Il palazzo in un sogno incantato

Questa fu la definizione che scaturì dalla bocca del re Edoardo VIII quando decise di soggiornare presso l’immensa struttura dello Chateau de L’Horizon nel 1936.

La villa era stata terminata nel 1933 e voluta interamente dalla personalità di Maxine Elliott.

Maxine, nome d’arte di Jessie Dermot, era stata, alla fine del ‘800, una delle dieci attrici teatrali più note al mondo. Aveva avuto una brillante carriera nel mondo dello spettacolo, in gran parte dovuta alla sua bellezza fisica e agli occhi del colore dell’alessandrite.

Dopo aver dato l’addio ufficiale alla recitazione e dopo aver viaggiato in lungo e in largo per i vari continenti, decise di soggiornare definitivamente in Costa Azzurra, luogo magico e dallo spirito fatato.

Qui cominciò la costruzione di una dimora da regina, in stile minimalista, amalgamata perfettamente al paesaggio roccioso circostante. L’architetto ideatore fu Barry Dierks, che seppe realizzare prontamente e puntigliosamente una struttura bassa, bianca e dalle fattezze mediterranee, che potesse essere l’approdo della gente bene di tutto il mondo.

La villa, denominata Chateau de L’Horizon, costruita sulla cresta della roccia, si stagliava sul più blu dei mari, come galleggiante sulla superficie dell’acqua cristallina.

Presentava una piscina, sapientemente organizzata per confondersi con l’orizzonte marino e collegata all’acqua sottostante mediante uno scivolo che permetteva agli ospiti di tuffarsi in mare.

La terrazza, enorme, rappresentava il cuore della vita estiva della casa. Vi erano tende parasole e tavolini disposti all’ombra per permettere il gioco durante i lunghi pomeriggi estivi.

I mobili, da campagna inglese, adornavano ogni angolo delle numerosissime stanze della magione. Gli ospiti fissi, infatti, non erano in grado di dire quante suite e camere da letto- tutte dotate di balcone e bagno privato- ci fossero effettivamente nella struttura.

Swimming pool on Prince Ali Khan’s estate, The Chateau de l’Horizon. (Photo by John Swope/Getty Images)

Winston Churchill presso la villa

La vita allo chateau scorreva lenta e festosa.

La colazione si teneva privatamente, ogni ospite presso la propria stanza da letto ordinava il cibo che desiderava e lo consumava sul balcone privato, in un rito che sembra ricordare la discrezione di molti hotel di lusso.

Si procedeva quindi a scendere verso la zona della terrazza, si faceva un bagno in piscina, mettendo in mostra i costumi di moda al tempo e i lunghi parasole di seta orientale.

Il pranzo si teneva alle 13 e di solito vedeva la partecipazione di 30 o 40 commensali ogni giorno.

Il pomeriggio si trascorreva giocando a Bridge, a bazzica a sei mazzi o a backgammon, oziando sdraiati al sole o tuffandosi in mare.

La cena era rigorosamente servita alle 21 e si teneva sotto la pineta della villa, in abito da sera.

Durante le sere estive si poteva ammirare il paesaggio sotto la luce argentea della luna, che quando mancava, veniva sostituita da una finta luna elettrica posta sull’albero più alto.

Lo chateau era immerso nel verde, nel blu e nella tranquillità della costa francese.

Lontano da sguardi invadenti, si prospettava come il luogo ideale per diplomatici, politici e personalità di spicco europee e americane.

Famosi erano i cocktail party che si svolgevano presso le sue bianche mura.

Caratterizzati da stuzzichini e fiumi di champagne, si protraevano per l’intera giornata, a bordo piscina.

Per tutti gli anni ’30, lo chateau, rimase il luogo preferito in cui soggiornare non solo da Winston Churchill, ma anche da Elsa Maxwell, Aga Khan, Cecile Beaton, Beatrice Guinness e molti altri.

La villa garantiva la pace di cui gli ospiti avevano bisogno e ogni comfort per poter saziare le loro aspettative di lusso.

