Frank Lloyd Wright, pioniere dell’architettura organica

Frank Lloyd Wright è sicuramente uno degli esponenti più illustri dell’architettura organica americana.

Nato dopo la prima metà del 1800 da una famiglia abbiente di origini Inglesi e Gallesi, si sposta spesso in gioventù a causa del lavoro del padre. I genitori divorziano quando lui ha solo 18 anni e proprio grazie al cambiamento famigliare così importante si riscopre sempre più profondamente attratto dall’architettura.

Appassionato di arte giapponese, trascorre diversi anni della sua vita nello stesso Giappone dove si lascia influenzare e ispirare per le sue architetture innovative.

Fu un pioniere nell’ambito dell’architettura organica, movimento del XX secolo volto a unire in maniera serena e equilibrata l’aspetto architettonico realizzato dall’uomo e la natura circostante.

Questa innovativa corrente di pensiero si trovava in contrasto con il rigore accademico e i classicismi imposti dal secolo precedente. Wright voleva, al contrario, imbrigliare l’essenza delle sue opere in un connubio perfetto di armonia e di rispetto verso l’ambiente circostante. Anche l’arredamento e gli interni risultavano importanti in questa nuova filosofia. Tutto infatti era all’insegna dell’equilibrio per creare uno spazio armonico che non fosse “altro” dall’esterno.

Fece numerosi progetti, oltre 1000, e ne realizzò almeno la metà, in varie parti del mondo.

L’esempio più illustre della sua visione architettonica è sicuramente la casa sulla cascata, o casa Kaufmann.

Questa villa venne realizzata nel ’39 per Edgar J. Kaufmann, un commerciante molto ricco di Pittsburgh, sulle rive del ruscello Bear Run che scorreva liberamente nei boschi dell’ovest della Pennsylvania.

Particolarità della struttura è quella di collocarsi su vari piani sovrapposti che si integrano perfettamente con i cambiamenti naturali del corso d’acqua. Il richiamo alle rocce stratificate circostanti crea un effetto scenico impressionante, dovuto anche alla presenza di una cascata naturale che scorre, quasi letteralmente, attraverso la struttura.

Per la struttura Wright decise di usare del calcestruzzo color beige, in modo da fondere ancora di più l’ambiente architettonico con quello boschivo circostante.

La casa rimase una casa vacanze fino ai primi anni ’60 quando venne donata alla Wester Pennsylvania Conservancy che la fece diventare una casa museo aperta al pubblico e ancora totalmente arredata secondo la visione originaria del suo architetto.

Nel corso degli anni si sono resi necessari dei lavori di manutenzione della struttura, che risultava precaria, con inserimenti in acciaio per sostenere le varie deformazioni.

Nel 2019 è stata inserita nell’UNESCO, insieme ad altre opere con la stessa paternità.

La casa sulla cascata

La casa sulla cascata

Esempio Interno cucina realizzato da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Casa realizzata da F.L.W

Esempio di salotto ideato da F.L.W

Esempio di interno cucina realizzato da F.L.W per la casa del figlio

Casa realizzata da F.L.W

Il diario dello scandalo

Amore, sesso, incesti e storie lussuriose, condite di crudele realismo e a volte di sfrenato umorismo. Tra le infinite pagine, i sei libri, sono racchiuse vicende, impressioni, personaggi e artisti di altri tempi.

“Questo diario è il mio Kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio. È la mia droga e il mio vizio. Invece di scrivere un romanzo, mi sdraio con questo libro e una penna e indulgo in rifrazioni e diffrazioni”

Queste sono le parole che identificano e definiscono le pagine scritte nell’arco di una vita intera da Anaïs Nin.

Nata non lontano da Parigi nel 1908, Anaïs incontra ben presto l’arte della scrittura quando, abbandonata dal padre, intraprende un lungo viaggio verso la grande America ricca di opportunità.

Durante la traversata scrive con meticolosa puntigliosità i dettagli, le impressioni e le esperienze che vive quotidianamente sotto forma di una lettera indirizzata al padre ormai estraneo.

