Il Getty Museum e quello che rischiamo di perdere

In questi giorni tutto il mondo ha assistito ai terribili fatti della zona di Los Angeles. Tra fotografie di fiamme, distruzione e inferno, un sole nella penombra fumosa rimane rosso come un monito. Il surriscaldamento globale non è una novità, eppure moltissime persone credono ancora che non sia un fatto.

Tra case distrutte, persone che hanno perso ogni cosa, ogni ricordo o la loro stessa vita, sembra impossibile-e infinitamente superficiale- ricordarsi dei luoghi storici, dei custodi dell’arte.

Sullo sfondo di questa devastazione c’è un edificio che racchiude decenni di storia dell’umanità e opere che vanno ben oltre il genio artistico.

J. Paul Getty (15.12.1892-6.6.1976) fu un imprenditore, collezionista e filantropo statunitense. Padrone della Getty Oil Company, nacque in una famiglia facoltosa, da un padre a sua volta protagonista dell’industria del petrolio. I suoi pozzi erano sparsi per tutto il mondo: passando per Texas, Canada, Arabia Saudita fino ad arrivare in Italia dove aveva possedimenti a Gaeta, Ravenna e Milazzo.

Proprietario della villa Odescalchi a Palo Laziale (oggi rinomato hotel di lusso “La posta Vecchia”) fu rapito dalla bellezza e dalla storia del bel paese, tanto da rubarne l’architettura per un suo progetto personale: La villa Getty.

Getty vedeva l’arte come una forma di civilizzazione della società e ne era profondamente affascinato. Decise perciò di creare un’istituzione finalizzata alla ricerca, alla mostra, alla conversazione, alla pubblicazione e all’educazione dei suoi connazionali di quelle che sono alcune delle opere più belle mai realizzate nella storia dell’uomo.

Nel 1953 diede vita al J.Paul Getty Museum Trust e l’anno successivo convertì la sua proprietà a Palisades in un museo. Nel 1968, memore delle antiche ville romane di cui si era innamorato in Italia, decise di allargare il suo ranch come una “Roman Villa” ad immagine della Villa dei Papiri di Ercolano. Solo 6 anni dopo aprì al pubblico.

Getty incontra la morte nel 1976, all’età di 83 anni, lasciando un patrimonio stimato di oltre 700 milioni al fondo, con l’onorevole obiettivo di: “Diffusion of Artistic and General knowledge”.

Nel 1984 venne stabilita la fondazione del museo che grazie all’eredità è diventato il più ricco al mondo (oltre 1,2 miliardi di dollari).

Alla fine degli anni ’80 il museo si espanse su una superficie di 110 acri sulle montagne di santa Monica e prese il nome di Getty Center. L’architetto designato per la mastodontica costruzione fu Richard Meier.

Finalmente il 16 dicembre del ’97, dopo anni di duro lavoro e modifiche, il secondo museo aprì le porte al pubblico.

La villa Getty, Palisades, LA

Ad oggi il museo contiene dipinti, disegni, sculture Romane, Greche ed Etrusche, codici e miniature, arti decorative Europee e fotografie Europee, Asiatiche e Americane.

Al suo interno, ad eccezione delle fotografie, non sono contenute opere d’arte moderna.

Numerose sono però le controversie che circondano l’attività del museo.

Nel 1983 vennero acquistati 144 manoscritti medioevali con miniature dal Ludwig Collection di Aquisgrana che si trovava in serie problematiche economiche; Un’indagine ha riguardato Marion True, curatrice del museo, per l’acquisto sospetto di una corona funeraria Macedone risalente a oltre 2500 anni fa e restituita alle autorità greche nel 2006; una causa con l’Italia per la restituzione di 52 opere trafugate tra cui L’atleta di Fano, conclusasi con un accordo di restituzione di 40 opere.

Il caso più controverso rimane però l’acquisto di un Kouros nel 1984 per 32 miliardi di lire, dichiarato un falso dallo storico Federico Zeri che è stato costretto a non mettere più piede sul suolo Americano.

Anche la figura dell’imprenditore rimane controversa.

Il nipote del noto magnate fu infatti rapito dall’ Ndrangheta e venne richiesto un riscatto di 2 milioni di lire che il vecchio si rifiutò di pagare. Solamente quando gli venne recapitato un orecchio mozzato decise di cedere.

Sembra finita qua, ma non è così. L’uomo chiese indietro l’intera somma al nipote, quasi fosse una sua responsabilità, e vi aggiunse un interesse del 4%.