Fu acquistata da Aly Khan negli anni ’40 e qui venne celebrato il matrimonio- definito del secolo- con la bella Rita Hayworth. La piscina fu interamente riempita di acqua di colonia per diffondere il profumo a tutta la villa.

La struttura originaria oggi è stata completamente rivisitata. Difficile scorgere le trame del castello bianco che per oltre 20 anni è stato l’assoluto protagonista della riviera francese. Il giardino grande e ben curato è stato assorbito da nuove costruzioni ampie e moderne.

Lo stile di vita è sempre dedito al lusso, ma forse un lusso decisamente meno sofisticato di quello voluto dalla sua storica proprietaria.

I mondi fantastici di Errol Le Cain

Un tempo sfogliando i libri per bambini si potevano trovare delle illustrazioni di pregiatissima fattura. Lontane dalla mondanità banale che impervia in ogni ambiente, tramite questo grande artista abbiamo ancora uno scorcio di romanticismo verso il passato.

Errol John Le Cain nacque nel lontano 1941.

La sua vita fu ispirata dai numerosi luoghi in cui visse in gioventù.

Da Singapore ad Agra, per poi sbarcare a Londra, Errol assorbì tutte le sfumature di colore e fantasia che riuscì a scovare nei suoi peregrinaggi con la famiglia.

Già all’età di 11 anni esplorò la realizzazione del suo primo film, in 8 mm, chiamato “The Enchanted Mouse”.

L’animazione fu il suo primo amore che coltivò con molta dedizione durante tutto il corso della sua vita, arrivando a lavorare come freelancer nel 1969 con la BCC.

Lavorò alla realizzazione di “The Snow Queen” di Anderson, dove recitavano attori su sfondi realizzati dalla sua mano abile ed esperta.

Pubblicò 3 libri di sua invenzione e ne illustrò 48 a partire dal 1979.

Errol venne a mancare in giovane età a causa di una malattia, nel 1987.

Guardando le sue illustrazioni si può ritrovare la tradizione orientale che accompagnò i suoi lavori, ispirata proprio dall’ambiente in cui visse nei primi anni di vita.

L’elemento fantastico che emerge in maniera esotica non appesantisce la storia, ma piuttosto la integra per colorarla di aspetti e sfumature che permangono nella mente dell’osservatore.

JLG, stella polare del cinema del ‘900

Addio Jean-Luc.

Si è spento tramite suicidio assistito, un grande regista del cinema del novecento.

Non fu, in verità solo un regista.

Cominciò la sua carriera come un critico di cinema, appassionato sì, ma molto radicale nelle sue idee.

Da lì prese la strada dei cortometraggi e fu solamente nel 1959 che sperimentò con i lungometraggi con l’opera “Fino all’ultimo respiro”, capostipite che diede il via all’era Godardiana.

Esponente illustrissimo della “Nouvelle Vague”, termine coniato nel ’57, cominciò a porre l’accento su un cinema differente, opposto al classico “cinema di papà” che al tempo andava di moda.

Il senso delle opere non era più attorno all’attore o alla scenografia, bensì attorno al regista stesso che, come uno scrittore, apre le pagine del proprio diario interiore per realizzare qualcosa di personale ed intimo, oltre ogni aspettativa.

Nascono quindi nuovi modi di girare e realizzare questi piccoli capolavori.

Diventa importante l’elemento della luce, non più accentuata da proiettori, ma solamente dalla sua essenza naturale, che permette di creare familiarità con i personaggi nonchè vivo realismo. I protagonisti sono di solito amici o conoscenti e le ambientazioni usate sono gli appartamenti e le case dei vari partecipanti, andando ancora una volta a scardinare le imposizioni del cinema del tempo. Anche le vie e le traverse rappresentano un terreno fertile per la cinepresa che mira ad estrarre dalla realtà ogni goccia di ispirazione, volendo portare alla luce dello spettatore lo “splendore del vero”.

