Da sempre ricca di fascino, la conchiglia incarna una serie di significati variegati e legati perlopiù al mondo delle emozioni e dell’inconscio.
Portatrice di bellezza raggiunge l’apice della perfezione nella sua struttura equilibrata e matematica, fonte di ispirazione per artisti e studiosi di ogni epoca.
Rinascita, fecondità, profondità di animo, mistero, femminilità, amore sono solo alcuni dei significati che le sono stati attribuiti nel corso dei secoli. Non resta che meravigliarsi di fronte alla bellezza di questa creazione ricalcata nell’arte di molti.
Tra tutti gli artisti del ‘900 uno in particolare conquistò l’interesse di André Breton che arrivò a studiarne la personalità e la produzione.
Adolf Wölfli (Bowli 29.02.1864- Berna 06.11.1930) fu l’esempio vivente del rapporto viscerale tra genio e follia.
Nato in una famiglia contadina povera, ultimo di sette fratelli, sin dall’infanzia incontra terribili difficoltà. Il padre, alcolizzato, finisce in prigione e abbandona la famiglia quando Adolf ha soli 6 anni. La madre, lavandaia, non può permettersi di mantenere sette figli così, nel 1873, il piccolo Adolf viene venduto come bracciante.
Alla morte della madre, insorta l’anno dopo, Adolf viene affidato a diverse famiglie che spesso lo maltrattano e abusano di lui.
Responsabile di diversi tentativi di stupro (alcuni ai danni di bambine di 3 e 5 anni) finisce nel manicomio Waldau nel 1895.
Qui la diagnosi di schizofrenia sembra chiarire la condizione dell’uomo che spesso è fortemente agitato, violento e sente le voci.
Nei 35 anni trascorsi all’interno della struttura, passa la totalità del tempo a disegnare e realizzare una biografia monumentale di oltre 25mila pagine.
Il disegno, incoraggiato anche dai terapeuti e dallo psichiatra responsabile, Walter Morgenthaler, sembra calmarlo e dargli un obiettivo di vita che prende seriamente a cuore e che persegue facendosi mettere spesso in isolamento per avere la concentrazione adatta a immergersi nel suo personalissimo mondo.
Adolf prende spunto da ogni cosa: riviste, atlanti, cartoline, libri… reinventa la sua vita, il suo passato e il suo futuro nell’ottica, un po’ infantile, di un mondo altro, immaginario, in cui lui stesso è il protagonista unico e assoluto.
Crea parole, immagini, disegni, collage, spartiti musicali che diligentemente assembla nella sua biografia chiamata “Leggenda di Sant’Adolfo”.
Inizialmente scrive con lo pseudonimo di Doufi, nomignolo di quando era bambino, successivamente adotta il nome d’arte di St. Adolf II, protagonista di una battaglia cosmica creata dalla sua mente geniale.
Adolf viene studiato per tutta la sua vita. Il dottor Morgenthaler ne scrive una biografia nel 1921, attribuendo al paziente un’abilità artistica innata, forse germogliata proprio in seno alla malattia, mentre Freud ne rimane affascinato.
Wölfi era incolto anche se alcune fonti riferiscono che avesse avuto un umile approccio scolastico finendo i primi anni di scuola. Sicuramente inesperto d’arte, divenne nel corso dei decenni uno dei principali esponenti dell’Art Brut, avvicinandosi alle neoavanguardie del ‘900.
La sua opera è caratterizzata da un estremo ornamento, spesso incorniciato, in cui ritrae con diverse tecniche la realtà. La ripetizione è la chiave del suo lavoro e si mostra meticolosa anche se a tratti infantile, mancando un vero e proprio apporto prospettico alle opere. Dettagli, ghirigori e simboli sono fortemente presenti nell’opera di Wölfi e contribuiscono a creare il mondo immaginario dello stesso artista.
Pioniere rispetto ai tempi in cui viveva, Adolf utilizza la fotografia della lattina di zuppa di pomodoro Campbell nel 1929, Andy Warhol farà lo stesso solo trent’anni dopo.
Alla sua morte, avvenuta a causa di un tumore allo stomaco, Wölfi viene dimenticato.