Tornata a Parigi nel 1929 conosce il mondo letterario francese, colorito delle sue incertezze e peccaminose verità.

Si abbandona ben presto a numerosi amanti, nonostante il matrimonio con Hugh Guiler.

Per lei non c’è molta differenza tra uomini o donne. Apertamente bisessuale e fiera di questa sua propensione non si tirerà mai indietro intrecciando, tra l’altro, un sodalizio letterario-amoroso anche con il famoso Henry Miller e la moglie June Mansfield.

Durante la seconda guerra mondiale a Miller vennero commissionati racconti erotici. Stanco della monotonia di questi, chiese alla Nin, ormai amica e confidente, di provvedere alla stesura di alcune piccole opere al posto suo.

Ben presto le richieste divennero costanti e spinte esclusivamente sul versante sessuale, prive di dettagli di natura sentimentale o sensoriale. La Nin rideva di queste richieste cercando di ampliare il suo repertorio con esperienze personali, esperienze di amici e invenzioni esplicite.

La sua abilità nello scrivere però si concretizza in maniera principale tra le pagine del diario, dove dà libero sfogo a pensieri e considerazioni di qualsiasi natura.

Imbastisce la sua scrittura su modello di Miller, con realismo, attenzione e sguardo alla profondità delle cose. Scrisse fino al 1977, anno della sua morte. Si tratta di un’opera monumentale, 15mila pagine in 150 cartelle, che solo negli anni ’60 vide la sua fortunata pubblicazione, rendendola esponente di spicco del movimento femminista.

Anaïs e Henry

La Nin analizzò la vita e le sue perversioni in maniera scandalosa ma onesta, rendendosi portavoce di una realtà che era ben conosciuta e popolare negli anni ’30-’40 a Parigi.

L’amore tormentato, i rapporti spinti con uomini e donne e la descrizione del piacere condiscono i volumi monumentali che rapiscono il lettore. I nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy.

Mai banale, metodica, profonda e sensibile, Anaïs si interessò delle vicende umane con uno sguardo innovativo, spiritoso e profondamente tragico allo stesso tempo.

La Galleria d’arte che affascinò NY.

291.

Sembrano le tre cifre finali di un numero di telefono. In realtà questo numero indica parte di un indirizzo: il 291 in Fifth Avenue, Midtown Manhattan, NY.

A questo civico era collocata una famosa galleria d’arte, aperta oltre un secolo fa.

291 Midtown Manhattan, NY.

I grandi meriti di questa galleria furono innanzitutto di portare in America la grande tradizione pittorica d’avanguardia Europea. Tra le sue mura vennero infatti esposti i capolavori di Matisse, Picasso, Cezane, Picabia e Duchamp, solo per citarne alcuni.

In secondo luogo, ma non meno importante, espose la fotografia al grande pubblico, conferendogli lo statuto artistico che fino ad allora le mancava.

Alfred Stieglitz e la moglie Georgia O’Keeffe (?), dopo il 1917

Il fondatore della galleria, Alfred Stieglitz, era un fotografo egli stesso.

All’inizio del secolo, però, la fotografia mancava di connotazione artistica, sebbene esistessero già dei premi facoltosi per gli aspiranti fotografi. Venivano infatti allestite piccole esposizioni volte a farla conoscere, ma mai in maniera marcata, lasciandola sempre un po’ da parte, quale arte di serie b.

Fu grazie all’amicizia con Edward Steichen, pittore e fotografo, che Alfred riuscì a trovare un sostenitore alle sue idee rivoluzionarie.

Le prime esposizioni non andarono particolarmente bene e la gente era scettica nel concedergli lo spazio per le stesse.

Fu solo nel 1905 che, grazie all’aiuto dell’amico, fu possibile cominciare a porre le basi per quella che sarebbe diventata una delle gallerie più rilevanti dell’intero secolo. Steichen soggiornava proprio al 291 e aveva notato diverse stanze libere. In cerca di nuovi posti in cui esporre pensò subito all’amico a cui si erano chiuse così tante opportunità. Per un intero anno Alfred affittò tre stanze al 291 che sarebbero servite anche a scopi educazionali, per diffondere la sottile arte della luce.