Abbraccerà le idee Marxiste che riproporrà nel cinema, arrivando anche allo sperimentalismo con il gruppo “DZIGA VERTOV” che prevedeva la realizzazione di opere collettive in cui perde importanza il protagonismo del singolo per assumerne, invece, la collettività.

Fu, fino al suo ultimo respiro, una pietra miliare di quella sottile ed eversiva arte celebre ai cineasti di tutto il mondo.

Godard vinse il leone d’oro nel 1984 e l’Oscar alla carriera nel 2011, due grandi manifestazioni di riconoscimento del suo talento.

Nella Parigi della Beat Generation

Al 9 rue git le coeur, nel quartiere latino di Parigi, famoso per la sua movida, sorge un hotel quattro stelle chiamato Relais hotel du Vieux Paris.

La struttura portante, oggi rinomata come boutique hotel, un tempo ospitava un luogo magico e fiorente: il Beat hotel.

Popolare meta di artisti e scrittori, tra gli anni ’50 e ’60, vide nei suoi corridoi e nelle sue stanze la creazione di opere- Basti pensare a “Kaddish” o a “Naked Lunch” -che rimangono ancora oggi il cardine della Beat Generation.

L’hotel disponeva di 42 stanze e minimi standard di igiene, cosa che oggi verrebbe considerata inammissibile. Il prezzo era modesto, 50 centesimi a notte, con acqua calda solo il giovedì, il venerdì e il sabato, e una singola vasca da bagno per potersi lavare nel seminterrato, da prenotarsi con largo anticipo.

I proprietari, i Rachou, erano ospitali e abbastanza di manica larga per quanto riguarda le regole. Si poteva far uso di droga e fumare hascisc, l’odore veniva perdonato dalla polizia tramite succulenti sandwich che la padrona di casa preparava costantemente.

Madame

Qui la creatività doveva poter fluire incessantemente. Tra cene preparate da Madame Rachou e discorsi al bar, l’arte veniva costantemente alimentata dalla comunità presente in maniera vivace e allegra.

Madame con diversi artisti

Il nome venne dato da uno degli illustri personaggi che bazzicavano al suo interno. Gregory Corso fu infatti colui che lo rese la meta preferita degli artisti Americani (e non) che stavano vivendo il loro intenso momento parigino alla ricerca di una più profonda connessione con la loro anima.

Tra essi vi erano Ginsberg, Orlovsky, Burroughs, Gysin, Norse e altri.

William Burroughs nella sua stanza

Ginsberg e Orlovsky,1957

Gregory Corso nella sua stanza fotografato da Ginsberg

Una pratica tipica per coloro che non riuscivano a permettersi di pagare l’affitto delle stanze era quella di dedicare poesie, tele, scritti di vario genere alla proprietaria.

Lei stessa, memore di un’esperienza lavorativa in un locale frequentato da Picasso, decise di concedere agli artisti la possibilità di arredare e dipingere le proprie stanze a loro piacimento. L’hotel divenne quindi un luogo eclettico e alternativo, punto cardine della vita beat parigina, luogo di ritrovo fondamentale per la visione alternativa che questo movimento portava avanti.

Come disse Verta Kali Smart sulla rivista “Left Bank this month”, il beat hotel pareva un luogo lasciato al caso, ma la clientela era selezionatissima. Per entrare bisognava avere l’aspetto di un artista, con una tela sottobraccio, o dire le cose giuste e avere le giuste conoscenze. Chiunque avesse qualcosa di importante da dire e fosse una personalità nel suo ambito era ammesso.

Fotografia di Harold Chapman

L’avventura beat durò fino al 1963, quando ormai madame, rimasta vedova da 5 anni, non potè più gestire l’hotel e la sua vita alternativa. L’ultimo ad andarsene fu Harold Chapman, che aveva documentato nel corso del tempo la presenza di vari artisti.

Harold Champman, self-portrait.

La struttura venne venduta, ma ancora oggi rimane un luogo centrale della cultura parigina e americana.

Molti artisti rimasero con l’amaro in bocca per la decisione della vendita e continuarono a guardare con un pizzico di malinconia agli anni passati nel cuore Parigino.