Nonostante ciò il museo rimane un punto di riferimento della cultura antica su suolo americano e conta ogni anno migliaia di visitatori che differentemente non potrebbero ammirare le famose opere contenute al suo interno.
Ad oggi le opere sono diverse migliaia e tra esse troviamo capolavori come gli “Iris” di Van Gogh (1889), l’Atleta di Fano, il “Velo della Veronica” di Correggio (1521), “Sant’Andrea” di Masaccio (1426), “Venere e Adone” di Tiziano (1555-1560) e l'”Adorazione dei Magi” di Mantegna (1497-1500) e moltissimi altri.

Risulta di vitale importanza perciò, in questo periodo storico delicato in cui gli animi sono confusi e sembra non esserci una prospettiva equilibrata per il futuro, fare un passo indietro, ritornare ad apprezzare la bellezza che ci è stata data e che noi stessi abbiamo creato.

Per ammirarla. Per prendercene cura. E se non altro… per non perderla.

“Venere e Adone”, Tiziano, 1555-1560 ca.
“Iris”, Van Gogh, 1889
The rue Mosnier with Flags, Manet, 1878

Spring, Manet, 1881

Arii Matamoe (the Royal End), Gauguin, 1892

La promenade, Renoir, 1870

Il rapimento di Europa, Rembrandt, 1632

 The Grand Canal in Venice from Palazzo Flangini to Campo San Marcuola, Canaletto, 1738 ca.

Sunrise, Monet, 1873

OZ: the revolution

La storia di Oz è una storia che abbraccia un decennio e che ha coinvolto personalità del mondo della musica, dell’arte e della letteratura underground.

Issue three: the Mona Lisa cover. Photograph: University of Wollongong Archives

Durante gli anni ’60 erano molte le riviste eclettiche che popolavano il panorama underground: Friends, The Oracle of Southern California, Wendingen e molte altre. Tra queste spiccava però la rivista “OZ”, nata dalle menti geniali di Richard Neville, caporedattore, Richard Walsh e Martin Sharp, il direttore artistico.

Ci troviamo nell’Australia del 1963, un paese benpensante in cui la mentalità alternativa e controcorrente rappresentava ancora un problema per la società.

In questo contesto rigido nasceva però un filone del dissenso, della provocazione e della satira: nasceva OZ.

The first issue of British OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Lo staff era composto principalmente da personaggi del mondo dell’arte e della letteratura quali Robert Hughes e Bob Ellis.

Il primo numero fu lanciato il giorno del pesce d’Aprile del 1963. Con un totale di sole 16 pagine e 6000 copie portava in copertina la notizia fasulla del crollo del The Sydney Harbour Bridge e al suo interno la storia della cintura di castità e un racconto veritiero sull’aborto (ancora illegale al tempo).

L’uscita del primo numero fece tale scalpore che il Daily Mirror cancellò il contratto con la rivista e minacciò di licenziamento Peter Grose, uno dei suoi dipendenti che collaborava con la rivista.

In quel primo anno OZ ricevette la sua prima denuncia per oscenità. Il direttore e i collaboratori si dichiararono colpevoli evitando la pena detentiva ma nel 1964 una seconda denuncia li costrinse ai lavori forzati.

I temi che avevano introdotto erano visti in maniera negativa. La censura, l’odio, il sesso, la brutalità della polizia, il razzismo, la guerra in Vietnam e la ridicolizzazione delle istituzioni rappresentavano una provocazione alla mentalità chiusa del tempo, che non voleva saperne di tutto ciò che la rivoluzione hippy stava portando alla luce.

Sharp e Neville decisero di partire nel 1966. La meta designata era Londra, dove le tematiche erano sentite maggiormente dai giovani e dove, grazie alla stampa offset, era possibile arricchire la rivista in bellezza.

La nuova versione inglese fu fondata quello stesso anno in uno scantinato di Notting Hill arredato con oggetti di culto e poster psichedelici. Tra i fondatori comparve anche Jim Anderson.

Richard Neville (left) and later editors, Felix Dennis, and Jim Anderson, at the close of the trial, 1971.  JONES/DAILY EXPRESS/GETTY IMAGES

Nel numero 11 della rivista vennero introdotti adesivi psichedelici rossi, verdi e gialli, nonché disegni alternativi e provocanti.

Il numero 16, chiamato Magic Theatre, pubblicato nel novembre 1968, era composto da sola grafica realizzata dalla mente di Sharp e Philippe Mora e venne definito “Il più grande successo della stampa alternativa britannica”.