Esposizione fotografica alla 291 Gallery

Nella galleria era possibile affittare le stanze per le proprie esposizioni, applicando una percentuale da dare ai proprietari che l’avrebbero immessa nella tesoreria della Photo-seccession, noto movimento di artisti che voleva portare l’attenzione sulla fotografia in un periodo in cui non era ancora considerata al pari della pittura. La prima apertura non ebbe successo, se non nell’ambiente di nicchia da cui provenivano la maggior parte degli espositori.

Seguirono diverse altre istallazioni come quelle di Gertrude Kasebier e Clarence H. White. Con il tempo la galleria ebbe successo e la fotografia fu effettivamente elevata allo statuto artistico che le mancava.

Nel 1908 però l’affitto dei locali venne inaspettatamente raddoppiato causando la chiusura della galleria che non poteva sostenere costi così elevati.

Fortunatamente la chiusura totale e definitiva venne impedita da un neolaureato Harvardiano che, con le ingenti entrate di famiglia, acquistò delle stanze al 293 e le finalizzò all’uso della galleria, permettendo nuova vita alla struttura e alla sua arte. Stieglitz però era rimasto affascinato dall’indirizzo in cui aveva potuto coronare l’inizio della sua avventura e per questo motivo la rinominò 291.

In questo nuovo periodo cominciarono le esposizioni d’arte, arrivando a contare più di 50 mostre l’anno, con artisti di vario calibro. La decisione di orientarsi prevalentemente sull’aspetto della pittura e della scultura non venne vista di buon occhio da tutti. Alcuni appassionati di fotografia si sentirono nuovamente messi in ombra dall’arte che per così tanti anni aveva affascinato i più. Ciò nonostante le mostre continuarono ad andare bene e raccogliere il favore del pubblico che in questo modo poteva conoscere le opere europee e i vari stili artistici che si stavano sviluppando oltre oceano.

Esposizione alla 291 Gallery

291 Gallery, Esposizione di Constantine Brancusi, 1914

Nel 1917 a causa dell’avanzata della prima guerra mondiale e a causa dello scemato entusiasmo per l’arte, la galleria chiuse le sue porte. L’ultima esibizione, proprio di Alfred, si chiamava ” The last days of 291″.

Vi erano ritratti due soldati, uno intento a proteggere l’arte esposta alle sue spalle, e uno ferito quasi mortalmente, proprio mentre compiva il suo sacro dovere di protezione.

Stieglitz aprì altre due gallerie, senza però mai tornare al suo luogo originario, coltivando la sua passione e il suo talento fino all’anno della sua morte, nel 1946.

Esposizione di Elie Nadelman, 1915, 291 Gallery.

J.B. Kerfoot disse:

291 is greater than the sum of all its definitions. For it is a living force, working for both good and evil. To me, 291 has meant an intellectual antidote to the nineteenth century”

Hedy, il genio più bello del mondo

Hedy Lamarr è principalmente nota per la sua carriera cinematografica.

Negli anni ’40 realizzò centinaia di produzioni come protagonista assoluta, insieme alla sua bellezza esotica che stupiva e incantava lo spettatore.

Pseudonimo di Hedwig Eva Maria Kiesler, Hedy, crebbe in Austria dove si affacciò al mondo della recitazione sin dai 16 anni.

La sua più famosa recitazione rimarrà quella nel film “Estasi” del 1932, che la vide impegnata in una scena di nudo quasi integrale che destò moltissimo scalpore e bloccò la circolazione del film per diversi anni.

La Lamarr disse di non essere a conoscenza della scena stessa che doveva svolgersi in un fiume e che fu principalmente il regista che la sollecitò ad esporsi in quanto sotto contratto.

Hedy non rimase sicuramente felice della scelta, ma tuttavia si mostrava molto naturale nei confronti dell’aspetto amoroso-sessuale e non fu mai restia a mostrarsi o a celebrare questo aspetto della vita umana.

Ebrea di nascita, fu costretta a fuggire su un transatlantico verso l’America quando le cose in Europa cominciarono a diventare difficili.