Nel 1997 Burroughs scrisse in uno dei suoi diari:

“Can I bring it back, the magic and danger of those years in 9 rue Git-Le-Coeur and London and Tangier—the magic—photographs and films.

Oggi rimane un’insegna, unico elemento che ricorda il passato glorioso di quel posto. Negli anni si sono susseguiti cambiamenti e vicende che ne hanno alterato profondamente l’aspetto, ma non l’essenza originaria che permane, se non altro, nel ricordo della sua storica grandezza.

L’isola dei sogni: dove cielo e mare si uniscono

Nel 1957 la rivista Sport Illustrated chiese a Toni Frissell un servizio fotografico su Nantucket. Dal suo lavoro emerge un passato fatto di sport, sole, mare e bella vita.

Nantucket è un’isola sulle coste del Massachusetts, 25 miglia a sud di Cape Cod, mangiata dall’oceano Atlantico e dai suoi venti, corrosa dal sale e immersa nel profumo di salsedine.

Il suo nome, di origine indiana, significa “isola lontana”.

Lo stesso Ralph Waldo Emerson disse che Nantucket trasmetteva la sensazione che ogni cosa bella immaginabile potesse ancora succedere e in parte è così.

Spesso paragonata a Martha’s Vineyard, sua vicina a ovest, risulta essere la meta di diverse personalità nel corso dei decenni, prevalentemente artisti di vario calibro e scrittori in cerca di un porto sicuro in cui rilassarsi e magari affrontare il temibile blocco.

I suoi colori particolari, le sue fioriture e i suoi alberi, nonchè le sue spiagge sconfinate, hanno attratto l’occhio attento di molti interessati anche al suo stile di vita peculiare.

Non bisogna però pensarla solo come un piccolo paradiso di macchie colorate e cieli azzurri, l’isola infatti regala abbondanti piogge e spesse nebbie che riuscirebbero a stressare anche il più calmo dei suoi cittadini.

Meta chic della gente “bene” americana, ha regalato sin dagli albori momenti di divertimento e spensieratezza tra partite di golf, tennis, cocktail su terrazze e bagni solari abbracciati dal suono del suo perpetuo moto ondoso.

La Frissell riuscì a cogliere l’aspetto più umano e interessante della cultura isolana del tempo, quando le vecchie signore uscivano per l’Happy hour imbellettate di tutto punto, con collane di perle e bracciali d’oro, per sorseggiare alla luce del tramonto un drink accompagnato da assaggi a base di pesce.

Guardando queste fotografie riesce a emergere il sogno lontano e la magia che un tempo abitava quest’isola e che forse può essere ancora scorta nei moderni scatti fotografici di un iPhone.

A noi comuni mortali spetta solo la visione lontana di questo piccolo gioiello oceanico, ma forse basta per alimentare in noi il sogno americano che ha addolcito l’esistenza di molte generazioni.

L’artista sconosciuto che affascinò i grandi del suo tempo

Greenwich Village, 1940.

Una coppia di novizi sposi si addentra nella loro nuova casa. È un piccolo appartamento, ma basta per loro due, che non hanno molte pretese. L’importante è che ci sia una buona luce e dello spazio per poter realizzare il gesto più importante e significativo di tutti: dipingere.

Questo è l’inizio di una storia che arriva fino ai giorni nostri e che pochi conoscono.

I due sono Virginia Admiral e Robert De Niro. 

Sì, avete letto bene.

Prima del grande attore, premio oscar, c’era il padre, un altrettanto grande artista, nominato perfino da Kerouac in un suo libro.

I due facevano parte del gruppo di artisti che si era stanziato a New York già da un po’ di anni. Poeti, scrittori e pittori si ritrovavano per colloquiare di arte e misteri della vita e, in ultimo, trovare un terreno fertile per portare avanti la loro arte.

I due si erano conosciuti studiando sotto Hans Hofmann, esponente dell’espressionismo astratto, nella sua scuola estiva.

