Breve Compendio di mare e di conchiglie

Da sempre ricca di fascino, la conchiglia incarna una serie di significati variegati e legati perlopiù al mondo delle emozioni e dell’inconscio.

Portatrice di bellezza raggiunge l’apice della perfezione nella sua struttura equilibrata e matematica, fonte di ispirazione per artisti e studiosi di ogni epoca.

Rinascita, fecondità, profondità di animo, mistero, femminilità, amore sono solo alcuni dei significati che le sono stati attribuiti nel corso dei secoli. Non resta che meravigliarsi di fronte alla bellezza di questa creazione ricalcata nell’arte di molti.

Home of Pierre Le Tan as seen by Duncan Grant featuring a grotto chair and a seventeen century Venice console. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Portrait of a lady in an allegorical guise, holding a dish of pearls, Pierre Mignard I. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Ancient Egyptian gold cosmetics vessels. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Syrinx Aruanus. Photo from 1950. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

Detail from Persia and Andromeda, Joachim Wtewael, 1911. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Nautilus Cup, Holbein Bowl, Glass Goblet and Fruit Dish, detail, Willem Kalf, 1678. Via: https://www.instagram.com/classica.arte/

Casa Nautilus, Città del Messico.

Wedgwood collection of pearlware shell plates. Via: https://www.instagram.com/acquadiartem/

OZ: the revolution

La storia di Oz è una storia che abbraccia un decennio e che ha coinvolto personalità del mondo della musica, dell’arte e della letteratura underground.

Issue three: the Mona Lisa cover. Photograph: University of Wollongong Archives

Durante gli anni ’60 erano molte le riviste eclettiche che popolavano il panorama underground: Friends, The Oracle of Southern California, Wendingen e molte altre. Tra queste spiccava però la rivista “OZ”, nata dalle menti geniali di Richard Neville, caporedattore, Richard Walsh e Martin Sharp, il direttore artistico.

Ci troviamo nell’Australia del 1963, un paese benpensante in cui la mentalità alternativa e controcorrente rappresentava ancora un problema per la società.

In questo contesto rigido nasceva però un filone del dissenso, della provocazione e della satira: nasceva OZ.

The first issue of British OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Lo staff era composto principalmente da personaggi del mondo dell’arte e della letteratura quali Robert Hughes e Bob Ellis.

Il primo numero fu lanciato il giorno del pesce d’Aprile del 1963. Con un totale di sole 16 pagine e 6000 copie portava in copertina la notizia fasulla del crollo del The Sydney Harbour Bridge e al suo interno la storia della cintura di castità e un racconto veritiero sull’aborto (ancora illegale al tempo).

L’uscita del primo numero fece tale scalpore che il Daily Mirror cancellò il contratto con la rivista e minacciò di licenziamento Peter Grose, uno dei suoi dipendenti che collaborava con la rivista.

In quel primo anno OZ ricevette la sua prima denuncia per oscenità. Il direttore e i collaboratori si dichiararono colpevoli evitando la pena detentiva ma nel 1964 una seconda denuncia li costrinse ai lavori forzati.

I temi che avevano introdotto erano visti in maniera negativa. La censura, l’odio, il sesso, la brutalità della polizia, il razzismo, la guerra in Vietnam e la ridicolizzazione delle istituzioni rappresentavano una provocazione alla mentalità chiusa del tempo, che non voleva saperne di tutto ciò che la rivoluzione hippy stava portando alla luce.

Sharp e Neville decisero di partire nel 1966. La meta designata era Londra, dove le tematiche erano sentite maggiormente dai giovani e dove, grazie alla stampa offset, era possibile arricchire la rivista in bellezza.

La nuova versione inglese fu fondata quello stesso anno in uno scantinato di Notting Hill arredato con oggetti di culto e poster psichedelici. Tra i fondatori comparve anche Jim Anderson.

Richard Neville (left) and later editors, Felix Dennis, and Jim Anderson, at the close of the trial, 1971.  JONES/DAILY EXPRESS/GETTY IMAGES

Nel numero 11 della rivista vennero introdotti adesivi psichedelici rossi, verdi e gialli, nonché disegni alternativi e provocanti.

Il numero 16, chiamato Magic Theatre, pubblicato nel novembre 1968, era composto da sola grafica realizzata dalla mente di Sharp e Philippe Mora e venne definito “Il più grande successo della stampa alternativa britannica”.

La rivista raccolse consensi tra varie personalità, inclusi John Lennon e Yoko Ono nonché Mick Jagger e vi comparvero interviste di Pete Townsend, Jimmy Page e Andy Warhol.

Nel 1970 i fondatori decisero di fare un numero curato da bambini selezionati e venne chiamato Schoolkids OZ.