Durante la seconda guerra mondiale, pur recitando in diverse produzioni, rimase molto ancorata alle sue capacità logiche che in passato l’avevano vista cominciare la facoltà di ingegneria all’università e le avevano conferito l’appellativo di “genio”.

Hedy infatti aveva un quoziente intellettivo estremamente alto e veniva considerata una promessa della scienza oltre che bellissima.

Fu proprio grazie alle sue capacità analitiche e alla sua perspicacia che nel 1941 depositò il brevetto n. 2.292.387 per aiutare durante la guerra che stava imperversando in tutta Europa.

La sua idea era basata principalmente su nozioni apprese autonomamente e sui discorsi che aveva potuto sentire in casa del primo marito, Fritz Mandl, armiere, che l’aveva abbandonata nel ’38, facendo sciogliere il matrimonio per motivi razziali.

Il brevetto che depositò insieme all’amico George Antheil, compositore di avanguardia vicino al movimento surrealista, venne bocciato dalla marina militare e considerato inutilizzabile per i fini bellici.

Questo prevedeva la possibilità di un salto di frequenza per contrastare i segnali radio dei nemici.

Inutile dire che l’invenzione si rivelò utile in seguito: nel ’62 la sua idea venne utilizzata sulle navi impegnate nel Blocco di Cuba.

Nel 1985 il suo brevetto finalmente venne riconosciuto meritevole, anche con premi in denaro e riconoscimenti pubblici, uno dei quali fu l’istituzione del “giorno degli inventori” in Austria, Svizzera e Germania, il 9 Novembre, giorno del suo compleanno.

La sua vita fu difficile. Come disse lei la sua bellezza e il suo sex-appeal la fecero sfondare nel mondo del cinema, ma in ultimo, come ogni attrice del periodo, fu sottoposta a diete ferree per il controllo dell’aspetto e all’assunzione di droghe pesanti per poter sostenere gli estenuanti ritmi di lavoro sui set.

Fu considerata per gran parte della sua vita una sciocca attrice, priva di vero talento, propensa solo a mostrarsi nuda di fronte alla moralità imperante del tempo.

In realtà fu un’inventrice brillante, una lettrice accanita, sia di opere letterario-artistiche che di materiale tecnico, e fu sicuramente una grande personalità sullo schermo.

Morì nel 2000 di un infarto, lasciando un ricordo indelebile per coloro che hanno avuto il privilegio di vederla dal vivo o assaporare le sue considerazioni in merito ad ogni aspetto della vita.

JLG, stella polare del cinema del ‘900

Addio Jean-Luc.

Si è spento tramite suicidio assistito, un grande regista del cinema del novecento.

Non fu, in verità solo un regista.

Cominciò la sua carriera come un critico di cinema, appassionato sì, ma molto radicale nelle sue idee.

Da lì prese la strada dei cortometraggi e fu solamente nel 1959 che sperimentò con i lungometraggi con l’opera “Fino all’ultimo respiro”, capostipite che diede il via all’era Godardiana.

Esponente illustrissimo della “Nouvelle Vague”, termine coniato nel ’57, cominciò a porre l’accento su un cinema differente, opposto al classico “cinema di papà” che al tempo andava di moda.

Il senso delle opere non era più attorno all’attore o alla scenografia, bensì attorno al regista stesso che, come uno scrittore, apre le pagine del proprio diario interiore per realizzare qualcosa di personale ed intimo, oltre ogni aspettativa.

Nascono quindi nuovi modi di girare e realizzare questi piccoli capolavori.

Diventa importante l’elemento della luce, non più accentuata da proiettori, ma solamente dalla sua essenza naturale, che permette di creare familiarità con i personaggi nonchè vivo realismo. I protagonisti sono di solito amici o conoscenti e le ambientazioni usate sono gli appartamenti e le case dei vari partecipanti, andando ancora una volta a scardinare le imposizioni del cinema del tempo. Anche le vie e le traverse rappresentano un terreno fertile per la cinepresa che mira ad estrarre dalla realtà ogni goccia di ispirazione, volendo portare alla luce dello spettatore lo “splendore del vero”.