In quel periodo conobbero intellettuali e scrittori come Anais Nin ed Henry Miller, gli amanti più peccaminosi ed erotici mai conosciuti, Jack Kerouac, Tennessee Williams e molti altri.

Fu in questo contesto che Robert De Niro, dopo aver messo al mondo il più celebre Robert De Niro jr, fece coming out. 

In quegli anni essere omosessuale era visto ancora come un qualcosa di negativo e la connotazione che veniva attribuita ai gay era pesante e demistificatoria. Robert aveva combattuto tutta la sua vita contro il suo stesso essere, arrivando anche al matrimonio, forse una sorta di illusione per quello che sentiva realmente dentro di lui. Dopo il coming out la moglie lo lasciò e si dice che lui incominciò varie relazioni tra cui una con il meglio conosciuto Pollock.

Le incongruenze di idee di vita influenzarono sicuramente Robert De Niro jr che tuttavia rimase sempre legato al padre, ricordandolo ancora oggi con stima seppur velata da tristezza. I due passavano tempo insieme andando al cinema, prima a vedere opere di grandi come Jean Cocteau, poi a vedere lo stesso de Niro jr recitare in varie pellicole. Robert jr ricorda come a volte fosse molto naturale per loro rimanere in una stanza entrambi in silenzio, forse su due linee opposte di pensiero, ma mai opposti come persone.

Robert fu un grandissimo pittore, riconosciuto dalla critica e dai grandi dell’ambiente con cui poteva facilmente competere uscendone vincitore. Nonostante questo, con l’affacciarsi di nuovi stili e tendenze e la prevalenza della pop art nel mondo dell’arte, cadde nel dimenticatoio.

Continuò a dipingere tutta la sua vita, come una sorta di bisogno interiore dettato dalla propria essenza e mai da esigenze economiche o di riconoscimento. Fu affetto per anni da depressione, causata principalmente da vari rifiuti di galleristi francesi di esporlo, ignari della portata delle sue opere in America. Morì nel 1993 all’età di 71 anni.

Robert Jr in un’intervista del 2012, disse di aver lasciato il suo studio come lo aveva lasciato il padre prima di morire, un gesto, forse, volto a ricordarne la grandezza e al tempo stesso l’umanità.

L’esperimento scientifico più inusuale della storia

Biosphere 2, questo è il nome attribuito a un esperimento scientifico iniziato con la costruzione di enormi padiglioni nel mezzo del deserto dell’Arizona.

La costruzione, avviata nel 1987 e terminata nel 1991, prevedeva l’allestimento di un’estesa superficie per la creazione di una “seconda terra”.

All’interno delle istallazioni di metallo e vetro coesistevano 6 diversi ecosistemi: la foresta tropicale, un oceano con tanto di barriera corallina, una palude di mangrovie, un deserto, la savana e terreni coltivabili. In aggiunta erano presenti numerosi laboratori per lo studio di piante e animali.

L’idea nacque da John Polk Allen, uno scienziato esperto in leghe metalliche e la moglie, Marie Harding, fotografa. Prima di allora avevano sperimentato diversi anni di vita in un ecovillaggio fondato da loro nel 1969, il Synergia Ranch, situato a Santa Fe, nel New Mexico.

La funzione di queste mastodontiche strutture doveva essere quella di introdurre dei possibili sistemi di colonizzazione di altri pianeti, come Luna e Marte, lo studio della crescita della flora e della fauna e i vari cicli vitali e chimici che interessano il Pianeta Terra.

Un’ulteriore finalità era quella di provare l’ipotesi Gaia, del biofisico James Lovelock e della microbiologa Lynn Margulis che nel 1972 avevano ipotizzato che terra, piante e animali si fossero sviluppati nel corso delle epoche in un sistema autoregolante.

All’interno degli spazi furono introdotte più di tremila specie differenti, tra piante e animali, pesci e insetti, oltre che cereali e verdure di vario tipo.

