Questa frase risuona attorno alla personalità di Walter. Fu il famoso Nikola Tesla, scienziato e inventore a dichiararla dopo averlo conosciuto nel 1921. “Il mondo non è pronto alle tue intuizioni”, gli disse Tesla dopo avere ammirato i suoi lavori. Ed in parte fu così.
Walter Russell nacque nel 1871 a Boston, Massachusetts. Crebbe senza avere una particolare istruzione se non la scuola primaria fino ai 9 anni, che abbandonò per dare una mano in casa.
Si trasferì a Parigi dove ebbe modo di frequentare una scuola d’arte e nel 1894 tornò a New York componendo, nel 1900, il famoso dipinto “The might of ages”.
Fu innanzitutto un artista molto prolifico, un filosofo, uno scultore acclamato, un musicista e un autore, ma sono soprattutto le sue scoperte inerenti la natura che mi hanno affascinata.
La sua prima illuminazione avvenne all’età di 7 anni quando ebbe una esperienza fuori dal corpo.
A 14 anni fu dichiarato morto di difterite, ma per un qualche strano miracolo, riuscì a ritornare, come disse lui :”Mi hanno chiesto di tornare”.
Queste esperienze insolite plasmarono moltissimo la vita e le credenze di Walter e lo spinsero ad indagare maggiormente gli aspetti metafisici dell’esistenza umana.
I suoi interessi sono vari e spazia da discipline più umanitarie e artistiche a ricerche scientifiche.
Nel 1926 pubblica la sua tavola periodica a spirale che prediceva nuovi elementi, nuovi elementi radioattivi e situazioni chimiche e fisiche al di sotto dello standard atomico dell’idrogeno.
Nel 1929 per 39 giorni ebbe un’esperienza illuminante che ricorda come “illuminazione nella luce della coscienza cosmica”, in cui dichiarò di aver compreso i perché più reconditi dell’esistenza umana. Una sorta di Illuminazione Buddhista.
La sua abilità artistica gli permise di realizzare disegni e diagrammi che potevano rappresentare le sue visioni, molti dei quali estremamente difficili da interpretare e comprendere.
Fu autore di dozzine di libri, come “the Universal One” del 1926 e “The Book of early whisperings” del 1949.
La sua filosofia si basava sulla luce e può essere racchiusa da questa affermazione:
“All matter is a manifestation of light, everything is related”
Essenzialmente credeva che l’universo fosse dato da onde elettromagnetiche in movimento e che colui in grado di comprendere questa realtà fosse chiamato alla trascendenza stessa. La forza motrice e creatrice di tutto era vista e interpretata nel sesso, come unione di forze opposte entrambe creatrici.
Si spense il giorno del suo compleanno del 1963, lasciando numerosi disegni e scritti di natura metafisica e scientifica.
Non fu preso particolarmente sul serio come studioso di scienze, ma di sicuro alcune delle intuizioni che ebbe furono portate avanti nel corso dei decenni, fino ad arrivare a noi.
Il mio interesse per Sharon Tate è nato da una semplice fotografia: l’attrice indossa un abito azzurro con colletto bianco e sta seduta a un cafè parigino degustando una bevanda calda.
Non sapevo molto di questa giovane bellezza ed essendone rimasta particolarmente colpita, ho cominciato a cercare informazioni su di lei, incappando nella vicenda Manson.
Incredibilmente la sua morte rappresenta il fulcro della sua popolarità, eppure si tende a dimenticare chi fosse quando era in vita.
Sharon nasce nel 1943 da Doris Gwendolyn e PJ Tate, è la loro prima figlia, è sana e bella.
Cresce in un ambiente felice e sereno e sogna di diventare una ballerina o una psichiatra, ma coltiva anche l’ambizione di diventare una star del cinema.
La sua straordinaria bellezza la fa notare da numerose persone, tant’è che nel 1959 partecipa ad un concorso di bellezza che la vede vincitrice.
Nel 1960, a causa del lavoro di militare del padre, la famiglia Tate si trasferisce a Verona, dove soggiornerà per diversi anni. Qui Sharon vive spensierata e felice.