Abbraccerà le idee Marxiste che riproporrà nel cinema, arrivando anche allo sperimentalismo con il gruppo “DZIGA VERTOV” che prevedeva la realizzazione di opere collettive in cui perde importanza il protagonismo del singolo per assumerne, invece, la collettività.

Fu, fino al suo ultimo respiro, una pietra miliare di quella sottile ed eversiva arte celebre ai cineasti di tutto il mondo.

Godard vinse il leone d’oro nel 1984 e l’Oscar alla carriera nel 2011, due grandi manifestazioni di riconoscimento del suo talento.

La scoperta dei famosi Bronzi di Riace

Il 16 Agosto del 1972 Stefano Mariottini, un sub dilettante, stava facendo immersioni a largo di Riace Marina, in provincia di Reggio Calabria.

Si era spinto fino a una distanza di trecento metri dalla riva, quando scorse un braccio emergere dalla sabbia sottostante. Si trovava a circa otto metri di profondità e sembrava piuttosto grande.

Questo fu l’incipit di uno dei ritrovamenti storico-artistici più rilevanti degli ultimi cinquant’anni.

Scavando con tecniche più raffinate e con l’aiuto di esperti del settore si scoprirono due grosse statue di bronzo che vennero rinominate I “Bronzi di Riace”.

Le due statue, principalmente bronzee, ma con dettagli in altri materiali come le ciglia in rame, la sclera degli occhi in avorio, nonchè l’utilizzo di argento e calcare, risalgono al V a.C. e sono di origine Greca.

Dopo la loro scoperta prese il via il restauro, durato fino al 1980, volto alla pulizia e alla sistemazione di alcune parti, oltre che allo studio della struttura e del metodo di realizzazione.

Da questi studi emerse che probabilmente la statua denominata “bronzo A” risaliva al 460 a.C., mentre la seconda, il “bronzo B”, al 430 a.C.

Inoltre non tutte le parti delle statue erano state realizzate nello stesso periodo, alcune erano infatti posteriori, come il braccio del bronzo B.

La datazione rimane comunque incerta, così come gli artisti che li realizzarono.

Alcuni studiosi dicono che il reperto A sia da attribuire alla mano precisa di Fidia e il B ad un altrettanto famoso Policleto, tuttavia non si hanno informazioni certe che possano chiarificare l’origine di queste immense e pregiatissime opere d’arte.

Fatto che sembra assodato è che rappresentino divinità o eroi, come si soleva fare nel periodo in cui sembrano essere state realizzate. Al tempo infatti solamente dei personaggi di natura “superiore” venivano rappresentati come modelli ammirabili da tutti.

Anche la provenienza è incerta. Alcuni studi le ricollegano al famosissimo santuario di Delfi, dove si pensa fossero collocate lungo la via sacra che portava al santuario della Pizia.

Si sa poco anche del motivo per cui siano state trovate in acqua al largo di Riace. Forse una nave che è affondata o forse delle esigenze di peso hanno fatto sì che i Bronzi si depositassero sul fondale e ne fossero ricoperti dai lenti movimenti ondosi della zona.

Tuttora sono collocate nel museo nazionale di Reggio, dove possono essere ammirate nella loro totale bellezza (e grandezza!)

Nella Parigi della Beat Generation

Al 9 rue git le coeur, nel quartiere latino di Parigi, famoso per la sua movida, sorge un hotel quattro stelle chiamato Relais hotel du Vieux Paris.

La struttura portante, oggi rinomata come boutique hotel, un tempo ospitava un luogo magico e fiorente: il Beat hotel.

Popolare meta di artisti e scrittori, tra gli anni ’50 e ’60, vide nei suoi corridoi e nelle sue stanze la creazione di opere- Basti pensare a “Kaddish” o a “Naked Lunch” -che rimangono ancora oggi il cardine della Beat Generation.

L’hotel disponeva di 42 stanze e minimi standard di igiene, cosa che oggi verrebbe considerata inammissibile. Il prezzo era modesto, 50 centesimi a notte, con acqua calda solo il giovedì, il venerdì e il sabato, e una singola vasca da bagno per potersi lavare nel seminterrato, da prenotarsi con largo anticipo.

