottile arte della luce.
Nella galleria era possibile affittare le stanze per le proprie esposizioni, applicando una percentuale da dare ai proprietari che l’avrebbero immessa nella tesoreria della Photo-seccession, noto movimento di artisti che voleva portare l’attenzione sulla fotografia in un periodo in cui non era ancora considerata al pari della pittura. La prima apertura non ebbe successo, se non nell’ambiente di nicchia da cui provenivano la maggior parte degli espositori.
Seguirono diverse altre istallazioni come quelle di Gertrude Kasebier e Clarence H. White. Con il tempo la galleria ebbe successo e la fotografia fu effettivamente elevata allo statuto artistico che le mancava.
Nel 1908 però l’affitto dei locali venne inaspettatamente raddoppiato causando la chiusura della galleria che non poteva sostenere costi così elevati.
Fortunatamente la chiusura totale e definitiva venne impedita da un neolaureato Harvardiano che, con le ingenti entrate di famiglia, acquistò delle stanze al 293 e le finalizzò all’uso della galleria, permettendo nuova vita alla struttura e alla sua arte. Stieglitz però era rimasto affascinato dall’indirizzo in cui aveva potuto coronare l’inizio della sua avventura e per questo motivo la rinominò 291.
In questo nuovo periodo cominciarono le esposizioni d’arte, arrivando a contare più di 50 mostre l’anno, con artisti di vario calibro. La decisione di orientarsi prevalentemente sull’aspetto della pittura e della scultura non venne vista di buon occhio da tutti. Alcuni appassionati di fotografia si sentirono nuovamente messi in ombra dall’arte che per così tanti anni aveva affascinato i più. Ciò nonostante le mostre continuarono ad andare bene e raccogliere il favore del pubblico che in questo modo poteva conoscere le opere europee e i vari stili artistici che si stavano sviluppando oltre oceano.
Nel 1917 a causa dell’avanzata della prima guerra mondiale e a causa dello scemato entusiasmo per l’arte, la galleria chiuse le sue porte. L’ultima esibizione, proprio di Alfred, si chiamava ” The last days of 291″.
Vi erano ritratti due soldati, uno intento a proteggere l’arte esposta alle sue spalle, e uno ferito quasi mortalmente, proprio mentre compiva il suo sacro dovere di protezione.
Stieglitz aprì altre due gallerie, senza però mai tornare al suo luogo originario, coltivando la sua passione e il suo talento fino all’anno della sua morte, nel 1946.
J.B. Kerfoot disse:
“291 is greater than the sum of all its definitions. For it is a living force, working for both good and evil. To me, 291 has meant an intellectual antidote to the nineteenth century”
Quella che sembra essere una missione impossibile ai più, venne realizzata brillantemente da un artista esponente del realismo americano.
Edward Hopper, annata 1882, fu un grande artista.
Già dalla gioventù manifestò grandi abilità nel disegno e venne incoraggiato dalla famiglia a specializzarsi in questo suo personale talento.
Inizialmente i suoi studi artistici ruotarono attorno ai ritratti e agli autoritratti, soprattutto nel periodo che passò presso la New York School of Arts, dove riuscì a stringere amicizia con vari artisti.
In questo periodo le basi dei suoi dipinti erano di colori particolarmente scuri e le pennellate grosse.
Fu grazie ai numerosi viaggi in varie parti del mondo che lo aiutarono a perfezionare il suo stile e la sua visione. In particolare modo rimase affascinato da Parigi, dove soggiornò in diverse occasioni e per diverso tempo. Qui potè dipingere la vita parigina che scorreva ininterrotta lungo le rive della Senna, con un prospettiva differente rispetto a quella portata avanti da vari artisti che nel medesimo periodo vi soggiornavano.
Vagabondare tra le viuzze pittoresche e trovare un soggetto inaspettato nella quotidianità rappresentavano per Hopper il punto di inizio di un piccolo capolavoro su tela.
Inizialmente i suoi quadri non vendettero ed Edward fu costretto a mantenersi tramite il lavoro di illustratore, che disprezzava.
Per tutta la sua vita rimase affascinato da artisti del calibro di Manet, Monet, Pissarro, Sisley e molti altri, esponenti di una generazione perduta che veniva lentamente rimpiazzata da nuove correnti pittoriche.
Nel 1915 si dedicò brevemente alle incisioni praticando acqueforti per cui ottenne anche svariati premi.