La rivista raccolse consensi tra varie personalità, inclusi John Lennon e Yoko Ono nonché Mick Jagger e vi comparvero interviste di Pete Townsend, Jimmy Page e Andy Warhol.

Nel 1970 i fondatori decisero di fare un numero curato da bambini selezionati e venne chiamato Schoolkids OZ.

I bambini vennero prima interrogati sulle loro opinioni in educazione, politica e società, nonché su sesso, droga e rock ‘n’ roll.

Il numero 28, che vendette poche copie, presentava una parodia di sesso esplicito di Rupert The Bear, voluta proprio da uno dei piccoli scrittori e causò un dissenso tale da provocare il più grande scandalo per oscenità di tutta l’Inghilterra.

The teenage contributors to the 28th issue of OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Schoolkids OZ, numero 28, 1970.

A cropped section of the cover of the 28th issue of OZ magazine, which features blue women in the nude.

I tre principali autori vennero considerati i responsabili di tutto quanto fosse riportato in quel numero, sebbene fossero stati dei minorenni a scriverlo, e vennero accusati di oscenità e oltraggio al pudore, nonché cospirazione atta alla corruzione della morale pubblica, capi d’accusa che prevedevano il carcere.

L’opinione pubblica si spezzò. Alcuni credevano che la rivista provocasse una deviazione morale non indifferente e che il numero 28 in particolare potesse portare all’omosessualità i giovani e causare dei gravi problemi psicologici; altri, come Lennon e Ono, lo difesero a spada tratta, fino a registrare una canzone intitolata God Save OZ e poi cambiata in God Save Us per raccogliere fondi.

Il Times of London dichiarò di aver ricevuto più lettere sul processo che sulla crisi di Suez e un’effige del giudice venne bruciata davanti alle aule del tribunale in segno di protesta.

I tre furono scagionati dall’accusa di cospirazione, ma ritenuti responsabili di due reati minori per cui era previsto il carcere. Qui gli vennero tagliati i capelli lunghi, causando ulteriori proteste da parte della comunità underground e hippy della Swinging London.

Oz Obscenity Trial Invitation issued by editors of Oz Magazine, 1 October, 1971. © Victoria and Albert Museum, London

Nella storia orale di Jonathan Green, Neville dichiarò in merito alla nascita della rivista:

“I sensed there was a substratum of genuine irritation with the society. There was no access to rock ‘n’ roll, pirate radio had gone, women couldn’t get abortions. This again was something which seem like another piece of repressive puritical behavior that one wanted to fight”.

La passione di Neville però si stava spegnendo:

“Mi sembrò che stessi diventando sempre più propagandista, non più l’autore di una rivista che provava a offrire una piattaforma per scrittori e fumettisti.”

Alla revisione del processo i tre vennero rilasciati definitivamente.

La rivista chiuse i battenti nel 1973 con il numero 48. La causa ufficiale fu la bancarotta.

Gli scrittori e i collaboratori erano poco pagati- o per nulla- e non giravano molti soldi a causa dello scarso numero di copie vendute (circa 30000) anche se i lettori effettivi erano molti di più.

Dennis, uno dei collaboratori, ormai divenuto miliardario nel mondo editoriale, dichiarò riferendosi alla figura carismatica di Neville:

” No one else would avere have managed to get me working for nothing.”

La fine della rivista rappresentò la fine di un momento storico nato in seno agli anni ’60 e fortemente voluto dai giovani del tempo che non si rispecchiavano nelle visioni più conservative.

OZ, V&A archives

Diary of Felix Dennis for the period of 14 – 27 December, 1970 covering police raid on Oz offices. © Victoria and Albert Museum, London
Guest editors of Oz #28 – School Kids Issue, 1970. © Victoria and Albert Museum, London

Una frase rimase emblematica all’interno della rivista:

“TAKE THE PLUNGE! commit a revolutionary act. Subscribe to OZ”

Ad oggi è possibile trovare i numeri della rivista in questo archivio: https://ro.uow.edu.au/ozsydney/

Altri articoli sul tema: https://canal-mag.com/l-incredibile-oz-mitico-magazine-australiano/ https://www.atlasobscura.com/articles/oz-magazine-obscenity-trial https://www.anothermanmag.com/life-culture/9936/why-oz-was-the-most-controversial-magazine-of-the-1960s

https://www.messynessychic.com/2020/05/07/that-1960s-revolution-of-underground-press-is-still-alive-well/

Donne d’arte: la prosa di Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese.