Riscoperto da Jean Dubuffet nel 1945, ritorna in auge e viene esposto nel 1972.
Di lui ci rimangono 1300 disegni, quaderni scritti in parole e musica e 25mila pagine di biografia (i cui quaderni raggiungono l’altezza di oltre due metri!).
La sua storia, intrecciata con le vicende personali difficili, violente e illegali, sembra sottolineare uno stretto rapporto tra l’atto creativo e le facoltà mentali.
In quest’ottica Adolf Wölfi rappresenta in tutto e per tutto l’epiteto del genio folle, della visione creativa che nasce e si nutre della pazzia e dei disturbi mentali e che tuttavia rimane una caratteristica innata propria dell’individuo che ancora ci meraviglia e ci stupisce, nascosta nell’intricato mistero della mente umana.
Era il 1939 quando al Flushing Meadows-Corona Park nel Queens (NY) veniva organizzata la seconda fiera americana più cara di sempre, con un costo di oltre 67 milioni di dollari.
Ma facciamo un passo indietro.
Nel 1935, ancora in ballo nella Grande Depressione, diversi businessmen NewYorkesi decisero di fondare la New York World’s Fair Corporation, con uffici ai piani alti dell’Empire State Building.
Il presidente eletto fu Grover Whalen, politico e uomo di affari, e tra i partecipanti alla corporazione vi era anche il Sindaco Fiorello la Guardia che rimase in carica fino al ’46.
L’obiettivo di questi imprenditori e uomini d’affari era quello di portare una ventata di fresca economia a New York favorendo il commercio e lo scambio internazionale.
La Corporation decise quindi di inaugurare una fiera aprendo i cancelli il giorno del 150° anniversario dell’inaugurazione di George Washington come presidente degli Stati Uniti e chiamandola “The World of Tomorrow”.
Si trattava di un evento di portata stratosferica, il più importante in maniera indiscussa dalla prima guerra mondiale.
Il presidente Whalen aveva idee precise in merito alla tematica della fiera: i beni di consumo. Emblematica fu l’introduzione della televisione come oggetto ormai alla portata di tutti.
Per farsi pubblicità utilizzarono delle fasce disposte sul braccio sinistro degli atleti dei Brooklyn Dodgers, NY Giants e NY Yankees, oltre alla sponsorizzazione in giro per il mondo operata da Howard Hughes con il suo aereo.
L’apertura ufficiale fu fissata il 30 aprile 1939, una domenica nuvolosa. Solo il primo giorno arrivarono ai cancelli 206mila persone.
Diverse personalità presenziarono con discorsi di varia natura. Da Roosevelt ad Einstein, per passare a diverse star del cinema.
All’interno erano presenti diversi padiglioni provenienti da tutte le parti del mondo e dal design diverso e innovativo.
7 erano le zone tematiche, diverse architettonicamente, alcune costruite in maniera semicircolare attorno al centro realizzato da W. Harrison e M. Abramovitz che consisteva in due bianchi edifici chiamati Trylon e Perisphere ( all’interno di quest’ultimo vi era un modellino della città del futuro).
Il padiglione italiano, costato oltre 3 milioni, era caratterizzato da uno stile romano integrato con l’architettura più moderna. Una fontana alta 61 metri ne coronava l’entrata ed era dedicata a Guglielmo Marconi. Nella Hall of Nations il pavimento a mosaico circondava una statua della Lupa, madre di Romolo, tutt’intorno sulle pareti vi erano raffigurazioni dell’impero moderno realizzate in marmo nero e stucco romano bianco. Al centro della Hall troneggiava una statua in bronzo di Benito Mussolini realizzata da Romano Romanelli.
Il famoso ristorante italiano ospitato nel padiglione aveva invece l’aspetto di una lussuosa nave da crociera per mimare la tradizione italiana.
Tra gli altri luoghi di interesse c’era sicuramente la Westinghouse Time Capsule, destinata ad essere aperta solamente nel 6939 e contenente scritti di Einstein, Mann, copie di Life Magazine, un orologio di Mickey Mouse, un rasoio Gillette, un dollaro, un pacchetto di sigarette Camel, semi di varie specie tra cui cotone, soia, carota e tabacco e molto altro.