I proprietari, i Rachou, erano ospitali e abbastanza di manica larga per quanto riguarda le regole. Si poteva far uso di droga e fumare hascisc, l’odore veniva perdonato dalla polizia tramite succulenti sandwich che la padrona di casa preparava costantemente.

Madame

Qui la creatività doveva poter fluire incessantemente. Tra cene preparate da Madame Rachou e discorsi al bar, l’arte veniva costantemente alimentata dalla comunità presente in maniera vivace e allegra.

Madame con diversi artisti

Il nome venne dato da uno degli illustri personaggi che bazzicavano al suo interno. Gregory Corso fu infatti colui che lo rese la meta preferita degli artisti Americani (e non) che stavano vivendo il loro intenso momento parigino alla ricerca di una più profonda connessione con la loro anima.

Tra essi vi erano Ginsberg, Orlovsky, Burroughs, Gysin, Norse e altri.

William Burroughs nella sua stanza

Ginsberg e Orlovsky,1957

Gregory Corso nella sua stanza fotografato da Ginsberg

Una pratica tipica per coloro che non riuscivano a permettersi di pagare l’affitto delle stanze era quella di dedicare poesie, tele, scritti di vario genere alla proprietaria.

Lei stessa, memore di un’esperienza lavorativa in un locale frequentato da Picasso, decise di concedere agli artisti la possibilità di arredare e dipingere le proprie stanze a loro piacimento. L’hotel divenne quindi un luogo eclettico e alternativo, punto cardine della vita beat parigina, luogo di ritrovo fondamentale per la visione alternativa che questo movimento portava avanti.

Come disse Verta Kali Smart sulla rivista “Left Bank this month”, il beat hotel pareva un luogo lasciato al caso, ma la clientela era selezionatissima. Per entrare bisognava avere l’aspetto di un artista, con una tela sottobraccio, o dire le cose giuste e avere le giuste conoscenze. Chiunque avesse qualcosa di importante da dire e fosse una personalità nel suo ambito era ammesso.

Fotografia di Harold Chapman

L’avventura beat durò fino al 1963, quando ormai madame, rimasta vedova da 5 anni, non potè più gestire l’hotel e la sua vita alternativa. L’ultimo ad andarsene fu Harold Chapman, che aveva documentato nel corso del tempo la presenza di vari artisti.

Harold Champman, self-portrait.

La struttura venne venduta, ma ancora oggi rimane un luogo centrale della cultura parigina e americana.

Molti artisti rimasero con l’amaro in bocca per la decisione della vendita e continuarono a guardare con un pizzico di malinconia agli anni passati nel cuore Parigino.

Nel 1997 Burroughs scrisse in uno dei suoi diari:

“Can I bring it back, the magic and danger of those years in 9 rue Git-Le-Coeur and London and Tangier—the magic—photographs and films.

Oggi rimane un’insegna, unico elemento che ricorda il passato glorioso di quel posto. Negli anni si sono susseguiti cambiamenti e vicende che ne hanno alterato profondamente l’aspetto, ma non l’essenza originaria che permane, se non altro, nel ricordo della sua storica grandezza.

Il canto dell’usignolo: il connubio perfetto tra arte, musica e danza

Anni fa andai a una mostra di matisse a Roma. Tra le sale e i bellissimi capolavori ricchi di colori sgargianti, mi imbattei in una visione che mi estasiò.

Non sapevo che uno dei più grandi artisti mai esistiti si fosse occupato di un balletto classico, il mio primo e grande amore.

L’opera prende il nome di “Le chant du Rossignol”, su musica composta da niente meno che Stravinskij stesso.

Ma facciamo un passo indietro.

L’opera fu composta tra il 1908 e il 1914 dal grande musicista che si fece convincere da Djagilev, un grande impresario teatrale di origini russe, a riadattarla in un balletto.

Il primo adattamento fu un flop, le parti ballate erano scarse e in generale il pubblico non apprezzò.