L’esperimento venne avviato il 26 Settembre del 1991, con otto partecipanti, quattro uomini e quattro donne che per un periodo di due anni dovevano vivere all’interno di Biosfera 2 in maniera autosufficiente, quasi completamente isolati dall’esterno, mentre conducevano esperimenti pratici per raccogliere dati.

Questa straordinaria idea però cominciò ben presto a vacillare.

La mancanza di sole non garantiva una corretta crescita delle specie al loro interno, la scomparsa degli insetti impollinatori rappresentò un problema anche di fronte all’alto tasso di riproducibilità di formiche e blatte, che presto invasero tutti i compartimenti, e una pericolosa caduta dei livelli di ossigeno compromisero l’esperimento al punto tale che il sistema isolato dovette ricorrere a numerosi aiuti esterni.

Anche sotto un profilo psicologico la situazione si fece tesa.

Ben presto si svilupparono due fazioni di pensiero, capeggiate da due delle scienziate presenti che avevano visioni diverse circa la conduzione dell’esperimento e il mantenimento del suo isolamento dal mondo esterno.

Nonostante tutto gli otto scienziati rimasero per la durata intera dei due anni e uscirono nel 1993.

L’anno successivo venne annunciata una seconda missione, anche in luce al fallimento colossale della prima e delle varie problematiche che si erano istaurate all’interno del complesso esperimento.

La missione 2 fallì dopo appena 32 giorni per la natura troppo estrema dell’esperimento.

La struttura, eccessivamente grande e costata 150 milioni di dollari, fu affidata alla Columbia University fino al 2003, per poi passare all’università dell’Arizona.

Tutt’ora è un museo aperto al pubblico, ma non disdegna una funzione scientifica. Si studiano infatti gli ecosistemi e le loro relazioni, nonché nuove proposte per fronteggiare il cambiamento climatico.

Una delle note più interessanti è sicuramente l’aspetto psicologico dell’esperimento, che viene elaborato all’interno degli studi psicologici e sociali avviati nella struttura, e in particolare modo la relazione tra uomo e natura, che nel corso degli anni è stata persa, nonché la relazione sociale tra uomini, fattore fondamentale per le eventuali future colonizzazioni di altri pianeti.

Ulteriori studi riguardano l’acidificazione degli oceani, causa principale dell’estinzione della barriera corallina e le pratiche necessarie a impedirla.

Questa idea, nata principalmente con scopi scientifici validi e definiti, è diventata nel corso degli anni fonte di imbarazzo per gli ideatori, un’utopia troppo grande e pretenziosa per poter essere raggiunta.

Molti sono stati coloro che hanno storto il naso di fronte a Biosfera 2, di fronte al suo costo e di fronte alla metodologia con cui gli esperimenti sono stati condotti.

Nonostante ciò potrebbe essere un importante punto di svolta per gli studi climatici e per tutte le questioni ambientali, faunistiche e floristiche che ci riguardano da vicino. Avere una struttura così vasta, con dei sistemi ecologici già stabiliti e adattati potrebbe rappresentare il punto di partenza per ulteriori studi e per ulteriori missioni, garantendo una risorsa fondamentale e non indifferente anche per le generazioni future.

Film per una (troppo) soleggiata domenica estiva

Quando il caldo dell’estate si fa sentire, come in queste ultime settimane, diventa difficile fare attività all’aperto. Solo l’idea di buttarci sotto il sole cocente ci sfinisce e l’unica soluzione plausibile sembra stare chiusi in casa con il condizionatore sparato a mille.

Certo è allettante stare al fresco, abbandonati sul divano a passare le ore in una sorta di dormiveglia collettivo.

Però a volte ci si annoia a morte a passare i pomeriggi così, soprattutto per chi non ha la fortuna di una bella piscina fresca in cui buttarsi ancora vestito.

Insomma bisogna trovare qualcosa da fare.

Se siete i tipi da libri forse questo non è il miglior post che potete trovare. Se invece siete deconcentrati dal caldo e volete passare un pomeriggio afoso di fronte alla tv (o al pc) questa lista fa per voi:

Il giardino delle vergini suicida (1999) di Sofia Coppola:

Storia complessa, di fatto una mezza tragedia, ma se siete degli esperti di estetica troverete questo film decisamente piacevole. Forse è un po’ impegnato per un pomeriggio estivo, ma merita per la fotografia e in generale per la recitazione. Ah parla di vergini suicida, come potevate immaginare.