Nella Westinghouse era presente anche “Elektro the Moto Man”. Si trattava di un robot alto 2,1 metri in grado di parlare e fumare.
A sud della fiera c’era il World’s Fair Boulevard con l’area Amusement, decisamente la preferita dai visitatori. Qui potevano intrattenersi su montagne russe, attrazioni di varia natura come una torre da cui paracadutarsi e repliche di vari luoghi naturali come le Victoria Falls. In questa zona vi erano anche esibizioni di uccelli e animali rari, un orangotango addomesticato, tre elefanti performanti e la possibilità di fare dei brevi viaggi sul dorso dei cammelli.
Per intrattenere il pubblico venivano organizzati anche spettacoli esotici, con donne in topless o in costume.
Nella zona Acquacade venivano realizzati musical con giochi d’acqua e coreografie irriverenti al costo di 80 cent.
Ogni giorno all’interno della fiera era a tema. Per esempio il 3 Giugno 1940 fu il “Superman Day”, in cui si realizzò un Contest atletico e ci fu la presenza dello stesso Superman, probabilmente interpretato da Bud Collyer.
Tra istallazioni per il divertimento, ristoranti, padiglioni coronati da sculture e fontane di rara bellezza come “The Fountain of Atom” realizzata da Wayland Gregory in ceramica, padiglioni realizzati da Salvador Dali o altri personaggi di un certo spessore, un planetario e varie istallazioni artistiche, rimaneva poco spazio per la scienza e l’innovazione.
Alcune delle introduzioni che vennero fatte furono la luce fluorescente, il nylon, i set televisivi, una macchina futuristica, un temperino e poco altro.
Fortemente voluta per la classe media emergente e per superare le avversità della Grande Depressione, ospitò oltre 44 milioni di visitatori e durò da Aprile ad Ottobre 1939 e da Aprile a Ottobre del 1940.
Con un guadagno di soli 48 milioni di dollari di fronte alla spesa di oltre 67, chiuse ufficialmente i battenti il 27 Ottobre 1940 a causa della bancarotta.
Nata il 13 Giugno del 1914, Anna Maria Ortese trascorre la vita migrando da una città all’altra. La sua formazione scolastica è minima, senza picchi artistici, ma è la sua volontà di imparare da autodidatta che le permette di crescere artisticamente sin dalla tenera età.
Una vita difficile quella di Anna Maria, che subisce due lutti importanti in famiglia. La morte degli amati fratelli Emanuele nel ’33 e il gemello Antonio nel ’37, lascia in lei un profondo senso di tristezza e solitudine che alimenta la sua scrittura e plasma il suo carattere.
Lei stessa arriva a dire “I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può davvero trovarsi”. Una porta aperta, una mano tesa per coloro che come lei sono stati toccati dalla potenza distruttiva dell’esistenza.
Nel ’37 pubblica la sua prima raccolta, “Angelici Dolori” che viene accolta in maniera divisiva.
Dal 1939 comincia a scrivere per diverse riviste come il Mattino, Il Messaggero e il Corriere della Sera affinando la sua abilità.
È nel 1945 che inizia il suo sodalizio d’oro, non con un autore, bensì con una città di cui Ortese si innamora perdutamente e che comincia a descrivere nei suoi racconti come una casa ritrovata, un luogo che si esprime chiaramente nella sua confusione e che definisce eccezionale: Napoli.
È proprio da questo rapporto viscerale che nasce “Il mare non bagna Napoli” che vince il premio speciale per la narrativa al Premio Viareggio del 1953. Una raccolta di racconti evocativi con protagonista la città dilaniata dal dopoguerra, in cui vivono ancora intellettuali e letterati che l’autrice ritrae nelle loro miserie e nelle loro gioie.
Questa raccolta la porta ad una rottura con le personalità di Napoli e a un successivo trasferimento al nord dove, nonostante tutto, non riesce mai a dimenticare la città amata.