Nata il 13 Giugno del 1914, Anna Maria Ortese trascorre la vita migrando da una città all’altra. La sua formazione scolastica è minima, senza picchi artistici, ma è la sua volontà di imparare da autodidatta che le permette di crescere artisticamente sin dalla tenera età.

Una vita difficile quella di Anna Maria, che subisce due lutti importanti in famiglia. La morte degli amati fratelli Emanuele nel ’33 e il gemello Antonio nel ’37, lascia in lei un profondo senso di tristezza e solitudine che alimenta la sua scrittura e plasma il suo carattere. 

Lei stessa arriva a dire “I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può davvero trovarsi”. Una porta aperta, una mano tesa per coloro che come lei sono stati toccati dalla potenza distruttiva dell’esistenza.

Nel ’37 pubblica la sua prima raccolta, “Angelici Dolori” che viene accolta in maniera divisiva.

Dal 1939 comincia a scrivere per diverse riviste come il Mattino, Il Messaggero e il Corriere della Sera affinando la sua abilità.  

È nel 1945 che inizia il suo sodalizio d’oro, non con un autore, bensì con una città di cui Ortese si innamora perdutamente e che comincia a descrivere nei suoi racconti come una casa ritrovata, un luogo che si esprime chiaramente nella sua confusione e che definisce eccezionale: Napoli. 

È proprio da questo rapporto viscerale che nasce “Il mare non bagna Napoli” che vince il premio speciale per la narrativa al Premio Viareggio del 1953. Una raccolta di racconti evocativi con protagonista la città dilaniata dal dopoguerra, in cui vivono ancora intellettuali e letterati che l’autrice ritrae nelle loro miserie e nelle loro gioie.

Questa raccolta la porta ad una rottura con le personalità di Napoli e a un successivo trasferimento al nord dove, nonostante tutto, non riesce mai a dimenticare la città amata.

Nel 1967 pubblica il romanzo “Poveri e Semplici” che vince il Premio Strega, un altro importante traguardo della sua carriera. Nel 1975 si trasferisce a Rapallo, luogo che ospiterà le sue spoglie mortali fino all’ultimo giorno della sua esistenza, il 9 marzo 1998.

La vita di Anna Maria è coronata dalla sofferenza, dallo sradicamento e dal bisogno di scrivere come modo per ritornare a casa. Una sorta di riparazione alla vita, all’essere in vita, che comporta un costo, un dispendio di una parte di noi che viene inevitabilmente persa negli eventi caotici che ci toccano. La sua arte abbraccia l’invisibile come parte del reale e si accosta al realismo magico, al surrealismo, senza però venirne definita appieno.

Ortese concretizza il suo apice artistico nella forma del racconto breve, con virgole frequenti; una scrittura moderna e metamorfica, in cui le metafore servono a comprendere il mondo e sé stessi in maniera profonda e a radicarsi in qualsiasi cosa ci possa offrire accoglienza. 

Come una sorta di rivoluzionaria Leopardi si immerge nel suo dolore ma lo tramuta, lo specchia nella struttura stessa della città di Napoli, una città che definisce grigia, ma intensa di colori, ricca e piena di contraddizioni.

Accostabile alla pittura di Thomas Jones, che ritrae Napoli usando proprio quel grigiume e quella pietra che Anna Maria ricalca nei suoi scritti, Ortese realizza un perfetto ritratto di Napoli, della donna come condizione sovversiva e di sé stessa come animo gentile, ma bestiale, che scava nel profondo della realtà per trovare una comunione con il cosmo intero.

La poesia innovativa ed esotica di Paul Poiret

Siamo agli inizi del Novecento, quando la Haute Couture rappresentava il modello di punta della moda parigina e interessava tutte le donne di buon gusto. Uscire di casa era un’occasione per mettere in mostra stoffe e gioielli e per ricordare ai propri simili lo status sociale di appartenenza.

Paul Poiret, figlio di un commerciante di tessuti, aveva manifestato sin dalla tenera età, una forte propensione per il disegno. Finite le scuole andò a lavorare presso un negozio di ombrelli, lavoro noioso e poco creativo, che però gli diede la spinta necessaria a mettere su carta delle toilettes di fantasia. Vendendole alle case di moda riuscì a mettersi da parte qualche soldo per arrotondare finché non gli fu proposto un contratto in esclusiva per la maison Doucet, nel 1898.

Adibito alla sezione del taglio, la sua creatività che sfociava spesso nella teatralità, lo incanalò verso la realizzazione di preziosi costumi di scena per le attrici in voga al tempo.