Picnic a Hanging Rock (1975) di Peter Weir:

Questa chicca ambientata nel 1900 vi lascerà di stucco per la misteriosità della sua trama. Allo stesso tempo però vi intrigherà così tanto che probabilmente cercherete la spiegazione su internet. Cercare di capire perché delle giovani donne sono scomparse in maniera del tutto imprevedibile vi terrà attaccati allo schermo e alla fine finirete per apprezzare l’estetica anni 70 di questo piccolo capolavoro.

LOLITA, Jeremy Irons, Dominique Swain, 1997

Lolita (1997) di Adrian Lyne:

Un classico estivo, a mio modesto parere. Se siete appassionati di lettura consiglio il romanzo, un grande capolavoro di letteratura 900esca. Il film del 97 ha toni più soavi di quello di Kubrick, di cui non sono ad oggi una grande fan. La storia è la stessa, ma a mio avviso Dominique Swain ha fatto un lavoro sublime e il vibe merita.

Laguna Blu (1979) di Randal Kleiser:

Anche questa perla (caraibica) viene da un rinomato romanzo. La storia d’amore dei due protagonisti ha visto i limiti della pedofilia secondo alcuni, secondo altri è solo una rappresentazione naturale della vita di due giovani dispersi su un’isola remota. E poi parliamoci chiaro: Brooke Shields con i capelli al vento, lunghi fino alla vita, è decisamente un’icona degli anni ottanta e comunque la visione di un mare caraibico è sempre preferibile alla siccità.

Rose Red (2002) su idea di Stephen King:

Per gli amanti dell’horror, come me, una piccola chicca poco conosciuta in patria. Una miniserie piuttosto vintage, ma che vi rapirà senza ombra di dubbio. Ambientata in una casa infestata, è il modo perfetto per trascorrere un weekend di paura e di forti emozioni. Anche di questa consiglio il libro “il diario di Ellen Rimbauer” che trae spunto dalla miniserie e racconta in modo più approfondito gli antefatti della storia.

Jennifer’s Body (2009) di Karyn Kusama:

Anche in questo caso si tratta di un horror (o quasi) che però merita per il disimpegno dei toni e la sua colonna sonora. Un film piacevole e non troppo impegnato, carino tutto sommato e che merita di essere visto. Megan Fox è stupenda nella parte della teenager mangiatrice di ragazzi.

Il canto dell’usignolo: il connubio perfetto tra arte, musica e danza

Anni fa andai a una mostra di matisse a Roma. Tra le sale e i bellissimi capolavori ricchi di colori sgargianti, mi imbattei in una visione che mi estasiò.

Non sapevo che uno dei più grandi artisti mai esistiti si fosse occupato di un balletto classico, il mio primo e grande amore.

L’opera prende il nome di “Le chant du Rossignol”, su musica composta da niente meno che Stravinskij stesso.

Ma facciamo un passo indietro.

L’opera fu composta tra il 1908 e il 1914 dal grande musicista che si fece convincere da Djagilev, un grande impresario teatrale di origini russe, a riadattarla in un balletto.

Il primo adattamento fu un flop, le parti ballate erano scarse e in generale il pubblico non apprezzò.

Successivamente si decise di movimentare l’opera.

nizialmente la scenografia fu attribuita a Fortunato Depero, ma le sue idee erano decisamente troppo stravaganti per la poetica dell’opera e venne accantonato.

Fu allora assunto Matisse come costumista ufficiale. Con la sua linea raffinata, dolce e gentile, realizzò dei costumi all’avanguardia, bellissimi e ciascuno dipinto a mano.

Il balletto andò in scena all’Opera di Parigi nel 1920 con la famosa compagnia dei Balletti Russi. La coreografia, affidata a Leonide Massine, risulto anch’essa un flop, troppi passi in controtempo e decisamente innovativa, forse un po’ troppo per lo spirito dell’epoca.