Nel 1967 pubblica il romanzo “Poveri e Semplici” che vince il Premio Strega, un altro importante traguardo della sua carriera. Nel 1975 si trasferisce a Rapallo, luogo che ospiterà le sue spoglie mortali fino all’ultimo giorno della sua esistenza, il 9 marzo 1998.
La vita di Anna Maria è coronata dalla sofferenza, dallo sradicamento e dal bisogno di scrivere come modo per ritornare a casa. Una sorta di riparazione alla vita, all’essere in vita, che comporta un costo, un dispendio di una parte di noi che viene inevitabilmente persa negli eventi caotici che ci toccano. La sua arte abbraccia l’invisibile come parte del reale e si accosta al realismo magico, al surrealismo, senza però venirne definita appieno.
Ortese concretizza il suo apice artistico nella forma del racconto breve, con virgole frequenti; una scrittura moderna e metamorfica, in cui le metafore servono a comprendere il mondo e sé stessi in maniera profonda e a radicarsi in qualsiasi cosa ci possa offrire accoglienza.
Come una sorta di rivoluzionaria Leopardi si immerge nel suo dolore ma lo tramuta, lo specchia nella struttura stessa della città di Napoli, una città che definisce grigia, ma intensa di colori, ricca e piena di contraddizioni.
Accostabile alla pittura di Thomas Jones, che ritrae Napoli usando proprio quel grigiume e quella pietra che Anna Maria ricalca nei suoi scritti, Ortese realizza un perfetto ritratto di Napoli, della donna come condizione sovversiva e di sé stessa come animo gentile, ma bestiale, che scava nel profondo della realtà per trovare una comunione con il cosmo intero.
Siamo agli inizi del Novecento, quando la Haute Couture rappresentava il modello di punta della moda parigina e interessava tutte le donne di buon gusto. Uscire di casa era un’occasione per mettere in mostra stoffe e gioielli e per ricordare ai propri simili lo status sociale di appartenenza.
Paul Poiret, figlio di un commerciante di tessuti, aveva manifestato sin dalla tenera età, una forte propensione per il disegno. Finite le scuole andò a lavorare presso un negozio di ombrelli, lavoro noioso e poco creativo, che però gli diede la spinta necessaria a mettere su carta delle toilettes di fantasia. Vendendole alle case di moda riuscì a mettersi da parte qualche soldo per arrotondare finché non gli fu proposto un contratto in esclusiva per la maison Doucet, nel 1898.
Adibito alla sezione del taglio, la sua creatività che sfociava spesso nella teatralità, lo incanalò verso la realizzazione di preziosi costumi di scena per le attrici in voga al tempo.
Il suo primo lavoro importante fu un mantello di taffettà nero, dipinto da Billotey con grandi Iris Mauve e bianchi e ricoperto di tulle creato per Réjane. Ad esso seguirono svariati lavori per Mistinguett e IdaRubistein.
Nel 1901 cominciò a lavorare per Worth, grande casa di moda che però stava perdendo vigore di fronte ai cambiamenti apportati al vestiario. Il compito di Paul era quello di rendere innovativa l’immagine della maison apportando modifiche più giovanili e sbarazzine, tipiche del nuovo secolo di promesse e buone intenzioni.
Il cambiamento si rivelò arduo; le clienti erano ancora troppo affezionate allo stile pomposo portato avanti dalla maison e difficilmente si lasciavano condizionare dallo stile eclettico che Poiret voleva introdurre. L’unico abito che si concretizzò diventando un successo fu l’abito “Byzantine”, completamente ricamato in oro e argento, con uno strascico bordato di zibellino, fu indossato in occasione di un matrimonio mondano ed ebbe l’effetto di mettere in secondo piano la sposa.
Nel 1903 Poiret aprì la sua prima maison al 5 di Rue Auber. La particolarità di questo negozio situato dietro l’Opéra fu quella di avere delle vetrine dotate di esposizioni spettacolari, talmente belle da diventare famose presso tutta la città.
La sua moda diventò presto famosa e ricercatissima: linee semplice e innovazione erano le parole chiave di questa nuova prospettiva fondata sulla morbidezza piuttosto che sulla compostezza del passato. Celebre fu il modello a “Kimono” che diventò un’istanza nella Parigi del tempo. Si stava infatti diffondendo un forte senso di esotismo che piaceva molto alle donne occidentali.
