Danse de Follies! Lo spettacolo più all’avanguardia di New York

Era luglio 1915, quando, tra il caldo infernale della città e i suoi odori acidi, si dava il via allo spettacolo d’avanguardia più spinto dell’epoca.

Florenz Ziegfeld, Jr. era un prominente uomo d’affari newyorkese, l’inventore degli spettacoli d’intrattenimento “Ziegfeld Follies”, ispirati a quelli che si tenevano a Parigi, le Folies Bergère.

Inaugurati nel 1907, avevano abbracciato un nuovo modo di pensare la femminilità e il business, al punto da diventare famosissimi in tutto il paese.

Tra le ragazze che vi lavoravano come chickens”, il livello più basso, o “showgirl”, quello più alto, vi erano alcune delle più importanti stelle di quegli anni: Josephine Baker, Fanny Brice, Louise Brooks, Marion Davies, Nita Naldi, Barbara Stanwyck, Doris Eaton e moltissime altre.

Partecipare come corista agli spettacoli era l’apripista per una carriera brillante nel mondo del cinema o della musica e le giovani ragazze americane sognavano di essere tra le fila delle ballerine, alte uguali, pelle bianchissima, a muoversi all’unisono a tempo di musica.

Ziegfeld avevano notato che dopo gli spettacoli tanto acclamati, la gente se ne andava a trascorrere il resto della serata in altri night club. Così, invogliato ad aumentare i suoi profitti e a far risplendere le sue idee, decise di dare vita a un secondo spettacolo: Danse de Follies!

A termine dello spettacolo principale, bastava prendere l’ascensore e salire sul terrazzo del New Amsterdam Theatre sulla 42° strada, New York. Ad accoglierti sul rooftop garden, definito da alcuni “the meeting place of the world”, musica, danze e champagne a litri.

Lo spettacolo, che cominciava a mezzanotte, era sceneggiato nella parte in disuso del teatro, dove Ziegfeld aveva fatto istallare tavoli e sedie.

La parte più innovativa era il palco meccanizzato, in grado di ritrarsi in modo da lasciare spazio alla pista da ballo. Sopra era stata istallata una passerella trasparente, dove le ragazze potevano ballare ed essere ammirate dagli ospiti sottostanti.

Lo show, poi rinominato The Midnight Frolic, era un po’ più risqué delle Follies.

Le ballerine erano invitate a indossare della biancheria spessa, per protezione, ma questa regola veniva raramente rispettata.

Parte dello spettacolo consisteva nel scegliere la più bella tra le danzatrici e riportarlo su un’apposita scheda fornita dal locale. La vincitrice vedeva il suo stipendio per quello spettacolo raddoppiato.

Margaret Morris, Kay Laurell, and Florence Cripps on the infamous glass walkway in the Ziegfeld Midnight Frolic of 1916. (talesofamadcapheiress.blogspot.com). via Newyorkerstateofmind.com

Lo show più gettonato di tutti era quello delle “ragazze palloncino” che, passando tra i tavoli, invitavano gli uomini a scoppiare il loro palloncino con i sigari, una sorta di preludio alle famose “conigliette” che più di recente hanno popolato il panorama americano.

Ziegfeld girl Olive Thomas wearing her balloon costume on the stage of the New Amsterdam’s rooftop theatre during the original run of the Midnight Frolic. Male patrons were encouraged to use their cigars and cigarettes to pop the balloons. Photo circa 1915. (Pinterest) via Newyorkerstateofmind.com

White Studio (New York, N.Y.). [Sybil Carmen in “Ziegfeld Midnight Frolic”.] 1915. Museum of the City of New York. Gift of Henry Irving Brock, 1959. 59.271.16 ©The New York Public Library

L’avanguardia di questi spettacoli, però, era a caro prezzo. L’ingresso costava 5 dollari, che corrispondo a circa 120 dollari attuali, in aggiunta al prezzo del biglietto.

Se si voleva stare in prima fila per ammirare le ragazze da più vicino, il costo era 3 dollari (55 dollari odierni), mentre i posti in platea costavano 2,5 dollari.

La rivista teatrale divenne subito un successo, al punto tale che anche le celebrità presenziavano come ospiti fissi.

Ziegfeld, molto lungimirante, per evitare ai signori ospiti di farsi male battendo troppo spesso le mani, mise a disposizione dei martelletti ad ogni tavolo, in modo che potessero essere utilizzati al posto degli applausi.

Lo spettacolo era suddiviso in atti in cui si alternavano vari numeri comici, canori e di danza, con protagonisti del calibro di Frances White, Teddy Gerard, Eddie Cantor e molti altri. Durante la pausa, lunga 25 minuti, gli ospiti potevano cenare, danzare, bere e divertirsi in compagnia, ovviamente ad un costo elevato!

Una birra poteva costare fino a 1 dollaro, cioè quasi 25 dollari odierni e per una piccola bottiglia di champagne servivano 2,75 dollari.

Lo sfarzo era senza limiti. Gli chef dello Ziegfeld erano molto rinomati per le loro bistecche, ma per gli ospiti più esigenti e chic erano presenti scorte di caviale Beluga da poter degustare con lo champagne.

Gli abiti e le scene dello spettacolo potevano costare carissime. Si ricorda che durante la prima guerra mondiale, Ziegfeld, per non abbassare lo standard della sua opera, spese 3000 dollari per degli allestimenti in chiffon raggiungendo costi di produzione che contavano sei zeri.