Nel 1918 entrò a far parte del Whitney Studio Club, un famoso club di artisti americani, e nel 1920 fece la sua prima mostra con loro. Il quadro esposto era “Soir Bleu”, titolo ispirato al primo verso della poesia “Sensation” di Rimbaud.
Il fallimento della sua esposizione fu così clamoroso che, per la rabbia, Hopper rifiutò la sua stessa opera, arrotolandola e confinandola in un angolo del suo appartamento, dove fu trovata post mortem.
Il quadro rappresentava una terrazza parigina con vari personaggi intenti a bere, fumare e giocare. L’eterogeneità dei suoi soggetti e il senso di inquietudine che permea dal disegno rimangono un segno distintivo della poetica di Hopper.
Ma la fortuna, ad un certo punto, doveva cominciare a girare.
Nel 1924 alcuni suoi acquerelli vennero esposti a Gloucester dove riscossero un successo inaspettato.
Fu così grande il suo successo e così clamoroso che nel 1925 “Apartment Houses” venne acquistato dalla Pennsylvania Academy e nel 1930 ” Casa Lungo la ferrovia”, che ispirò Hitchcock per la realizzazione della casa di Psycho, divenne parte del MoMA.
Hopper morì nel 1967.
Ad oggi di lui rimangono numerose opere di una bellezza devastante.
Facendo un’analisi approssimativa dei suoi quadri si può notare come il filo conduttore della sua poetica sia il senso di inquietudine e la solitudine, specialmente quella Americana, che contraddistingue i suoi personaggi.
Il tema della luce rimase per Edward di fondamentale importanza e fu proprio la volontà di studiarne le sfaccettature che fece da protagonista in tutti i suoi viaggi, specialmente quelli Francesi.
Gli spazi che ritrae sono sempre piuttosto semplici, bar, cafè, case, ma portano a galla un significato metafisico che sembra non essere, a tratti, pertinente con la loro realtà.
I soggetti che ritrae rimangono vicini sì, fisicamente, ma lontani sul piano delle relazioni, estranei in un contenitore unico, che li raggruppa, ma non li avvicina a livello di anima.
Il fascino della notte viene espresso in diverse opere, come ne “I nottambuli”, dove emerge tutta la forza espressiva di questo talentoso artista.
Se fosse accostabile a delle sensazioni, Hopper sarebbe in grado di regalarci il senso di vuoto, di malinconia, di estraneità, di solitudine, vera e profonda, di fronte alla quotidianità della vita.
La capacità di dipingere il silenzio, che gli venne attribuita da diversi critici, è in effetti la caratteristica più peculiare dei suoi lavori, sin dalla gioventù, in particolar modo nel periodo maturo.
Forse la sua abilità stava proprio nel captare quelle sensazioni dell’animo umano che celiamo a noi stessi e dipingerle su tela con pennellate vigorose e precise, metodiche, mai approssimative.
Come lui stesso disse:
“Non dipingo quello che vedo, dipingo quello che provo”
Un tempo sfogliando i libri per bambini si potevano trovare delle illustrazioni di pregiatissima fattura. Lontane dalla mondanità banale che impervia in ogni ambiente, tramite questo grande artista abbiamo ancora uno scorcio di romanticismo verso il passato.
Errol John Le Cain nacque nel lontano 1941.
La sua vita fu ispirata dai numerosi luoghi in cui visse in gioventù.
Da Singapore ad Agra, per poi sbarcare a Londra, Errol assorbì tutte le sfumature di colore e fantasia che riuscì a scovare nei suoi peregrinaggi con la famiglia.
Già all’età di 11 anni esplorò la realizzazione del suo primo film, in 8 mm, chiamato “The Enchanted Mouse”.
L’animazione fu il suo primo amore che coltivò con molta dedizione durante tutto il corso della sua vita, arrivando a lavorare come freelancer nel 1969 con la BCC.
Lavorò alla realizzazione di “The Snow Queen” di Anderson, dove recitavano attori su sfondi realizzati dalla sua mano abile ed esperta.
Pubblicò 3 libri di sua invenzione e ne illustrò 48 a partire dal 1979.
Errol venne a mancare in giovane età a causa di una malattia, nel 1987.
Guardando le sue illustrazioni si può ritrovare la tradizione orientale che accompagnò i suoi lavori, ispirata proprio dall’ambiente in cui visse nei primi anni di vita.
L’elemento fantastico che emerge in maniera esotica non appesantisce la storia, ma piuttosto la integra per colorarla di aspetti e sfumature che permangono nella mente dell’osservatore.