Nel 1906 spostò l’atelier al 37 di Rue Pasquier dove organizzò la struttura in reparti specializzati. In quest’ottica innovativa sperimentò per la prima volta gli abiti senza busto che fino ad allora avevano costretto il corpo femminile nella famosa linea ad S. Il primo abito, senza corsetto, fu denominato “Lola Montes” ed indossato da Denise, sua moglie, in occasione del battesimo della loro primogenita. C’è da dire che in realtà Poiret non cancellò del tutto il corsetto, piuttosto lo riadattò in modo da mettere in risalto la naturale bellezza femminile semplificandone l’aspetto.
Si interessò anche al periodo neoclassico realizzando abiti in tessuti innovativi con stoffe che guardavano alla pittura d’avanguardia europea, in particolare modo ai fauves come Matisse e Derain. Importante fu anche l’uso dei colori che al tempo erano tenui e poco vivaci. Poiret introdusse il rosso, il verde e molti altri, per dare più espressione all’anemia del tempo. Il modello chiave della collezione fu l’abito “Joséphine” su ispirazione del modello Impero ed insieme ad esso propose abiti di ispirazione esotica guardando principalmente al Giappone e alla Cina.
Nel 1908 si concretizzò un sodalizio vitale per la moda di Poiret: venne pubblicato un album intitolato “Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe”, contenente dieci tavole a colori e pubblicato in un numero ridotto di 150 copie. Qui si potevano osservare i modelli della maison ed oltre a ciò comprenderne a fondo anche lo spirito artistico. Le donne erano ritratte alte e sottili, senza forme in vista, con i capelli corti avvolti da un nastro colorato. Importante in questi anni fu anche l’attenzione rivolta ai Ballets Russes che cominciarono a diffondersi a macchia d’olio a Parigi.
Accanto alla naturale propensione per la creazione di abiti meravigliosi, Poiret si interessò anche ai profumi e all’arredamento, allargando ulteriormente la maison fino a farla diventare un marchio vero e proprio connotato da eleganza e stile.
Durante gli anni della prima guerra mondiale la casa di moda subì delle ingenti perdite che non furono mai del tutto risanate. Quando lo stilista riuscì a ripartire con le sue creazioni, le idee che trasmetteva non risultavano più coerenti con lo spirito del tempo e la stessa clientela che un tempo lo aveva preso come riferimento ora lo metteva da parte in funzione di qualcosa di più moderno e innovativo. Fu così che la maison chiuse i battenti lasciando solamente il ricordo della sfarzosità e insieme semplicità che era riuscita a creare nel corso degli anni del suo splendore.
Harry Clarke, originario dell’Irlanda, fu un disegnatore molto prolifico che visse a cavallo tra l’800 e il ‘900.
Figlio di un artista impegnato nella decorazione di vetrate, anch’egli si interessò ben presto a questa particolare branca artistica imparando nuove tecniche sempre più raffinate per creare lavori di assoluta bellezza.
L’influenza principale della sua vena artistica fu sicuramente l’art Nouveau che si può individuare in molte delle sue opere.
Fu anche illustratore di libri e pubblicò nel 1916 il suo primo libro.
Si trattava di diverse illustrazioni delle favole di Hans C. Andersen. Questo includeva 16 tavole realizzate a colori e 24 in bianco e nero. L’opera più importante, però, fu sicuramente la realizzazione di un libro illustrato per “Tales of Mistery and Imagination” di Edgar Allan Poe, nel 1919. Molti artisti prima di lui avevano provato a cimentarsi in questa difficile e delicata opera, invano.
I disegni, rigorosamente in bianco e nero, mostrano dei dettagli spiazzanti e linee precise, meticolose, fino al limite dell’ossessione. I personaggi sono vibranti di emozioni e vivi nel loro essere, con una profondità di espressione difficile da realizzare.
Dopo quest’avventura, che vide diverse pubblicazioni e rifiniture alle tavole, acquistò un certo prestigio come illustratore, facendosi spazio tra i grandi di questo mondo artistico.