Alfred Cheney Johnston (1885-1971). [Frances White in “Ziegfeld Midnight Frolic”.] 1919. Museum of the City of New York. Gift of Mrs. William R. Stephenson, 1974. 

Il club rimase aperto tutto l’anno per sei anni e nemmeno la prima guerra mondiale riuscì a impattare la produzione. Fu solamente con il proibizionismo che il sogno d’avanguardia si spense, e Ziegfeld fu costretto a malincuore a chiudere i battenti nel 1922.

Come scrisse il New York Times nei suoi anni d’oro:

“One might search the world and not find anything quite as unique or lavish as this midnight revue.”

Actress Kay Laurell standing on glass platform seen from below, from Midnight Frolic of 1915

Ithell Colquhoun, l’artista tra surrealismo ed occultismo.

Margaret Ithell Colquhoun (Shillong 9.10.1906- Cornovaglia 11.4.1988) nasce da funzionari britannici in Bengala, nell’India Britannica.

In tenera età si trasferisce con i genitori in Inghilterra dove entra nel Chentenham Ladies College e successivamente, nel 1927, alla Slade School of Art di Londra.

Si appassiona di occultismo a 17 anni grazie alla lettura di “Abbey of Thelema” di Aleister Crowley e da questo momento alimenta una ricerca interiore fatta di pratiche esoteriche volte alla conoscenza e alla celebrazione del Femminile Sacro.

Nel 1929 vince lo Slade’s Summer Composition Prize per il suo “Judith Showing the Head of Holofernes” che viene successivamente esposto alla Royal Academy di Londra, un passaggio fondamentale per la sua carriera artistica. In questo periodo Ithell produce molte opere di stampo biblico, con eroine femminili forti e potenti che alcuni credono essere una celebrazione di Artemisia Gentileschi.

Attratta da tutti i tipi di arte, comincia a scrivere, un’abilità che porta avanti parallelamente alla pittura e al disegno, e pubblica il suo primo articolo, “The Prose of Alchemy”, per la Quest Society, nel 1931 .

“Judith Showing the Head of Holofernes”, Ithell Colquhoun, oil on canvas, 1929.

Una tappa essenziale della sua evoluzione pittorica è il suo peregrinaggio in Europa, dove tocca le sponde di Grecia, Corsica, Tenerife e Francia. In questi territori marittimi e opposti all’uggiosa Inghilterra si esercita nella rappresentazione ad acquarello, documentando fedelmente i suoi viaggi e la realtà attorno a sè. La componente umana è totalmente assente nelle sue opere, ma percettibile. I disegni e gli acquarelli, 91 in totale, sono finestre aperte sugli istanti della vita, sulle tracce dell’uomo e dei suoi gesti passati: un letto disfatto, vestiti dismessi, cancelli ed interni popolano il panorama delle sue tele. Ed è proprio con questa produzione che Ithell sfonda con la sua prima mostra alla Cheltenham Art Gallery nel 1936.

“Bed II-Greece”, Ithell Colquhoun, Watercolor and pencil, 1933.

“Gateway”, Ithell Colquhoun, Watercolour and crayon on two sheets of joined paper, 1937.

Ma è a Parigi che la sua strada prende una svolta importante: introdotta al mondo surrealista dei circoli artistici parigini, Ithell si appassiona di questo filone artistico tanto da farlo proprio per tutta la sua vita. Incontra André Breton e Dalì che diventa l’artista che più di tutti riesce a scuoterla e ispirarla.

Nel ’36 partecipa alla International Surrealist Exhibition e qui assiste alla celebre lezione di Dalì in cui, presentatosi vestito con una tuta da immersione, rischia di soffocare. L’esposizione la motiva ulteriormente e comincia a far maturare dentro di lei la consapevolezza che la porta a rielaborare la sua arte da realismo a surrealismo.

I soggetti che dipinge sono piante e fiori, simbolo di fertilità, creatività e sessualità, dove applica strenuamente e con precisione le tecniche apprese.

Innamorata dell’idea surrealista, si unisce al British Surrealist Group nel ’39 e, sempre nello stesso anno, espone con Roland Penrose 14 dipinti a olio e due oggetti alla Mayor Gallery.

Il gruppo surrealista, però, impone l’esclusività e l’artista non può partecipare a nessun altro gruppo, indipendentemente dalla sua natura. Questo limita Ithell che si considera libera e a causa della sua partecipazione ad altri gruppi di stampo occultista, viene espulsa solo un anno dopo.

“Birds of Paradise Flowers”, Ithell Colquhoun, oil on board, c.1936.

“Flowers in a Greenhouse”, Ithell Colquhoun, oil on cavas, 1934.

Ithell non demorde e continua per la sua strada praticando l’arte surrealista a suo modo, sia con le tecniche apprese dai maestri, sia con altre inventate da lei.

Colquhoun infatti utilizza diversi metodi: la decalcomania nell’opera “Gorgone” del 1946; il superautomatismo nell’opera “Curving Forms in skein shapes” del 1948; la stillomanzia nell’opera “Horus” del 1957; il parsemage nell’opera “Sea Mother” del 1950; la grafomania entottica nell’opera “Torn Veil” del 1947 e molte altre.

“Gorgone”, Ithell Colquhoun, oil on board, 1946

“Curving forms in skein shapes”, Ithell Colquhoun, ink, c.1948.

“Horus”, Ithell Colquhoun, ink and wash, c.1957.

“Torn Veil”, Ithell Colquhoun, ink drawing, 1947.