Il suo primo lavoro importante fu un mantello di taffettà nero, dipinto da Billotey con grandi Iris Mauve e bianchi e ricoperto di tulle creato per Réjane. Ad esso seguirono svariati lavori per Mistinguett e Ida Rubistein.

Nel 1901 cominciò a lavorare per Worth, grande casa di moda che però stava perdendo vigore di fronte ai cambiamenti apportati al vestiario. Il compito di Paul era quello di rendere innovativa l’immagine della maison apportando modifiche più giovanili e sbarazzine, tipiche del nuovo secolo di promesse e buone intenzioni.

Il cambiamento si rivelò arduo; le clienti erano ancora troppo affezionate allo stile pomposo portato avanti dalla maison e difficilmente si lasciavano condizionare dallo stile eclettico che Poiret voleva introdurre. L’unico abito che si concretizzò diventando un successo fu l’abito “Byzantine”, completamente ricamato in oro e argento, con uno strascico bordato di zibellino, fu indossato in occasione di un matrimonio mondano ed ebbe l’effetto di mettere in secondo piano la sposa.

Nel 1903 Poiret aprì la sua prima maison al 5 di Rue Auber. La particolarità di questo negozio situato dietro l’Opéra fu quella di avere delle vetrine dotate di esposizioni spettacolari, talmente belle da diventare famose presso tutta la città.

Vetrina della Maison Poiret. 5 Rue Auber in “Le Figaro Modes”, febbraio 1904

La sua moda diventò presto famosa e ricercatissima: linee semplice e innovazione erano le parole chiave di questa nuova prospettiva fondata sulla morbidezza piuttosto che sulla compostezza del passato. Celebre fu il modello a “Kimono” che diventò un’istanza nella Parigi del tempo. Si stava infatti diffondendo un forte senso di esotismo che piaceva molto alle donne occidentali.

Nel 1906 spostò l’atelier al 37 di Rue Pasquier dove organizzò la struttura in reparti specializzati. In quest’ottica innovativa sperimentò per la prima volta gli abiti senza busto che fino ad allora avevano costretto il corpo femminile nella famosa linea ad S. Il primo abito, senza corsetto, fu denominato “Lola Montes” ed indossato da Denise, sua moglie, in occasione del battesimo della loro primogenita. C’è da dire che in realtà Poiret non cancellò del tutto il corsetto, piuttosto lo riadattò in modo da mettere in risalto la naturale bellezza femminile semplificandone l’aspetto.

Si interessò anche al periodo neoclassico realizzando abiti in tessuti innovativi con stoffe che guardavano alla pittura d’avanguardia europea, in particolare modo ai fauves come Matisse e Derain. Importante fu anche l’uso dei colori che al tempo erano tenui e poco vivaci. Poiret introdusse il rosso, il verde e molti altri, per dare più espressione all’anemia del tempo. Il modello chiave della collezione fu l’abito “Joséphine” su ispirazione del modello Impero ed insieme ad esso propose abiti di ispirazione esotica guardando principalmente al Giappone e alla Cina.

Nel 1908 si concretizzò un sodalizio vitale per la moda di Poiret: venne pubblicato un album intitolato “Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe”, contenente dieci tavole a colori e pubblicato in un numero ridotto di 150 copie. Qui si potevano osservare i modelli della maison ed oltre a ciò comprenderne a fondo anche lo spirito artistico. Le donne erano ritratte alte e sottili, senza forme in vista, con i capelli corti avvolti da un nastro colorato. Importante in questi anni fu anche l’attenzione rivolta ai Ballets Russes che cominciarono a diffondersi a macchia d’olio a Parigi.

Paul Iribe per Paul Poiret.

Accanto alla naturale propensione per la creazione di abiti meravigliosi, Poiret si interessò anche ai profumi e all’arredamento, allargando ulteriormente la maison fino a farla diventare un marchio vero e proprio connotato da eleganza e stile.

Durante gli anni della prima guerra mondiale la casa di moda subì delle ingenti perdite che non furono mai del tutto risanate. Quando lo stilista riuscì a ripartire con le sue creazioni, le idee che trasmetteva non risultavano più coerenti con lo spirito del tempo e la stessa clientela che un tempo lo aveva preso come riferimento ora lo metteva da parte in funzione di qualcosa di più moderno e innovativo. Fu così che la maison chiuse i battenti lasciando solamente il ricordo della sfarzosità e insieme semplicità che era riuscita a creare nel corso degli anni del suo splendore.

Paul Poiret, modello “Linzeler”, 1919.