I bambini vennero prima interrogati sulle loro opinioni in educazione, politica e società, nonché su sesso, droga e rock ‘n’ roll.

Il numero 28, che vendette poche copie, presentava una parodia di sesso esplicito di Rupert The Bear, voluta proprio da uno dei piccoli scrittori e causò un dissenso tale da provocare il più grande scandalo per oscenità di tutta l’Inghilterra.

The teenage contributors to the 28th issue of OZ magazine. PUBLIC DOMAIN

Schoolkids OZ, numero 28, 1970.

A cropped section of the cover of the 28th issue of OZ magazine, which features blue women in the nude.

I tre principali autori vennero considerati i responsabili di tutto quanto fosse riportato in quel numero, sebbene fossero stati dei minorenni a scriverlo, e vennero accusati di oscenità e oltraggio al pudore, nonché cospirazione atta alla corruzione della morale pubblica, capi d’accusa che prevedevano il carcere.

L’opinione pubblica si spezzò. Alcuni credevano che la rivista provocasse una deviazione morale non indifferente e che il numero 28 in particolare potesse portare all’omosessualità i giovani e causare dei gravi problemi psicologici; altri, come Lennon e Ono, lo difesero a spada tratta, fino a registrare una canzone intitolata God Save OZ e poi cambiata in God Save Us per raccogliere fondi.

Il Times of London dichiarò di aver ricevuto più lettere sul processo che sulla crisi di Suez e un’effige del giudice venne bruciata davanti alle aule del tribunale in segno di protesta.

I tre furono scagionati dall’accusa di cospirazione, ma ritenuti responsabili di due reati minori per cui era previsto il carcere. Qui gli vennero tagliati i capelli lunghi, causando ulteriori proteste da parte della comunità underground e hippy della Swinging London.

Oz Obscenity Trial Invitation issued by editors of Oz Magazine, 1 October, 1971. © Victoria and Albert Museum, London

Nella storia orale di Jonathan Green, Neville dichiarò in merito alla nascita della rivista:

“I sensed there was a substratum of genuine irritation with the society. There was no access to rock ‘n’ roll, pirate radio had gone, women couldn’t get abortions. This again was something which seem like another piece of repressive puritical behavior that one wanted to fight”.

La passione di Neville però si stava spegnendo:

“Mi sembrò che stessi diventando sempre più propagandista, non più l’autore di una rivista che provava a offrire una piattaforma per scrittori e fumettisti.”

Alla revisione del processo i tre vennero rilasciati definitivamente.

La rivista chiuse i battenti nel 1973 con il numero 48. La causa ufficiale fu la bancarotta.

Gli scrittori e i collaboratori erano poco pagati- o per nulla- e non giravano molti soldi a causa dello scarso numero di copie vendute (circa 30000) anche se i lettori effettivi erano molti di più.

Dennis, uno dei collaboratori, ormai divenuto miliardario nel mondo editoriale, dichiarò riferendosi alla figura carismatica di Neville:

” No one else would avere have managed to get me working for nothing.”

La fine della rivista rappresentò la fine di un momento storico nato in seno agli anni ’60 e fortemente voluto dai giovani del tempo che non si rispecchiavano nelle visioni più conservative.

OZ, V&A archives

Diary of Felix Dennis for the period of 14 – 27 December, 1970 covering police raid on Oz offices. © Victoria and Albert Museum, London
Guest editors of Oz #28 – School Kids Issue, 1970. © Victoria and Albert Museum, London

Una frase rimase emblematica all’interno della rivista:

“TAKE THE PLUNGE! commit a revolutionary act. Subscribe to OZ”

Ad oggi è possibile trovare i numeri della rivista in questo archivio: https://ro.uow.edu.au/ozsydney/

Altri articoli sul tema: https://canal-mag.com/l-incredibile-oz-mitico-magazine-australiano/ https://www.atlasobscura.com/articles/oz-magazine-obscenity-trial https://www.anothermanmag.com/life-culture/9936/why-oz-was-the-most-controversial-magazine-of-the-1960s

https://www.messynessychic.com/2020/05/07/that-1960s-revolution-of-underground-press-is-still-alive-well/

La stilista visionaria che ha cambiato il mondo della moda

Madeleine Vionnet nacque nel 1876 e già dall’età di 11 anni cominciò il lavoro di sarta che le avrebbe garantito un futuro brillante.

Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi divenendo Première solo due anni dopo. Nel frattempo si era sposata e aveva avuto una figlia. Infelice del risultato ottenuto e per niente adatta alla vita classica e convenzionale di madre di famiglia, partì per l’Inghilterra dove divorziò dal marito. La bimba morì in un incidente solo un mese dopo l’arrivo a Londra. Qui intraprese diversi lavori che la videro impegnata sempre nel mondo del cucito, finché tornò a Parigi con l’inizio del nuovo secolo.