Nel 1943 sposa Toni del Renzo, artista e critico d’arte, che inizialmente aveva recensito una sua mostra. Il matrimonio dura solo quattro anni e si conclude con un aspro divorzio.

Parallelamente all’attività pittorica si dedica alla poesia e alla prosa, che ritiene forme di espressione altrettanto surrealiste.

Durante gli anni ’50 abbandona la pittura. Di questo periodo si contano anni senza una singola produzione.

Nel 1955 pubblica “The Crying of the Wind”, un diario di viaggio; nel 1973 il “Grimore of the entangled Thicket” una raccolta di poesie e disegni ispirato a favole Gallesi pre cristiane, nel 1983 “Osmazone”, un’antologia di prosa e poesia.

Nel 1957 si trasferisce a Paul, in Cornovaglia, dove trascorre i restanti anni della sua vita.

Negli ultimi anni ritorna alle rappresentazioni naturali che continuano a ricalcare il suo mondo interiore. Le tecniche sono le stesse imparate negli anni della gioventù, in particolare la decalcomania, mentre la componente sessuale che contraddistingueva i suoi primi lavori, qui risulta diminuita o totalmente assente. Le composizioni sono semplici ed immediate, come in “A Rose is a Rose is a Rose” del 1980. Anche la tecnica del collage diventa predominante nei suoi lavori. Ne sono un esempio “Cornish Landscape” del 1971 e “Bird of Passage” del 1963.

“A Rose is a Rose is a Rose”, Ithell Colquhoun, Acrylic on board, 1980.

“Birds of Passage”, Ithell Colquhoun, Collage, 1963.

Alla sua morte lascia i diritti delle sue opere all’associazione The Samaritans, il suo lavoro sull’occulto alla Tate e le restanti opere al National Trust.

Nel 2019 Tate compra la partecipazione delle opere del National Trust.

Ithell fu un’artista autodidatta, come disse lei:

“I am teaching myself to carve and to write. Sometimes I copy nature, sometimes imagination: they are equally useful.” 1

Le sue opere nascono nei temi classici del surrealismo: il subconscio, i sogni, la psicanalisi tanto cara agli esponenti di questo movimento, ma si incarnano profondamente in temi come il genere e la sessualità, il Divino Femminile, l’ordine del cosmo, la transizione e la trasformazione così come l’influenza orientale.

Troviamo però anche temi politici come in “Tepid Waters” per la guerra civile spagnola.

Ithell è rimasta per tutta la vita legata al surrealismo e alle sue tradizioni rappresentative. L’occultismo, una parte fondamentale della sua vita, si è articolato perfettamente nelle sue opere dove ha realizzato opere fortemente simboliche e ricche di significato.

È possibile vedere le sue opere nella mostra “Ithell Colquhoun: Between Worlds”, Tate, fino al 5 maggio 2025.

  1. Colquhoun, I. “What do I need to paint a picture?” London Bulletin, No. 17, 15th June 1939. p13 ↩︎

Breve Compendio di mare e di conchiglie

Da sempre ricca di fascino, la conchiglia incarna una serie di significati variegati e legati perlopiù al mondo delle emozioni e dell’inconscio.

Portatrice di bellezza raggiunge l’apice della perfezione nella sua struttura equilibrata e matematica, fonte di ispirazione per artisti e studiosi di ogni epoca.

Rinascita, fecondità, profondità di animo, mistero, femminilità, amore sono solo alcuni dei significati che le sono stati attribuiti nel corso dei secoli. Non resta che meravigliarsi di fronte alla bellezza di questa creazione ricalcata nell’arte di molti.

Home of Pierre Le Tan as seen by Duncan Grant featuring a grotto chair and a seventeen century Venice console. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Portrait of a lady in an allegorical guise, holding a dish of pearls, Pierre Mignard I. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Ancient Egyptian gold cosmetics vessels. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Syrinx Aruanus. Photo from 1950. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Detail from Persia and Andromeda, Joachim Wtewael, 1911. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Nautilus Cup, Holbein Bowl, Glass Goblet and Fruit Dish, detail, Willem Kalf, 1678. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Casa Nautilus, Città del Messico.

Wedgwood collection of pearlware shell plates. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

L’artista tra genio e pazzia

Tra tutti gli artisti del ‘900 uno in particolare conquistò l’interesse di André Breton che arrivò a studiarne la personalità e la produzione.

Adolf Wölfli (Bowli 29.02.1864- Berna 06.11.1930) fu l’esempio vivente del rapporto viscerale tra genio e follia.

General View of the Island Neveranger, Adolf Wölfli, 1911

Nato in una famiglia contadina povera, ultimo di sette fratelli, sin dall’infanzia incontra terribili difficoltà. Il padre, alcolizzato, finisce in prigione e abbandona la famiglia quando Adolf ha soli 6 anni. La madre, lavandaia, non può permettersi di mantenere sette figli così, nel 1873, il piccolo Adolf viene venduto come bracciante.

Alla morte della madre, insorta l’anno dopo, Adolf viene affidato a diverse famiglie che spesso lo maltrattano e abusano di lui.

Responsabile di diversi tentativi di stupro (alcuni ai danni di bambine di 3 e 5 anni) finisce nel manicomio Waldau nel 1895.

Qui la diagnosi di schizofrenia sembra chiarire la condizione dell’uomo che spesso è fortemente agitato, violento e sente le voci.

Nei 35 anni trascorsi all’interno della struttura, passa la totalità del tempo a disegnare e realizzare una biografia monumentale di oltre 25mila pagine.