Nel ’25 la coreografia fu riadattata all’arte di un grandissimo ballerino e coreografo: Balanchine.

Il ballerino sembrò risollevare l’opera dalla sua precedente caduta e mise in scena un balletto all’avanguardia, ricco nel suo stile e di grande impatto scenico (come solo lui sapeva fare).

Da qui si susseguirono diversi esperimenti circa la coreografia che si protrassero per tutto il 900.

Ad oggi anche se i costumi realizzati da Matisse sono pezzi da museo, confinati dietro un vetro protettivo per la loro delicata essenza, il balletto conosce ancora i suoi momenti di gloria, riadattato per ovvie ragioni, viene messo in scena dalle più svariate compagnie, rimanendo tuttavia una piccola perla rara nel mondo della danza.

Zsuzsi e William: una storia d’amore tragica

Dietro al mondo dorato e fastoso della monarchia inglese si nascondono delle regole ferree, talvolta insostenibili, che scandiscono la vita iper programmata dei reali. Molto prima di Harry e Meghan e delle innovazioni che hanno portato nel regno inglese c’erano Zsuzsi e William.

William di Gloucester era il cugino della Regina, quarto in linea per il trono inglese.

Spirito libero e volenteroso di avere una vita normale, nel 1968, all’età di 26 anni, si trasferisce in Giappone, per lavorare nella diplomazia. Qui incontra lo sguardo di una donna un po’ più grande di lui, Zsuzsi Starkoff, di origine Ungherese.

William è bello, intelligente e terribilmente sexy e attira facilmente lo sguardo delle donne che gli garantiscono la fama di playboy.

Zsuzsi però è diversa. Non solo è più grande, che già di per sé potrebbe rappresentare un problema per la corona inglese, ma è anche divorziata, madre di due figli e lavora come hostess e modella nell’ambiente chic di Tokyo per mantenersi.

La relazione prende il volo in pochi mesi e i due si scoprono profondamente innamorati e uniti.

Nel 1969 la Principessa Margaret arriva in città per questioni reali ( in realtà ci sono voci che dicono che fosse in loco per controllare la relazione) e qui incontra la bella Zsuzsi. La modella supera la prova ed entra nelle grazie di Margaret che comunque dice a William di aspettare e vedere come procede il rapporto prima di prendere scelte affrettate.

Sempre in quell’anno i due decidono però di sposarsi, nonostante tutto.

A detta di William non pensava di provare un amore così intenso per una donna.

Purtroppo però le cose non vanno come previsto. Il padre di William infatti soffre di un ictus e Will è costretto a tornare in patria, dove incontra ostilità per via della sua scelta amorosa. I familiari lo incoraggiano a lasciar perdere in quanto la relazione non potrebbe mai consolidarsi in un matrimonio approvato dalla regina. Le regole sono chiare e non ci si può opporre.

I due si separano per diverso tempo, ma Zsuzsi rimane convinta dell’amore di William.

I due cercano di mantenere qualche contatto sporadico, ma l’allontanamento pesa sulla relazione che arriva a concludersi nonostante i due si amino ancora.

Quello che non si aspettano però è la piega che la vita prenderà di lì a breve.

Nel 1972, all’età di 30 anni, William incontra la tragedia.

Pilota appassionato, il 28 Agosto di quell’anno, decide di partecipare ad una gara vicino a Wolverhampton.

L’aereo su cui viaggia si schianta poco dopo il decollo, non lasciando al pilota e al copilota nessuno scampo.

In un documentario rilasciato nel 2015 la Starkoff dichiarò che in quell’occasione William la invitò a partecipare con lui alla gara, ma per varie ragioni lei non accettò evitando inconsapevolmente il destino nefasto riservato al suo amato.

Fino alla morte, avvenuta nel 2020, Zsuzsi ha indossato l’anello che William le aveva regalato, la copia identica di quello che lui indossava al momento della sua morte.