Importanti e di straordinaria bellezza sono anche le sue vetrate caratterizzate da disegni fini e precisi e dall’uso sapiente e ricco del colore. Generalmente queste trattano soggetti religiosi di varia natura e sono destinate a cattedrali e chiese.
Morì a causa della salute cagionevole che gli aveva procurato una grave tubercolosi nel 1931 lasciando un vastissimo patrimonio ancora oggi visibile in diverse parti della Gran Bretagna.
Prima delle pagine patinate di Playboy e dell’erotismo moderno esisteva una rivista dal fare peccaminoso, nata in Francia nel 1863.
Si chiamava la Vie Parisienne, la vita Parigina, quasi a voler offrire una finestra sulla realtà di questa bellissima città.
La rivista, pubblicata settimanalmente, continuò ad essere popolare e molto letta sino al 1970, anno in cui non venne più data alle stampe, dopo oltre un secolo di successo.
Nata inizialmente come un mix di diversi aspetti innovativi- dai racconti brevi al gossip e al fashion- nel 1905 prese una direzione totalmente diversa che la orientò su un panorama decisamente erotico per il tempo.
Le pagine peccaminose che ritraevano giovani donne in mise provocanti e seducenti erano viste di cattivo occhio dagli Americani più conservatori durante la I guerra mondiale, tanto che i soldati dell’esercito vennero invitati a non comprare più la rivista, per tutelare il loro spirito.
Elemento importante sono sicuramente le raffigurazioni artistiche realizzate per ciascun numero. Queste inglobano aspetti dell’art Nouveau e Deco ripercorrendo i movimenti artistici del tempo e colorando la scrittura di elementi satirici e intellettuali.
Numerosi scrittori parteciparono alla redazione della rivista, con pubblicazioni occasionali. Tra questi troviamo anche la celeberrima Colette che fu giornalista e scrittrice ed estremamente popolare nel mondo.
Ad oggi la rivista non è più realizzata, ma rimangono delle collezioni sparse per tutto il mondo dove è possibile ammirare i dettagli delle illustrazioni e gli interessi che animavano le persone di cent’anni fa.
Frank Lloyd Wright è sicuramente uno degli esponenti più illustri dell’architettura organica americana.
Nato dopo la prima metà del 1800 da una famiglia abbiente di origini Inglesi e Gallesi, si sposta spesso in gioventù a causa del lavoro del padre. I genitori divorziano quando lui ha solo 18 anni e proprio grazie al cambiamento famigliare così importante si riscopre sempre più profondamente attratto dall’architettura.
Appassionato di arte giapponese, trascorre diversi anni della sua vita nello stesso Giappone dove si lascia influenzare e ispirare per le sue architetture innovative.
Fu un pioniere nell’ambito dell’architettura organica, movimento del XX secolo volto a unire in maniera serena e equilibratal’aspetto architettonico realizzato dall’uomo e la natura circostante.
Questa innovativa corrente di pensiero si trovava in contrasto con il rigore accademico e i classicismi imposti dal secolo precedente. Wright voleva, al contrario, imbrigliare l’essenza delle sue opere in un connubio perfetto di armonia e di rispetto verso l’ambiente circostante. Anche l’arredamento e gli interni risultavano importanti in questa nuova filosofia. Tutto infatti era all’insegna dell’equilibrio per creare uno spazio armonico che non fosse “altro” dall’esterno.
Fece numerosi progetti, oltre 1000, e ne realizzò almeno la metà, in varie parti del mondo.
L’esempio più illustre della sua visione architettonica è sicuramente la casa sulla cascata, o casa Kaufmann.
Questa villa venne realizzata nel ’39 per Edgar J. Kaufmann, un commerciante molto ricco di Pittsburgh, sulle rive del ruscello Bear Run che scorreva liberamente nei boschi dell’ovest della Pennsylvania.
Particolarità della struttura è quella di collocarsi su vari piani sovrapposti che si integrano perfettamente con i cambiamenti naturali del corso d’acqua. Il richiamo alle rocce stratificate circostanti crea un effetto scenico impressionante, dovuto anche alla presenza di una cascata naturale che scorre, quasi letteralmente, attraverso la struttura.