Il disegno, incoraggiato anche dai terapeuti e dallo psichiatra responsabile, Walter Morgenthaler, sembra calmarlo e dargli un obiettivo di vita che prende seriamente a cuore e che persegue facendosi mettere spesso in isolamento per avere la concentrazione adatta a immergersi nel suo personalissimo mondo.

Irren Anstalt Brand Hain, Adolf Wölfli, 1910

Adolf prende spunto da ogni cosa: riviste, atlanti, cartoline, libri… reinventa la sua vita, il suo passato e il suo futuro nell’ottica, un po’ infantile, di un mondo altro, immaginario, in cui lui stesso è il protagonista unico e assoluto.

Crea parole, immagini, disegni, collage, spartiti musicali che diligentemente assembla nella sua biografia chiamata “Leggenda di Sant’Adolfo”.

Inizialmente scrive con lo pseudonimo di Doufi, nomignolo di quando era bambino, successivamente adotta il nome d’arte di St. Adolf II, protagonista di una battaglia cosmica creata dalla sua mente geniale.

London North, Adolf Wölfli, 1910

Adolf viene studiato per tutta la sua vita. Il dottor Morgenthaler ne scrive una biografia nel 1921, attribuendo al paziente un’abilità artistica innata, forse germogliata proprio in seno alla malattia, mentre Freud ne rimane affascinato.

Wölfi era incolto anche se alcune fonti riferiscono che avesse avuto un umile approccio scolastico finendo i primi anni di scuola. Sicuramente inesperto d’arte, divenne nel corso dei decenni uno dei principali esponenti dell’Art Brut, avvicinandosi alle neoavanguardie del ‘900.

Holy St. Adolf Tower, Adolf Wölfli, 1919

La sua opera è caratterizzata da un estremo ornamento, spesso incorniciato, in cui ritrae con diverse tecniche la realtà. La ripetizione è la chiave del suo lavoro e si mostra meticolosa anche se a tratti infantile, mancando un vero e proprio apporto prospettico alle opere. Dettagli, ghirigori e simboli sono fortemente presenti nell’opera di Wölfi e contribuiscono a creare il mondo immaginario dello stesso artista.

Pioniere rispetto ai tempi in cui viveva, Adolf utilizza la fotografia della lattina di zuppa di pomodoro Campbell nel 1929, Andy Warhol farà lo stesso solo trent’anni dopo.

Campbell’s Tomato Soup, Adolf Wölfli, 1929

Alla sua morte, avvenuta a causa di un tumore allo stomaco, Wölfi viene dimenticato.

Riscoperto da Jean Dubuffet nel 1945, ritorna in auge e viene esposto nel 1972.

Di lui ci rimangono 1300 disegni, quaderni scritti in parole e musica e 25mila pagine di biografia (i cui quaderni raggiungono l’altezza di oltre due metri!).

La sua storia, intrecciata con le vicende personali difficili, violente e illegali, sembra sottolineare uno stretto rapporto tra l’atto creativo e le facoltà mentali.

In quest’ottica Adolf Wölfi rappresenta in tutto e per tutto l’epiteto del genio folle, della visione creativa che nasce e si nutre della pazzia e dei disturbi mentali e che tuttavia rimane una caratteristica innata propria dell’individuo che ancora ci meraviglia e ci stupisce, nascosta nell’intricato mistero della mente umana.

La sua arte è esposta al museo des Beaux-Arts di Berna. Qui il link: https://www.adolfwoelfli.ch

The World of Tomorrow

Era il 1939 quando al Flushing Meadows-Corona Park nel Queens (NY) veniva organizzata la seconda fiera americana più cara di sempre, con un costo di oltre 67 milioni di dollari.

Ma facciamo un passo indietro.

Nel 1935, ancora in ballo nella Grande Depressione, diversi businessmen NewYorkesi decisero di fondare la New York World’s Fair Corporation, con uffici ai piani alti dell’Empire State Building.

Il presidente eletto fu Grover Whalen, politico e uomo di affari, e tra i partecipanti alla corporazione vi era anche il Sindaco Fiorello la Guardia che rimase in carica fino al ’46.

L’obiettivo di questi imprenditori e uomini d’affari era quello di portare una ventata di fresca economia a New York favorendo il commercio e lo scambio internazionale.

La Corporation decise quindi di inaugurare una fiera aprendo i cancelli il giorno del 150° anniversario dell’inaugurazione di George Washington come presidente degli Stati Uniti e chiamandola “The World of Tomorrow”.

Si trattava di un evento di portata stratosferica, il più importante in maniera indiscussa dalla prima guerra mondiale.

Il presidente Whalen aveva idee precise in merito alla tematica della fiera: i beni di consumo. Emblematica fu l’introduzione della televisione come oggetto ormai alla portata di tutti.

Per farsi pubblicità utilizzarono delle fasce disposte sul braccio sinistro degli atleti dei Brooklyn Dodgers, NY Giants e NY Yankees, oltre alla sponsorizzazione in giro per il mondo operata da Howard Hughes con il suo aereo.

L’apertura ufficiale fu fissata il 30 aprile 1939, una domenica nuvolosa. Solo il primo giorno arrivarono ai cancelli 206mila persone.

Diverse personalità presenziarono con discorsi di varia natura. Da Roosevelt ad Einstein, per passare a diverse star del cinema.

All’interno erano presenti diversi padiglioni provenienti da tutte le parti del mondo e dal design diverso e innovativo.