Al tempo si stava sviluppando una nuova corrente di pensiero che proponeva una riforma dell’abbigliamento femminile in favore di un modello ispirato all’abito alla greca. Le donne cominciavano a stancarsi degli stretti corsetti e delle imposizioni pompose che fino ad allora avevano regnato in tutta Europa.

Nello stesso periodo inoltre, una giovane ballerina e artista di nome Isadora Duncan cominciava a danzare a piedi scalzi indossando una tunica che le permetteva movimenti ampi. La riforma stava cominciando ad espandersi e anche se non sappiamo con certezza quanto influì sullo stile di Vionnet, sappiamo che ne fu in qualche modo pilastro portante.

A Parigi lavorò per diverse case di moda e nel 1907 realizzò una collezione di abiti innovativi, ispirati alle performance della stessa Duncan.

Propose un nuovo modello di abito femminile privo del famoso busto, commentando:

“Io stessa non ero mai stata capace di sopportare corsetti, quindi perché mai avrei dovuto infliggerli alle altre donne?”

ed escogitando nuove tendenze che di lì a poco divennero chic e in voga.

Nel 1912 aprì il suo primo atelier dove potè di fatto coronare le sue idee e realizzare abiti innovativi e moderni e al tempo stesso comodi e pratici.

Finanziata da Germaine Lillaz, Madeleine fu protagonista assoluta di una storia di donne, per le donne, per la loro cultura, la loro creatività e la loro bellezza. L’emancipazione che realizzò grazie a Madame Lillaz, fu un punto cardine della sua filosofia di moda e di vita, anticipando quella che sarebbe diventata ben presto una rivoluzione sociale a tutti gli effetti.

Non abbiamo molte informazioni in merito ai modelli dei primi anni della maison, sappiamo solo che l’ispirazione del tempo era il kimono orientale che affascinava le giovani donne e sembrava pratico e confortevole non solo per passare le giornate in casa, ma anche per uscire all’aria aperta.

Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale che la vide costretta a chiudere l’atelier e rifugiarsi a Roma, aprì una nuova società.

Da questa nuova avventura, cominciata dopo lunghi e tormentati anni di battaglia e morte, nacque una delle innovazioni più moderne e popolari del secolo: l’abito in sbieco.

Negli anni ’20, quando gli uomini erano impegnati sul fronte bellico, le donne avevano preso parte alla vita sociale e collettiva in maniera diversa. Per la prima volta avevano avuto la possibilità di lavorare, di aiutare e di diventare più emancipate che mai. Curare feriti, guidare automobili, fabbricare munizioni richiedeva un abbigliamento pratico e comodo, nulla a che vedere con quanto si indossava in passato. I corsetti vennero nascosti negli armadi, lontani dalla vista, le gonne si accorciarono abbandonando la loro lunghezza plateale in favore della praticità, i capelli si portavano ora corti per potersi dedicare ad altro, mettendo in secondo piano la seduzione e la bellezza.

Dove Chanel aveva proposto un modello maschile, Vionnet rimase fedele allo sguardo femminile che apprezzava tanto.

Ritornò all’abito mediterraneo, su ispirazione Greca, lavorando il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in modo che potesse seguirle e abbracciarle in maniera autonoma.

Il primo modello fu composto da quattro quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. Quattro cuciture tenevano insieme il tutto e una cintura annodata in vita rappresentava l’accessorio finale. Il risultato era una sorta di chitone greco con una caduta semplice e nuova che aderiva al corpo.

Madeleine Vionnet, abito da sera, 1918-19. A destra abito da sera, inverno 1920, Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La robe “quatre mouchoirs” è confezionata in crêpe di seta avorio

Il taglio in sbieco che cominciò da qui ad utilizzare prevede che la stoffa venga usata in obliquo invece che secondo il senso della tessitura (drittofilo).

Madeleine Vionnet, abito da sera, in “Vogue France”, ottobre 1935, foto Horst P. Horst

Anche se Vionnet negò sempre la maternità dell’invenzione che di fatto era già utilizzata nell’ottocento per realizzare colletti e cuffie, fu la prima stilista ad utilizzarlo per la realizzazione di abiti interi.

Altro elemento che utilizzò moltissimo fu quello geometrico, la chiave fondamentale della sua idea creativa.

Le figure geometriche che utilizzò nel taglio garantivano un effetto mai visto prima, portando gli abiti ad avere una complessità straordinaria (per certi versi quasi impossibile da comprendere) e una fantasia minimale che sfociava in leggi matematiche precise.