Successivamente si decise di movimentare l’opera.

nizialmente la scenografia fu attribuita a Fortunato Depero, ma le sue idee erano decisamente troppo stravaganti per la poetica dell’opera e venne accantonato.

Fu allora assunto Matisse come costumista ufficiale. Con la sua linea raffinata, dolce e gentile, realizzò dei costumi all’avanguardia, bellissimi e ciascuno dipinto a mano.

Il balletto andò in scena all’Opera di Parigi nel 1920 con la famosa compagnia dei Balletti Russi. La coreografia, affidata a Leonide Massine, risulto anch’essa un flop, troppi passi in controtempo e decisamente innovativa, forse un po’ troppo per lo spirito dell’epoca.

Nel ’25 la coreografia fu riadattata all’arte di un grandissimo ballerino e coreografo: Balanchine.

Il ballerino sembrò risollevare l’opera dalla sua precedente caduta e mise in scena un balletto all’avanguardia, ricco nel suo stile e di grande impatto scenico (come solo lui sapeva fare).

Da qui si susseguirono diversi esperimenti circa la coreografia che si protrassero per tutto il 900.

Ad oggi anche se i costumi realizzati da Matisse sono pezzi da museo, confinati dietro un vetro protettivo per la loro delicata essenza, il balletto conosce ancora i suoi momenti di gloria, riadattato per ovvie ragioni, viene messo in scena dalle più svariate compagnie, rimanendo tuttavia una piccola perla rara nel mondo della danza.

Walter Russell: L’uomo che il mondo non è pronto ad avere

Questa frase risuona attorno alla personalità di Walter. Fu il famoso Nikola Tesla, scienziato e inventore a dichiararla dopo averlo conosciuto nel 1921. “Il mondo non è pronto alle tue intuizioni”, gli disse Tesla dopo avere ammirato i suoi lavori. Ed in parte fu così.

Walter Russell nacque nel 1871 a Boston, Massachusetts. Crebbe senza avere una particolare istruzione se non la scuola primaria fino ai 9 anni, che abbandonò per dare una mano in casa.

Si trasferì a Parigi dove ebbe modo di frequentare una scuola d’arte e nel 1894 tornò a New York componendo, nel 1900, il famoso dipinto “The might of ages”.

Fu innanzitutto un artista molto prolifico, un filosofo, uno scultore acclamato, un musicista e un autore, ma sono soprattutto le sue scoperte inerenti la natura che mi hanno affascinata.

La sua prima illuminazione avvenne all’età di 7 anni quando ebbe una esperienza fuori dal corpo.

A 14 anni fu dichiarato morto di difterite, ma per un qualche strano miracolo, riuscì a ritornare, come disse lui :”Mi hanno chiesto di tornare”.

Queste esperienze insolite plasmarono moltissimo la vita e le credenze di Walter e lo spinsero ad indagare maggiormente gli aspetti metafisici dell’esistenza umana.

I suoi interessi sono vari e spazia da discipline più umanitarie e artistiche a ricerche scientifiche.

Nel 1926 pubblica la sua tavola periodica a spirale che prediceva nuovi elementi, nuovi elementi radioattivi e situazioni chimiche e fisiche al di sotto dello standard atomico dell’idrogeno.

Nel 1929 per 39 giorni ebbe un’esperienza illuminante che ricorda come “illuminazione nella luce della coscienza cosmica”, in cui dichiarò di aver compreso i perché più reconditi dell’esistenza umana. Una sorta di Illuminazione Buddhista.

La sua abilità artistica gli permise di realizzare disegni e diagrammi che potevano rappresentare le sue visioni, molti dei quali estremamente difficili da interpretare e comprendere.

Fu autore di dozzine di libri, come “the Universal One” del 1926 e “The Book of early whisperings” del 1949.

La sua filosofia si basava sulla luce e può essere racchiusa da questa affermazione:


“All matter is a manifestation of light, everything is related”

Essenzialmente credeva che l’universo fosse dato da onde elettromagnetiche in movimento e che colui in grado di comprendere questa realtà fosse chiamato alla trascendenza stessa. La forza motrice e creatrice di tutto era vista e interpretata nel sesso, come unione di forze opposte entrambe creatrici.