7 erano le zone tematiche, diverse architettonicamente, alcune costruite in maniera semicircolare attorno al centro realizzato da W. Harrison e M. Abramovitz che consisteva in due bianchi edifici chiamati Trylon e Perisphere ( all’interno di quest’ultimo vi era un modellino della città del futuro).

Il padiglione italiano, costato oltre 3 milioni, era caratterizzato da uno stile romano integrato con l’architettura più moderna. Una fontana alta 61 metri ne coronava l’entrata ed era dedicata a Guglielmo Marconi. Nella Hall of Nations il pavimento a mosaico circondava una statua della Lupa, madre di Romolo, tutt’intorno sulle pareti vi erano raffigurazioni dell’impero moderno realizzate in marmo nero e stucco romano bianco. Al centro della Hall troneggiava una statua in bronzo di Benito Mussolini realizzata da Romano Romanelli.

Il famoso ristorante italiano ospitato nel padiglione aveva invece l’aspetto di una lussuosa nave da crociera per mimare la tradizione italiana.

Tra gli altri luoghi di interesse c’era sicuramente la Westinghouse Time Capsule, destinata ad essere aperta solamente nel 6939 e contenente scritti di Einstein, Mann, copie di Life Magazine, un orologio di Mickey Mouse, un rasoio Gillette, un dollaro, un pacchetto di sigarette Camel, semi di varie specie tra cui cotone, soia, carota e tabacco e molto altro.

Nella Westinghouse era presente anche “Elektro the Moto Man”. Si trattava di un robot alto 2,1 metri in grado di parlare e fumare.

A sud della fiera c’era il World’s Fair Boulevard con l’area Amusement, decisamente la preferita dai visitatori. Qui potevano intrattenersi su montagne russe, attrazioni di varia natura come una torre da cui paracadutarsi e repliche di vari luoghi naturali come le Victoria Falls. In questa zona vi erano anche esibizioni di uccelli e animali rari, un orangotango addomesticato, tre elefanti performanti e la possibilità di fare dei brevi viaggi sul dorso dei cammelli.

Per intrattenere il pubblico venivano organizzati anche spettacoli esotici, con donne in topless o in costume.

Nella zona Acquacade venivano realizzati musical con giochi d’acqua e coreografie irriverenti al costo di 80 cent.

Ogni giorno all’interno della fiera era a tema. Per esempio il 3 Giugno 1940 fu il “Superman Day”, in cui si realizzò un Contest atletico e ci fu la presenza dello stesso Superman, probabilmente interpretato da Bud Collyer.

Tra istallazioni per il divertimento, ristoranti, padiglioni coronati da sculture e fontane di rara bellezza come “The Fountain of Atom” realizzata da Wayland Gregory in ceramica, padiglioni realizzati da Salvador Dali o altri personaggi di un certo spessore, un planetario e varie istallazioni artistiche, rimaneva poco spazio per la scienza e l’innovazione.

Alcune delle introduzioni che vennero fatte furono la luce fluorescente, il nylon, i set televisivi, una macchina futuristica, un temperino e poco altro.

Fortemente voluta per la classe media emergente e per superare le avversità della Grande Depressione, ospitò oltre 44 milioni di visitatori e durò da Aprile ad Ottobre 1939 e da Aprile a Ottobre del 1940.

Con un guadagno di soli 48 milioni di dollari di fronte alla spesa di oltre 67, chiuse ufficialmente i battenti il 27 Ottobre 1940 a causa della bancarotta.

Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
Futurama General Motors at World’s Fair, architectural model of NYC in the future
The General Motors Pavilion is a popular site at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The National Cash Register building shows the number of persons in attendance at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Wonder Bakery displays a wheat field exhibit at the 1939 World’s Fair. The model, Penelope Shoo, is wearing an outfit designed by Hattie Carnegie. The wheat field was billed as “the first planted in New York City since 1875.” (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Ford Cars Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
An aerial view of the 1939 World’s Fair shows the music hall advertising Hot Mikado with Bill Robinson. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)

Two women pose on a Kodak photo posing stand during the 1939 New York World’s Fair. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A statue decorates the entrance to the Maritime Transport and Commerce Pavilion at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The General Motors Pavilion is a popular site at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
General Motors displays a transparent car in the pavilion at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Glass Incorporated Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Aquacade Floor Show at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Ford Car Parts Display at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Tomas Bata exhibit, in the Czechoslovakian Pavilion, at the 1939 World’s Fair. Bata (1828-1932) was a Czech industrialist who founded a large shoe factory. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A model of New York as the “City of Light,” in the Consolidated Edison Pavilion, at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
“Futurama” model in the General Motors Pavailion at the 1939 New York World’s Fair. The exhibit was designed by Norman Bel Geddes. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Stuffed Moose in Canadian Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Lucky Strike Cigarettes and Wonderbread buildings are shown illuminated at the 1939 World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Electric Utilities Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Firestone Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The General Electric and Westinghouse pavilions are attractions at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A statue of a Pony Express carrier being ambushed by Native Americans, at the American Telephone and Telegraph Pavilion, at the 1939 World’s Fair. | Located in: American Telephone and Telegraph Pavilion. (Photo by �� Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Chrysler Pavilion at 1939 World’s Fair (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Time and the Fates of Man sculpture and the Perisphere, at the 1939 New York World’s Fair. | Detail of: ‘Time and the Fates of Man’ by Paul Manship. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
A row of statues leads to the Perisphere and Trylon at the 1939 New York World’s Fair. (Photo by © Peter Campbell/CORBIS/Corbis via Getty Images)
The Lucky Strike Cigarettes, Wonder Bread Bakery, and Sheffield Farms buildings stand on part of the grounds of the 1939 New York World’s Fair. Peter Campbell / Corbis via Getty

The Life Savers Candy Parachute Jump. Adults paid 40 cents a trip; children paid 25 cents. After the fair, the ride was moved to Coney Island, where it operated on and off until the 1960s. Peter Campbell / Corbis via Getty

People visit the Trylon and Perisphere at the 1939 New York World’s Fair. Inside the Perisphere was a diorama of a futuristic utopian city named Democracity. After viewing, visitors would leave by descending a long spiral walkway named the Helicline.Peter Campbell / Corbis via Getty

Donne d’arte: la prosa di Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese.