Georgia O’Keeffe

“Dove sono nata e dove ho vissuto non ha importanza. è quello che ho fatto con i luoghi dove sono stata che dovrebbe essere interessante”.

Con queste parole, dette decine di anni fa, si presentava una grande artista, pilastro del modernismo Americano: Georgia O’Keeffe.

Inutile quindi dilungarsi sulla sua storia personale. Nacque e crebbe in una fattoria nel Wisconsin e già da bambina, con la tenera e squillante voce che solo i bambini possiedono, ha deciso di diventare artista.

“Che tipo di artista?” le fu chiesto; lei non seppe rispondere. Si divertiva a disegnare con gli acquerelli e a fare i classici giochi che i bambini fanno, non aveva idea di che tipo di artista avrebbe voluto essere, se non che avrebbe voluto essere un’artista.

Nel 1905 frequentò la scuola d’arte di Chicago e nel 1908 incontrò il suo futuro marito Alfred Stieglitz. Lui aveva una sala d’esposizione a New York, la famosa galleria 291, e fu grazie a lui che conobbe l’arte di Rodin, di cui rimase colpita e affascinata.

Nel suo primo periodo artistico, attorno agli anni ’10, Georgia usava ancora l’acquerello per le sue rappresentazioni pittoriche. Negli anni ’20 cominciò invece a sperimentare con i colori ad olio, a cui rimarrà fedele per tutto il suo percorso artistico.

Hibiscus with Plumeria, Georgia O’Keeffe 1939

Il mondo dell’arte del tempo era fatto principalmente da figure maschili, erano loro che dettavano le regole del gusto in fatto di pittura. Questo poteva creare una frizione verso i lavori delle donne del tempo, considerati di serie b. Georgia fu criticata da questi per l’uso troppo vivace dei colori o per le sue scelte pittoriche, ma lei, donna coraggiosa ed eversiva, dipingeva colori ancor più vivaci e portava avanti i suoi soggetti a testa alta.

In merito ad alcune sue opere sui fiori- ne realizzò molte- disse:

” Io vi ho chiesto di prendere del tempo per guardare quello che vedevo e quando voi ci avete messo del tempo a osservare davvero il mio fiore, avete appiccicato tutte le vostre associazioni con i fiori al mio fiore e adesso scrivete del mio fiore come se io pensassi e vedessi quello che voi pensate e vedete- e non è così”.

Blue Morning Glories, Georgia O’Keeffe, 1935

Music, Pink and Blue, Georgia O’Keeffe
Lake George, Georgia O’Keeffe, 1922

Da donna forte la O’Keeffe rigettava l’idea dell’interpretazione troppo frivola e complessa che la critica spesso le rivolgeva. il suo spirito pittorico si manifestava nel voler rappresentare ciò che trovava interessante e meraviglioso. Ed era straordinariamente brava nel farlo.

Per questo motivo si trasferì permanentemente nel Nuovo Messico nel 1949 a seguito della morte del marito. In questo periodo cominciò a dipingere il paesaggio o a ricalcare con il colore l’aspetto architettonico della sua casa o degli edifici religiosi del luogo. I soggetti erano dunque diversi, si staccava dal sogno americano portandone tuttavia dei barlumi all’interno delle sue opere. In questo periodo era solita fare lunghe camminate sulle montagne e tra i deserti della regione, raccogliendo sassi od ossa di animali per poi rappresentarli a suo modo sulla tela.

Ram’s Head, White Hollyhock-Hills, Georgia O’Keeffe, 1935

Deer’s Skull with Pedernal, Georgia O’Keeffe, 1936

Morì negli anni 80, dopo aver trascorso tutta la sua vita al servizio della pittura. Prima di morire le fu conferita la medaglia nazionale delle Arti dal presidente Reagan in persona.

Fu una delle pittrici più prolifiche e affascinanti della storia americana, portavoce di una filosofia innovativa e testimonianza di quello che la meraviglia dell’arte riesce a creare.

L’artista che dipinse il silenzio

Quella che sembra essere una missione impossibile ai più, venne realizzata brillantemente da un artista esponente del realismo americano.

Edward Hopper, annata 1882, fu un grande artista.

Già dalla gioventù manifestò grandi abilità nel disegno e venne incoraggiato dalla famiglia a specializzarsi in questo suo personale talento.

Inizialmente i suoi studi artistici ruotarono attorno ai ritratti e agli autoritratti, soprattutto nel periodo che passò presso la New York School of Arts, dove riuscì a stringere amicizia con vari artisti.

In questo periodo le basi dei suoi dipinti erano di colori particolarmente scuri e le pennellate grosse.