Per la struttura Wright decise di usare del calcestruzzo color beige, in modo da fondere ancora di più l’ambiente architettonico con quello boschivo circostante.
La casa rimase una casa vacanze fino ai primi anni ’60 quando venne donata alla Wester Pennsylvania Conservancy che la fece diventare una casa museo aperta al pubblico e ancora totalmente arredata secondo la visione originaria del suo architetto.
Nel corso degli anni si sono resi necessari dei lavori di manutenzione della struttura, che risultava precaria, con inserimenti in acciaio per sostenere le varie deformazioni.
Nel 2019 è stata inserita nell’UNESCO, insieme ad altre opere con la stessa paternità.
Amore, sesso, incesti e storie lussuriose, condite di crudele realismo e a volte di sfrenato umorismo. Tra le infinite pagine, i sei libri, sono racchiuse vicende, impressioni, personaggi e artisti di altri tempi.
“Questo diario è il mio Kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio. È la mia droga e il mio vizio. Invece di scrivere un romanzo, mi sdraio con questo libro e una penna e indulgo in rifrazioni e diffrazioni”
Queste sono le parole che identificano e definiscono le pagine scritte nell’arco di una vita intera da Anaïs Nin.
Nata non lontano da Parigi nel 1908, Anaïs incontra ben presto l’arte della scrittura quando, abbandonata dal padre, intraprende un lungo viaggio verso la grande America ricca di opportunità.
Durante la traversata scrive con meticolosa puntigliosità i dettagli, le impressioni e le esperienze che vive quotidianamente sotto forma di una lettera indirizzata al padre ormai estraneo.
Tornata a Parigi nel 1929 conosce il mondo letterario francese, colorito delle sue incertezze e peccaminose verità.
Si abbandona ben presto a numerosi amanti, nonostante il matrimonio con Hugh Guiler.
Per lei non c’è molta differenza tra uomini o donne. Apertamente bisessuale e fiera di questa sua propensione non si tirerà mai indietro intrecciando, tra l’altro, un sodalizio letterario-amoroso anche con il famoso Henry Miller e la moglie June Mansfield.
Durante la seconda guerra mondiale a Miller vennero commissionati racconti erotici. Stanco della monotonia di questi, chiese alla Nin, ormai amica e confidente, di provvedere alla stesura di alcune piccole opere al posto suo.
Ben presto le richieste divennero costanti e spinte esclusivamente sul versante sessuale, prive di dettagli di natura sentimentale o sensoriale. La Nin rideva di queste richieste cercando di ampliare il suo repertorio con esperienze personali, esperienze di amici e invenzioni esplicite.
La sua abilità nello scrivere però si concretizza in maniera principale tra le pagine del diario, dove dà libero sfogo a pensieri e considerazioni di qualsiasi natura.
Imbastisce la sua scrittura su modello di Miller, con realismo, attenzione e sguardo alla profondità delle cose. Scrisse fino al 1977, anno della sua morte. Si tratta di un’opera monumentale, 15mila pagine in 150 cartelle, che solo negli anni ’60 vide la sua fortunata pubblicazione, rendendola esponente di spicco del movimento femminista.
La Nin analizzò la vita e le sue perversioni in maniera scandalosa ma onesta, rendendosi portavoce di una realtà che era ben conosciuta e popolare negli anni ’30-’40 a Parigi.
L’amore tormentato, i rapporti spinti con uomini e donne e la descrizione del piacere condiscono i volumi monumentali che rapiscono il lettore. I nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy.
Mai banale, metodica, profonda e sensibile, Anaïs si interessò delle vicende umane con uno sguardo innovativo, spiritoso e profondamente tragico allo stesso tempo.
Sembrano le tre cifre finali di un numero di telefono. In realtà questo numero indica parte di un indirizzo: il 291 in Fifth Avenue, Midtown Manhattan, NY.
A questo civico era collocata una famosa galleria d’arte, aperta oltre un secolo fa.