Nata il 13 Giugno del 1914, Anna Maria Ortese trascorre la vita migrando da una città all’altra. La sua formazione scolastica è minima, senza picchi artistici, ma è la sua volontà di imparare da autodidatta che le permette di crescere artisticamente sin dalla tenera età.

Una vita difficile quella di Anna Maria, che subisce due lutti importanti in famiglia. La morte degli amati fratelli Emanuele nel ’33 e il gemello Antonio nel ’37, lascia in lei un profondo senso di tristezza e solitudine che alimenta la sua scrittura e plasma il suo carattere. 

Lei stessa arriva a dire “I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può davvero trovarsi”. Una porta aperta, una mano tesa per coloro che come lei sono stati toccati dalla potenza distruttiva dell’esistenza.

Nel ’37 pubblica la sua prima raccolta, “Angelici Dolori” che viene accolta in maniera divisiva.

Dal 1939 comincia a scrivere per diverse riviste come il Mattino, Il Messaggero e il Corriere della Sera affinando la sua abilità.  

È nel 1945 che inizia il suo sodalizio d’oro, non con un autore, bensì con una città di cui Ortese si innamora perdutamente e che comincia a descrivere nei suoi racconti come una casa ritrovata, un luogo che si esprime chiaramente nella sua confusione e che definisce eccezionale: Napoli. 

È proprio da questo rapporto viscerale che nasce “Il mare non bagna Napoli” che vince il premio speciale per la narrativa al Premio Viareggio del 1953. Una raccolta di racconti evocativi con protagonista la città dilaniata dal dopoguerra, in cui vivono ancora intellettuali e letterati che l’autrice ritrae nelle loro miserie e nelle loro gioie.

Questa raccolta la porta ad una rottura con le personalità di Napoli e a un successivo trasferimento al nord dove, nonostante tutto, non riesce mai a dimenticare la città amata.

Nel 1967 pubblica il romanzo “Poveri e Semplici” che vince il Premio Strega, un altro importante traguardo della sua carriera. Nel 1975 si trasferisce a Rapallo, luogo che ospiterà le sue spoglie mortali fino all’ultimo giorno della sua esistenza, il 9 marzo 1998.

La vita di Anna Maria è coronata dalla sofferenza, dallo sradicamento e dal bisogno di scrivere come modo per ritornare a casa. Una sorta di riparazione alla vita, all’essere in vita, che comporta un costo, un dispendio di una parte di noi che viene inevitabilmente persa negli eventi caotici che ci toccano. La sua arte abbraccia l’invisibile come parte del reale e si accosta al realismo magico, al surrealismo, senza però venirne definita appieno.

Ortese concretizza il suo apice artistico nella forma del racconto breve, con virgole frequenti; una scrittura moderna e metamorfica, in cui le metafore servono a comprendere il mondo e sé stessi in maniera profonda e a radicarsi in qualsiasi cosa ci possa offrire accoglienza. 

Come una sorta di rivoluzionaria Leopardi si immerge nel suo dolore ma lo tramuta, lo specchia nella struttura stessa della città di Napoli, una città che definisce grigia, ma intensa di colori, ricca e piena di contraddizioni.

Accostabile alla pittura di Thomas Jones, che ritrae Napoli usando proprio quel grigiume e quella pietra che Anna Maria ricalca nei suoi scritti, Ortese realizza un perfetto ritratto di Napoli, della donna come condizione sovversiva e di sé stessa come animo gentile, ma bestiale, che scava nel profondo della realtà per trovare una comunione con il cosmo intero.

La poesia innovativa ed esotica di Paul Poiret

Siamo agli inizi del Novecento, quando la Haute Couture rappresentava il modello di punta della moda parigina e interessava tutte le donne di buon gusto. Uscire di casa era un’occasione per mettere in mostra stoffe e gioielli e per ricordare ai propri simili lo status sociale di appartenenza.

Paul Poiret, figlio di un commerciante di tessuti, aveva manifestato sin dalla tenera età, una forte propensione per il disegno. Finite le scuole andò a lavorare presso un negozio di ombrelli, lavoro noioso e poco creativo, che però gli diede la spinta necessaria a mettere su carta delle toilettes di fantasia. Vendendole alle case di moda riuscì a mettersi da parte qualche soldo per arrotondare finché non gli fu proposto un contratto in esclusiva per la maison Doucet, nel 1898.

Adibito alla sezione del taglio, la sua creatività che sfociava spesso nella teatralità, lo incanalò verso la realizzazione di preziosi costumi di scena per le attrici in voga al tempo.

Il suo primo lavoro importante fu un mantello di taffettà nero, dipinto da Billotey con grandi Iris Mauve e bianchi e ricoperto di tulle creato per Réjane. Ad esso seguirono svariati lavori per Mistinguett e Ida Rubistein.