Fu grazie ai numerosi viaggi in varie parti del mondo che lo aiutarono a perfezionare il suo stile e la sua visione. In particolare modo rimase affascinato da Parigi, dove soggiornò in diverse occasioni e per diverso tempo. Qui potè dipingere la vita parigina che scorreva ininterrotta lungo le rive della Senna, con un prospettiva differente rispetto a quella portata avanti da vari artisti che nel medesimo periodo vi soggiornavano.

Vagabondare tra le viuzze pittoresche e trovare un soggetto inaspettato nella quotidianità rappresentavano per Hopper il punto di inizio di un piccolo capolavoro su tela.

Inizialmente i suoi quadri non vendettero ed Edward fu costretto a mantenersi tramite il lavoro di illustratore, che disprezzava.

Per tutta la sua vita rimase affascinato da artisti del calibro di Manet, Monet, Pissarro, Sisley e molti altri, esponenti di una generazione perduta che veniva lentamente rimpiazzata da nuove correnti pittoriche.

Nel 1915 si dedicò brevemente alle incisioni praticando acqueforti per cui ottenne anche svariati premi.

Nel 1918 entrò a far parte del Whitney Studio Club, un famoso club di artisti americani, e nel 1920 fece la sua prima mostra con loro. Il quadro esposto era “Soir Bleu”, titolo ispirato al primo verso della poesia “Sensation” di Rimbaud.

Soir Bleu, Edward Hopper,1914

Il fallimento della sua esposizione fu così clamoroso che, per la rabbia, Hopper rifiutò la sua stessa opera, arrotolandola e confinandola in un angolo del suo appartamento, dove fu trovata post mortem.

Il quadro rappresentava una terrazza parigina con vari personaggi intenti a bere, fumare e giocare. L’eterogeneità dei suoi soggetti e il senso di inquietudine che permea dal disegno rimangono un segno distintivo della poetica di Hopper.

Ma la fortuna, ad un certo punto, doveva cominciare a girare.

Nel 1924 alcuni suoi acquerelli vennero esposti a Gloucester dove riscossero un successo inaspettato.

Fu così grande il suo successo e così clamoroso che nel 1925 “Apartment Houses” venne acquistato dalla Pennsylvania Academy e nel 1930 ” Casa Lungo la ferrovia”, che ispirò Hitchcock per la realizzazione della casa di Psycho, divenne parte del MoMA.

Casa lungo la ferrovia, Edward Hopper, 1925, olio su tela.

Hopper morì nel 1967.

Ad oggi di lui rimangono numerose opere di una bellezza devastante.

Facendo un’analisi approssimativa dei suoi quadri si può notare come il filo conduttore della sua poetica sia il senso di inquietudine e la solitudine, specialmente quella Americana, che contraddistingue i suoi personaggi.

Il tema della luce rimase per Edward di fondamentale importanza e fu proprio la volontà di studiarne le sfaccettature che fece da protagonista in tutti i suoi viaggi, specialmente quelli Francesi.

Gli spazi che ritrae sono sempre piuttosto semplici, bar, cafè, case, ma portano a galla un significato metafisico che sembra non essere, a tratti, pertinente con la loro realtà.

I soggetti che ritrae rimangono vicini sì, fisicamente, ma lontani sul piano delle relazioni, estranei in un contenitore unico, che li raggruppa, ma non li avvicina a livello di anima.

Il fascino della notte viene espresso in diverse opere, come ne “I nottambuli”, dove emerge tutta la forza espressiva di questo talentoso artista.

Edward Hopper, I nottambuli, 1942, olio su tela.

Se fosse accostabile a delle sensazioni, Hopper sarebbe in grado di regalarci il senso di vuoto, di malinconia, di estraneità, di solitudine, vera e profonda, di fronte alla quotidianità della vita.

La capacità di dipingere il silenzio, che gli venne attribuita da diversi critici, è in effetti la caratteristica più peculiare dei suoi lavori, sin dalla gioventù, in particolar modo nel periodo maturo.

Night Windows, Edward Hopper, 1928

Forse la sua abilità stava proprio nel captare quelle sensazioni dell’animo umano che celiamo a noi stessi e dipingerle su tela con pennellate vigorose e precise, metodiche, mai approssimative.

Come lui stesso disse:

“Non dipingo quello che vedo, dipingo quello che provo”

Gas, Edward Hopper, 1940, olio su tela

Automat, Edward Hopper, 1927

Niki De Saint Phalle, pioniera del nuovo realismo

Pseudonimo di Catherine Marie Agnès Fal de Saint Phalle, Niki per coloro che la conoscono con il suo nome d’arte, nacque sulla fine di un Ottobre freddo, nel 1930, in Francia.