Pseudonimo di Catherine Marie Agnès Fal de Saint Phalle, Niki per coloro che la conoscono con il suo nome d’arte, nacque sulla fine di un Ottobre freddo, nel 1930, in Francia.
Sin da bambina manifestò la sua naturale ribellione ai sistemi e alle norme impostale, cambiando spesso scuola proprio a causa delle sue idee radicali e dei suoi comportamenti selvaggi.
Ad 11 anni rimase traumatizzata dal tentativo di abuso da parte del padre, tentativo che lei stessa cercò di esorcizzare in moltissime sue opere posteriori.
Inizialmente, data la sua naturale bellezza fisica, cominciò una carriera come fotomodella presso Vogue e Life, carriera che però non fu l’unico approccio al mondo dell’arte.
Niki fu poliedrica nella sua visione del mondo. Non fu mai solo una cosa, solo una fotomodella, solo un’artista, ma esplorò nel corso degli anni ogni possibilità che riuscisse a nutrire il suo animo ferito.
Proprio dall’estremo dolore patito in gioventù a causa delle colpe familiari, nel 1952 soffrì di un terribile esaurimento nervoso che la vide chiedere aiuto in una clinica per disturbi mentali, dove soggiornò diverso tempo.
Proprio in questo contesto per niente fastoso, l’artista riuscì veramente a concentrare le sue energie sul lavoro artistico, realizzando opere che come lei stessa definì, erano una sorta di medicina per lo spirito.
E fu così che trovò la sua chiamata.
A partire dagli anni ’60 cominciò a realizzare opere denominate “shooting paintings”. Il nome, chiaro, rappresenta dei quadri realizzati sparando con una carabina a dei sacchetti di colore, che si spandono sulla tela come ferite e squarci.
Spesso, sullo sfondo della tela, Niki disegnò una figura maschili, memore della figura paterna che fu protagonista della tragedia.
A questo punto della sua carriera, la De Saint Phalle, veicolò nel suo lavoro tutto il suo stato emotivo, portando avanti un’arte concettuale di estremo valore che la vide anche partecipe di un gruppo d’avanguardia: i “Nouveaux realistes”.
Fu solo a partire dal 1965 che decise di introdurre figure femminili nelle sue opere.
Da qui incominciò la realizzazione di grandi strutture, denominate la “Nana”, in cui prevalevano le fattezze femminili e i colori sgargianti.
Fu l’anno successivo che la vide protagonista della realizzazione di un’opera monumentale di straordinaria importanza. Il Moderna Museet di Stoccolma le chiese infatti un’opera da poter esporre tra le sue sale e Niki seppe perfettamente cosa creare.
Si trattava di una Nana di 28 metri di lunghezza, 6 di altezza e 9 di lunghezza che rappresentava una donna in procinto di partorire e rinominata “She- a Cathedral”.
Nel seno sinistro della struttura femminile fu inserito un planetario e in quello destro un bistrot per gli ospiti che potevano calorosamente entrare attraverso la vagina della statua.
La cattedrale doveva rappresentare la figura femminile e la sua potenza creatrice.
Dopo il matrimonio con Jean Tinguely cominciò la realizzazione del “Giardino dei Tarocchi”, a Garavicchio, Capalbio (Toscana). Il lavoro la impegnò per 17 lunghi anni, in cui dispose le strutture base di cemento armato e cominciò a ricoprirle di pezzi di vetro, mosaici e ceramiche colorate, conferendo all’opera un aspetto variegato, mai banale, alternativo e fantasioso.
Il costo del parco fu decisamente alto e per finanziarsi Niki decise di pubblicare libri e creare una sua personale linea di profumi.
Proprio per questi motivi non può essere considerata un’artista convenzionale.
I temi principali delle sue opere rimangono di carattere mitologico, principalmente esasperando il tema della vendetta, del dolore e della paura, ma apportando altrettanta importanza a significati ricchi in positività.
Usò sempre colori vivi, per arrivare allo spettatore più facilmente, e carichi di significati metafisici.
Il rosso era il rosso della forza creatrice, innovativa e potente, vibrante e immediata; il verde rappresentava la vitalità, il blu la profondità di pensiero e la forza di volontà che contraddistingue l’essere umano; il bianco la purezza, il nero il dolore ed infine l’oro, colore dell’intelligenza e della spiritualità.
Niki morì nel 2002 per problemi respiratori. Dopo la sua morte fu onorata come artista di grandissima importanza in tutto il mondo, partendo dal MoMa di New York che tenne diverse mostre su di lei e sulla sua produzione.