Madeleine Vionnet, abito da sera

Una delle particolarità della filosofia di Vionnet fu quella di utilizzare un manichino per la realizzazione dei vestiti e solo in seguito creare uno schizzo dell’abito. In questo modo e lavorando in maniera privata in una stanza separata, riusciva a creare abiti che si adattassero perfettamente al corpo, lasciandolo libero di muoversi e creando anche una sfarzosità minimal che viene ricercata anche al giorno d’oggi.

Madeleine Vionnet al lavoro sul suo manichino

Famosissime furono le realizzazioni delle sue rose, realizzate utilizzando precisione e ripetizione, in maniera meccanica, per renderle tutte uguali e il più possibile verosimili ai fiori.

Madeleine Vionnet, cappa da sera con rose, 1921 Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La fotografia si trova in uno degli album di copyright della Maison Vionnet

Negli anni ’30 il metodo Vionnet divenne famoso anche oltreoceano, dove venne valorizzato dalle dive Hollywoodiane che indossavano ora abiti a sirena realizzati proprio attraverso il taglio in sbieco. Questo modello classico serviva a far emergere tutta la potenza seduttrice del corpo della diva rendendo però facile la recitazione.

Sempre negli stessi anni introdusse anche la gonna ampia, un nuovo modello che piacque moltissimo a Hollywood che la incorporò insieme allo sbieco e alla forma a sirena. I tessuti che vennero utilizzati erano estremamente delicati e decorativi. Il crêpe Rosalba di Bianchini-Férier, il crêpe Romain o quello broccato aux tonneaux di Ducherne divennero il simbolo della maison.

Madeleine Vionnet, abito da sera, estate 1938 New York, The Metropolitan Museum of Art. Il modello, di Crêpe di seta avorio, è ricamato ad applicazione di frange in tinta che formano un disegno a festoni

La popolarità di Vionnet rimane tale anche per la sua personalità vivace e distante dalla mentalità del tempo. Un’innovatrice a tutti gli effetti fu anche portavoce dello stare bene con sé stesse e andò contro le imposizioni dietetiche che ancora oggi son presenti.

Come disse in una celebre frase:

“In fondo, non ho avuto che una cosa da soddisfare nella mia vita, la mia indipendenza”.

Madeleine morì all’età di 99 anni e rimane un faro per la moda internazionale e una grandissima voce innovativa per la società.

La casa del vero espresso italiano

In un angolo dimenticato tra Vallejo Street e Grant Avenue perdura un luogo magico e poetico che ha animato intere generazioni.

Il Caffè Trieste nacque quando Giovanni Giotta, conosciuto come Papa Gianni, decise di portare la tradizione italiana del caffè nella fiorente Little Italy di San Francisco.

Papa Gianni, immigrato italiano, arrivò in America alla ricerca di nuove possibilità e lavoro. Qui si scontrò con le difficoltà dettate dal nuovo contesto e con la diversa mentalità che a tratti cozzava con il suo spirito italiano.

Incuriosito da nuove prospettive lavorative, prese un locale di modeste dimensioni chiamato Piccola Cafe e lo modernizzò per dare vita al Caffè Trieste.

La sua idea era quella di importare caffè direttamente dall’Italia, cosa che negli anni ’50 non si faceva ancora, per poter ricreare il vero espresso italiano che mancava in quei luoghi.

Così facendo aprì le porte ad un fiorente business che perdura ancora oggi e fa del caffè il centro propulsore della sua economia.

Il celebre locale diventò famoso subito dopo la sua apertura. Dapprima gli Italiani emigrati furono richiamati dall’aroma speziato che proveniva da quel bar alternativo; dopo di loro seguirono gli americani, curiosi di provare qualcosa di forte che non fosse il classico caffè solubile che conoscevano.

In pochi anni il luogo divenne un centro di incontro per svariate personalità. Scrittori, pittori, poeti e fotografi si sedevano ai tavoli per poter discutere di argomenti colti e portare avanti i loro lavori artistici indisturbati. Tra di loro vi erano personalità fisse come Ferlinghetti, Kerouac, Ginsberg, ma anche lo stesso Coppola che, a quanto si dice, terminò parte della sceneggiatura del “Padrino” comodamente seduto a sorseggiare la sua bevanda.

Ad oggi il bar è ancora meta dei personaggi alternativi che abitano l’intorno di Vallejo Street e di qualche curioso turista appassionato ai luoghi di nicchia.

Il locale è piccolo e arredato esattamente come lo era negli anni ’50. Il bancone, vecchio e consumato, ricorda molto la povertà con cui si scontrarono i primi emigrati.

Alle pareti è possibile osservare un colorato mosaico di fotografie. Tra di esse spuntano volti noti, come Bocelli, e altri meno noti. Il tutto è arricchito da un’aura di malinconia e mistero, celata sotto un velo perenne di polvere e odore di tabacco e caffè.