Sin da bambina manifestò la sua naturale ribellione ai sistemi e alle norme impostale, cambiando spesso scuola proprio a causa delle sue idee radicali e dei suoi comportamenti selvaggi.

Ad 11 anni rimase traumatizzata dal tentativo di abuso da parte del padre, tentativo che lei stessa cercò di esorcizzare in moltissime sue opere posteriori.

Inizialmente, data la sua naturale bellezza fisica, cominciò una carriera come fotomodella presso Vogue e Life, carriera che però non fu l’unico approccio al mondo dell’arte.

Niki fu poliedrica nella sua visione del mondo. Non fu mai solo una cosa, solo una fotomodella, solo un’artista, ma esplorò nel corso degli anni ogni possibilità che riuscisse a nutrire il suo animo ferito.

Proprio dall’estremo dolore patito in gioventù a causa delle colpe familiari, nel 1952 soffrì di un terribile esaurimento nervoso che la vide chiedere aiuto in una clinica per disturbi mentali, dove soggiornò diverso tempo.

Proprio in questo contesto per niente fastoso, l’artista riuscì veramente a concentrare le sue energie sul lavoro artistico, realizzando opere che come lei stessa definì, erano una sorta di medicina per lo spirito.

E fu così che trovò la sua chiamata.

A partire dagli anni ’60 cominciò a realizzare opere denominate “shooting paintings”. Il nome, chiaro, rappresenta dei quadri realizzati sparando con una carabina a dei sacchetti di colore, che si spandono sulla tela come ferite e squarci.

Spesso, sullo sfondo della tela, Niki disegnò una figura maschili, memore della figura paterna che fu protagonista della tragedia.

A questo punto della sua carriera, la De Saint Phalle, veicolò nel suo lavoro tutto il suo stato emotivo, portando avanti un’arte concettuale di estremo valore che la vide anche partecipe di un gruppo d’avanguardia: i “Nouveaux realistes”.

Fu solo a partire dal 1965 che decise di introdurre figure femminili nelle sue opere.

Da qui incominciò la realizzazione di grandi strutture, denominate la “Nana”, in cui prevalevano le fattezze femminili e i colori sgargianti.

Fu l’anno successivo che la vide protagonista della realizzazione di un’opera monumentale di straordinaria importanza. Il Moderna Museet di Stoccolma le chiese infatti un’opera da poter esporre tra le sue sale e Niki seppe perfettamente cosa creare.

Si trattava di una Nana di 28 metri di lunghezza, 6 di altezza e 9 di lunghezza che rappresentava una donna in procinto di partorire e rinominata “She- a Cathedral”.

Nel seno sinistro della struttura femminile fu inserito un planetario e in quello destro un bistrot per gli ospiti che potevano calorosamente entrare attraverso la vagina della statua.

La cattedrale doveva rappresentare la figura femminile e la sua potenza creatrice.

Dopo il matrimonio con Jean Tinguely cominciò la realizzazione del “Giardino dei Tarocchi”, a Garavicchio, Capalbio (Toscana). Il lavoro la impegnò per 17 lunghi anni, in cui dispose le strutture base di cemento armato e cominciò a ricoprirle di pezzi di vetro, mosaici e ceramiche colorate, conferendo all’opera un aspetto variegato, mai banale, alternativo e fantasioso.

Il costo del parco fu decisamente alto e per finanziarsi Niki decise di pubblicare libri e creare una sua personale linea di profumi.

Proprio per questi motivi non può essere considerata un’artista convenzionale.

I temi principali delle sue opere rimangono di carattere mitologico, principalmente esasperando il tema della vendetta, del dolore e della paura, ma apportando altrettanta importanza a significati ricchi in positività.

Usò sempre colori vivi, per arrivare allo spettatore più facilmente, e carichi di significati metafisici.

Il rosso era il rosso della forza creatrice, innovativa e potente, vibrante e immediata; il verde rappresentava la vitalità, il blu la profondità di pensiero e la forza di volontà che contraddistingue l’essere umano; il bianco la purezza, il nero il dolore ed infine l’oro, colore dell’intelligenza e della spiritualità.

Niki morì nel 2002 per problemi respiratori. Dopo la sua morte fu onorata come artista di grandissima importanza in tutto il mondo, partendo dal MoMa di New York che tenne diverse mostre su di lei e sulla sua produzione.