Si spense il giorno del suo compleanno del 1963, lasciando numerosi disegni e scritti di natura metafisica e scientifica.

Non fu preso particolarmente sul serio come studioso di scienze, ma di sicuro alcune delle intuizioni che ebbe furono portate avanti nel corso dei decenni, fino ad arrivare a noi.

Arte mistica: Hilma Af Klint

Svedese, nata nel lontano 1862. Sin da giovane si interessa di matematica e botanica, ma è la pittura che finirà per coinvolgerla totalmente.

Abilissima nei paesaggi, che le permisero un certo guadagno, rimase tuttavia affascinata ad un altro tipo di arte che la rapì totalmente anche sul piano personale.

Dopo la morte della sorella minore, avvenuta nel 1880, Hilma si avvicinò sempre di più ad una dimensione spirituale che fino ad allora era mancata nella sua realtà.

Cominciò a interessarsi ad astrazione e simbolismo soprattutto a seguito del suo coinvolgimento nello spiritismo, tanto in voga al periodo.

Si avvicinò alla teosofia di Madame Blavatsky, alla filosofia di Christian Rosenkreutz e infine conobbe l’illustre Rudolf Steiner, fondatore della società antroposofica.

Influenzata da questi studi, incominciò a sperimentare nella sua arte la dimensione spirituale, filosofica ed esoterica che al tempo influenzò artisti di alto calibro come lo stesso Kandinsky.

Durante la stesura dei suoi lavori, la Klint si reputava un tramite attraverso cui poteva essere materializzato il volere di una coscienza superiore.

Durante la sua permanenza all’accademia delle belle arti, conobbe e strinse amicizia con Anna Cassel, una delle quattro donne con cui formò un solido gruppo chiamato “le cinque”. Queste, attive dal 1896 al 1908, si dedicarono a registrare messaggi da entità superiori in stati di trance usando la tecnica della scrittura automatica per tramandare i loro messaggi.

Questa esperienza influenzò moltissimo la sua produzione.

Estremamente prolifica nella sua arte, nel suo testamento lasciò l’istruzione di pubblicare i suoi lavori spirituali solo vent’anni dopo la sua morte, in quanto non credeva che il mondo fosse pronto a comprenderli.

Per vedere alcune delle sue opere è necessario collegarsi al sito della fondazione responsabile dei diritti d’autore dell’artista che riporta alcune immagini dei più bei dipinti da lei realizzati.

Hilma af Klint, The swan, No 1, 1915

Ad oggi rimane una delle più illustri pittrici simboliste dei primi del novecento.

Nelle sue opere si può notare la ricercatezza delle forme, mai banali, sempre cariche di significato e dei colori, vivaci, vivi, preludio a un mondo immaginario – o forse reale- che spazia dal simbolico all’esoterico con una bellezza non indifferente, carica di significato catartico.

Per ammirare queste straordinarie opere è necessario osservarle senza porre l’accento sulle loro contraddizioni interne, fatte da ripetizioni, sovrapposizioni, linee e ghirigori che incontrando lo spettatore non esperto parrebbero essere realizzate da una mano infantile.

Hilma af Klint, Altar piece, Group X, 1907

Il suo sapiente uso del colore è caratterizzato da un forte simbolismo interno: il giallo sta a significare l’aspetto maschile, il blu lo spirito femminile, il rosso l’amore spirituale e fisico.

Hilma af Klint, Primordial Chaos, No 16, 1906-1907
Hilma af Klint, Svanen, No 17, 1915

Per comprendere appieno i suoi lavori si può usare uno sguardo intellettivo piuttosto razionalista, oppure, come forse era lo stesso volere dell’artista, lasciare che questi ti parlino senza porre alcun freno al messaggio che intendono porti.

Hilma af Klint fu una visionaria del tempo, piuttosto avanti rispetto alla società in cui si trovava.

Ossessionata dalla necessità di conoscenza e comprensione di ciò che la circondava, rimarrà per sempre un’innovatrice, una matriarca dell’arte.