Nel 1901 cominciò a lavorare per Worth, grande casa di moda che però stava perdendo vigore di fronte ai cambiamenti apportati al vestiario. Il compito di Paul era quello di rendere innovativa l’immagine della maison apportando modifiche più giovanili e sbarazzine, tipiche del nuovo secolo di promesse e buone intenzioni.

Il cambiamento si rivelò arduo; le clienti erano ancora troppo affezionate allo stile pomposo portato avanti dalla maison e difficilmente si lasciavano condizionare dallo stile eclettico che Poiret voleva introdurre. L’unico abito che si concretizzò diventando un successo fu l’abito “Byzantine”, completamente ricamato in oro e argento, con uno strascico bordato di zibellino, fu indossato in occasione di un matrimonio mondano ed ebbe l’effetto di mettere in secondo piano la sposa.

Nel 1903 Poiret aprì la sua prima maison al 5 di Rue Auber. La particolarità di questo negozio situato dietro l’Opéra fu quella di avere delle vetrine dotate di esposizioni spettacolari, talmente belle da diventare famose presso tutta la città.

Vetrina della Maison Poiret. 5 Rue Auber in “Le Figaro Modes”, febbraio 1904

La sua moda diventò presto famosa e ricercatissima: linee semplice e innovazione erano le parole chiave di questa nuova prospettiva fondata sulla morbidezza piuttosto che sulla compostezza del passato. Celebre fu il modello a “Kimono” che diventò un’istanza nella Parigi del tempo. Si stava infatti diffondendo un forte senso di esotismo che piaceva molto alle donne occidentali.

Nel 1906 spostò l’atelier al 37 di Rue Pasquier dove organizzò la struttura in reparti specializzati. In quest’ottica innovativa sperimentò per la prima volta gli abiti senza busto che fino ad allora avevano costretto il corpo femminile nella famosa linea ad S. Il primo abito, senza corsetto, fu denominato “Lola Montes” ed indossato da Denise, sua moglie, in occasione del battesimo della loro primogenita. C’è da dire che in realtà Poiret non cancellò del tutto il corsetto, piuttosto lo riadattò in modo da mettere in risalto la naturale bellezza femminile semplificandone l’aspetto.

Si interessò anche al periodo neoclassico realizzando abiti in tessuti innovativi con stoffe che guardavano alla pittura d’avanguardia europea, in particolare modo ai fauves come Matisse e Derain. Importante fu anche l’uso dei colori che al tempo erano tenui e poco vivaci. Poiret introdusse il rosso, il verde e molti altri, per dare più espressione all’anemia del tempo. Il modello chiave della collezione fu l’abito “Joséphine” su ispirazione del modello Impero ed insieme ad esso propose abiti di ispirazione esotica guardando principalmente al Giappone e alla Cina.

Nel 1908 si concretizzò un sodalizio vitale per la moda di Poiret: venne pubblicato un album intitolato “Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe”, contenente dieci tavole a colori e pubblicato in un numero ridotto di 150 copie. Qui si potevano osservare i modelli della maison ed oltre a ciò comprenderne a fondo anche lo spirito artistico. Le donne erano ritratte alte e sottili, senza forme in vista, con i capelli corti avvolti da un nastro colorato. Importante in questi anni fu anche l’attenzione rivolta ai Ballets Russes che cominciarono a diffondersi a macchia d’olio a Parigi.

Paul Iribe per Paul Poiret.

Accanto alla naturale propensione per la creazione di abiti meravigliosi, Poiret si interessò anche ai profumi e all’arredamento, allargando ulteriormente la maison fino a farla diventare un marchio vero e proprio connotato da eleganza e stile.

Durante gli anni della prima guerra mondiale la casa di moda subì delle ingenti perdite che non furono mai del tutto risanate. Quando lo stilista riuscì a ripartire con le sue creazioni, le idee che trasmetteva non risultavano più coerenti con lo spirito del tempo e la stessa clientela che un tempo lo aveva preso come riferimento ora lo metteva da parte in funzione di qualcosa di più moderno e innovativo. Fu così che la maison chiuse i battenti lasciando solamente il ricordo della sfarzosità e insieme semplicità che era riuscita a creare nel corso degli anni del suo splendore.

Paul Poiret, modello “Linzeler”, 1919.

La bellezza surreale nell’arte di Harry Clarke

Harry Clarke, originario dell’Irlanda, fu un disegnatore molto prolifico che visse a cavallo tra l’800 e il ‘900.

Figlio di un artista impegnato nella decorazione di vetrate, anch’egli si interessò ben presto a questa particolare branca artistica imparando nuove tecniche sempre più raffinate per creare lavori di assoluta bellezza.

L’influenza principale della sua vena artistica fu sicuramente l’art Nouveau che si può individuare in molte delle sue opere.

Fu anche illustratore di libri e pubblicò nel 1916 il suo primo libro.

Si trattava di diverse illustrazioni delle favole di Hans C. Andersen. Questo includeva 16 tavole realizzate a colori e 24 in bianco e nero. L’opera più importante, però, fu sicuramente la realizzazione di un libro illustrato per “Tales of Mistery and Imagination” di Edgar Allan Poe, nel 1919. Molti artisti prima di lui avevano provato a cimentarsi in questa difficile e delicata opera, invano.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, mostrano dei dettagli spiazzanti e linee precise, meticolose, fino al limite dell’ossessione. I personaggi sono vibranti di emozioni e vivi nel loro essere, con una profondità di espressione difficile da realizzare.