I grandi meriti di questa galleria furono innanzitutto di portare in America la grande tradizione pittorica d’avanguardia Europea. Tra le sue mura vennero infatti esposti i capolavori di Matisse, Picasso, Cezane, Picabia e Duchamp, solo per citarne alcuni.
In secondo luogo, ma non meno importante, espose la fotografia al grande pubblico, conferendogli lo statuto artistico che fino ad allora le mancava.
Il fondatore della galleria, Alfred Stieglitz, era un fotografo egli stesso.
All’inizio del secolo, però, la fotografia mancava di connotazione artistica, sebbene esistessero già dei premi facoltosi per gli aspiranti fotografi. Venivano infatti allestite piccole esposizioni volte a farla conoscere, ma mai in maniera marcata, lasciandola sempre un po’ da parte, quale arte di serie b.
Fu grazie all’amicizia con Edward Steichen, pittore e fotografo, che Alfred riuscì a trovare un sostenitore alle sue idee rivoluzionarie.
Le prime esposizioni non andarono particolarmente bene e la gente era scettica nel concedergli lo spazio per le stesse.
Fu solo nel 1905 che, grazie all’aiuto dell’amico, fu possibile cominciare a porre le basi per quella che sarebbe diventata una delle gallerie più rilevanti dell’intero secolo. Steichen soggiornava proprio al 291 e aveva notato diverse stanze libere. In cerca di nuovi posti in cui esporre pensò subito all’amico a cui si erano chiuse così tante opportunità. Per un intero anno Alfred affittò tre stanze al 291 che sarebbero servite anche a scopi educazionali, per diffondere la sottile arte della luce.
Nella galleria era possibile affittare le stanze per le proprie esposizioni, applicando una percentuale da dare ai proprietari che l’avrebbero immessa nella tesoreria della Photo-seccession, noto movimento di artisti che voleva portare l’attenzione sulla fotografia in un periodo in cui non era ancora considerata al pari della pittura. La prima apertura non ebbe successo, se non nell’ambiente di nicchia da cui provenivano la maggior parte degli espositori.
Seguirono diverse altre istallazioni come quelle di Gertrude Kasebier e Clarence H. White. Con il tempo la galleria ebbe successo e la fotografia fu effettivamente elevata allo statuto artistico che le mancava.
Nel 1908 però l’affitto dei locali venne inaspettatamente raddoppiato causando la chiusura della galleria che non poteva sostenere costi così elevati.
Fortunatamente la chiusura totale e definitiva venne impedita da un neolaureato Harvardiano che, con le ingenti entrate di famiglia, acquistò delle stanze al 293 e le finalizzò all’uso della galleria, permettendo nuova vita alla struttura e alla sua arte. Stieglitz però era rimasto affascinato dall’indirizzo in cui aveva potuto coronare l’inizio della sua avventura e per questo motivo la rinominò 291.
In questo nuovo periodo cominciarono le esposizioni d’arte, arrivando a contare più di 50 mostre l’anno, con artisti di vario calibro. La decisione di orientarsi prevalentemente sull’aspetto della pittura e della scultura non venne vista di buon occhio da tutti. Alcuni appassionati di fotografia si sentirono nuovamente messi in ombra dall’arte che per così tanti anni aveva affascinato i più. Ciò nonostante le mostre continuarono ad andare bene e raccogliere il favore del pubblico che in questo modo poteva conoscere le opere europee e i vari stili artistici che si stavano sviluppando oltre oceano.
Nel 1917 a causa dell’avanzata della prima guerra mondiale e a causa dello scemato entusiasmo per l’arte, la galleria chiuse le sue porte. L’ultima esibizione, proprio di Alfred, si chiamava ” The last days of 291″.
Vi erano ritratti due soldati, uno intento a proteggere l’arte esposta alle sue spalle, e uno ferito quasi mortalmente, proprio mentre compiva il suo sacro dovere di protezione.
Stieglitz aprì altre due gallerie, senza però mai tornare al suo luogo originario, coltivando la sua passione e il suo talento fino all’anno della sua morte, nel 1946.
J.B. Kerfoot disse:
“291 is greater than the sum of all its definitions. For it is a living force, working for both good and evil. To me, 291 has meant an intellectual antidote to the nineteenth century”