Dopo quest’avventura, che vide diverse pubblicazioni e rifiniture alle tavole, acquistò un certo prestigio come illustratore, facendosi spazio tra i grandi di questo mondo artistico.

Importanti e di straordinaria bellezza sono anche le sue vetrate caratterizzate da disegni fini e precisi e dall’uso sapiente e ricco del colore. Generalmente queste trattano soggetti religiosi di varia natura e sono destinate a cattedrali e chiese.

Morì a causa della salute cagionevole che gli aveva procurato una grave tubercolosi nel 1931 lasciando un vastissimo patrimonio ancora oggi visibile in diverse parti della Gran Bretagna.

La rivista risqué prima di Playboy

Prima delle pagine patinate di Playboy e dell’erotismo moderno esisteva una rivista dal fare peccaminoso, nata in Francia nel 1863.

Si chiamava la Vie Parisienne, la vita Parigina, quasi a voler offrire una finestra sulla realtà di questa bellissima città.

La rivista, pubblicata settimanalmente, continuò ad essere popolare e molto letta sino al 1970, anno in cui non venne più data alle stampe, dopo oltre un secolo di successo.

Nata inizialmente come un mix di diversi aspetti innovativi- dai racconti brevi al gossip e al fashion- nel 1905 prese una direzione totalmente diversa che la orientò su un panorama decisamente erotico per il tempo.

Le pagine peccaminose che ritraevano giovani donne in mise provocanti e seducenti erano viste di cattivo occhio dagli Americani più conservatori durante la I guerra mondiale, tanto che i soldati dell’esercito vennero invitati a non comprare più la rivista, per tutelare il loro spirito.

Elemento importante sono sicuramente le raffigurazioni artistiche realizzate per ciascun numero. Queste inglobano aspetti dell’art Nouveau e Deco ripercorrendo i movimenti artistici del tempo e colorando la scrittura di elementi satirici e intellettuali.

Numerosi scrittori parteciparono alla redazione della rivista, con pubblicazioni occasionali. Tra questi troviamo anche la celeberrima Colette che fu giornalista e scrittrice ed estremamente popolare nel mondo.

Ad oggi la rivista non è più realizzata, ma rimangono delle collezioni sparse per tutto il mondo dove è possibile ammirare i dettagli delle illustrazioni e gli interessi che animavano le persone di cent’anni fa.

Frank Lloyd Wright, pioniere dell’architettura organica

Frank Lloyd Wright è sicuramente uno degli esponenti più illustri dell’architettura organica americana.

Nato dopo la prima metà del 1800 da una famiglia abbiente di origini Inglesi e Gallesi, si sposta spesso in gioventù a causa del lavoro del padre. I genitori divorziano quando lui ha solo 18 anni e proprio grazie al cambiamento famigliare così importante si riscopre sempre più profondamente attratto dall’architettura.

Appassionato di arte giapponese, trascorre diversi anni della sua vita nello stesso Giappone dove si lascia influenzare e ispirare per le sue architetture innovative.

Fu un pioniere nell’ambito dell’architettura organica, movimento del XX secolo volto a unire in maniera serena e equilibrata l’aspetto architettonico realizzato dall’uomo e la natura circostante.

Questa innovativa corrente di pensiero si trovava in contrasto con il rigore accademico e i classicismi imposti dal secolo precedente. Wright voleva, al contrario, imbrigliare l’essenza delle sue opere in un connubio perfetto di armonia e di rispetto verso l’ambiente circostante. Anche l’arredamento e gli interni risultavano importanti in questa nuova filosofia. Tutto infatti era all’insegna dell’equilibrio per creare uno spazio armonico che non fosse “altro” dall’esterno.

Fece numerosi progetti, oltre 1000, e ne realizzò almeno la metà, in varie parti del mondo.

L’esempio più illustre della sua visione architettonica è sicuramente la casa sulla cascata, o casa Kaufmann.

Questa villa venne realizzata nel ’39 per Edgar J. Kaufmann, un commerciante molto ricco di Pittsburgh, sulle rive del ruscello Bear Run che scorreva liberamente nei boschi dell’ovest della Pennsylvania.

Particolarità della struttura è quella di collocarsi su vari piani sovrapposti che si integrano perfettamente con i cambiamenti naturali del corso d’acqua. Il richiamo alle rocce stratificate circostanti crea un effetto scenico impressionante, dovuto anche alla presenza di una cascata naturale che scorre, quasi letteralmente, attraverso la struttura.

Per la struttura Wright decise di usare del calcestruzzo color beige, in modo da fondere ancora di più l’ambiente architettonico con quello boschivo circostante.

La casa rimase una casa vacanze fino ai primi anni ’60 quando venne donata alla Wester Pennsylvania Conservancy che la fece diventare una casa museo aperta al pubblico e ancora totalmente arredata secondo la visione originaria del suo architetto.

Nel corso degli anni si sono resi necessari dei lavori di manutenzione della struttura, che risultava precaria, con inserimenti in acciaio per sostenere le varie deformazioni.

Nel 2019 è stata inserita nell’UNESCO, insieme ad altre opere con la stessa paternità.

La casa sulla cascata

La casa sulla cascata

Esempio Interno cucina realizzato da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Esempio di salotto ideato da F.L.W

Esempio di interno cucina realizzato da F.L.W per la casa del figlio

Casa realizzata da F.L.W