Nel 1962 la giovane si trasferisce a Los Angeles dove decide di tentare la carriera d’attrice, incoraggiata dalla sua bellezza e dall’esperienza positiva del set, che l’aveva vista come comparsa nel film “Le avventure di un giovane” con protagonista Paul Newman.
Nel 1963 partecipa alla serie “The Beverly Hillbillies” in cui fiancheggerà Max Baer.
Nel 1964 incomincia una relazione amorosa con il parrucchiere delle star Jay Sebring, che incontrerà la morte insieme alla ex ragazza per mano della Family di Manson nella tragica notte del 9 Agosto 1969.
Verso la metà degli anni sessanta si reca a Londra per un ruolo in “Eye of the Devil”. Qui ha modo di frequentare l’ambiente culturale della Swinging London, fatto di moda e stravaganza, discoteche e acido (di cui tuttavia non fa mai uso, se non saltuariamente).
In questo periodo incontra l’amore della sua vita, Roman Polanski, con cui recita nel film “Per favore non mordermi sul collo!” del 1967.
Nello stesso anno interpreta Malibu in “Don’t make waves”. Nel film posa in diverse scene in bikini, dove emerge tutta la sua bellezza e tonicità.
Al tempo si prediligeva un aspetto androgino, più vicino alle figure di Twiggy o di Mia Farrow, piuttosto che un fisico tonico e sodo come quello di Sharon. Tuttavia, a dispetto di questo, la Tate emerge come icona sensuale introducendo per la prima volta un tipo di corpo molto più sportivo e curvilineo, che lascia spazio a forme più “rotonde” e dolci.
Il suo ruolo più celebre rimane tuttavia quello di Jennifer North in “Valley of the dolls”, film ispirato al romanzo omonimo del 1967.
Debra Tate, sorella di Sharon, ricorda come il make-up del film fosse estremamente innovativo per il periodo, ispirato alle tecniche usate negli anni ’30 da Greta Garbo.
In questo contesto cinematografico lo sguardo della Tate viene accentuato usando la famosa “banana”, la linea scura, per intenderci, sopra la palpebra, che rimane tutt’ora l’icona indiscussa dello stile degli anni sessanta.
Il film uscì a Dicembre di quell’anno e ottenne recensioni miste, ma fu un successo al botteghino.
Nel Febbraio successivo Sharon viene nominata per il suo primo, e sfortunatamente ultimo, Golden Globe.
“La valle delle bambole” viene considerato ancora oggi un classico del periodo e l’interpretazione della Tate la migliore della sua carriera.
Il 20 Gennaio 1968 è un anno importante per la vita privata di Sharon che convola a nozze con Roman a Chelsea, con un rito non convenzionale e con una festa nuziale svolta al club di Playboy.
Famosissimo l’abito che indossò per l’occasione: moirè di seta avorio mini, proprio come voleva la moda degli anni sessanta. L’acconciatura prevedeva una grossa chioma con fiocchi rosa e bianchi tra i capelli.
Nel 2018 l’abito è stato battuto all’asta di Julien’s Auction per 56,250 dollari.
Sfortunatamente questa bellezza texana non arrivò oltre l’anno 1969. Il 9 Agosto, infatti, incinta di otto mesi del suo primo figlio (con Roman), venne accoltellata da alcuni membri della family di Manson per ragioni ancora non del tutto chiare.
Bisogna pensare che quello era un periodo storico relativamente spensierato. La rivoluzione Hippie degli anni sessanta aveva portato masse di giovani nell’ovest americano, alla ricerca di svago e di una nuova forma di vita, meno rigida e impositiva di quella del decennio precedente.
Non era inconsueto trovare per strada ragazzi che rovistavano nella spazzatura e gente a piedi nudi. La stessa Debra Tate ricorda come lei e la sorella spesso andassero nel centro di Los Angeles scalze e come la cosa fosse del tutto normale per il tempo.
Questa libertà e serenità era sentita da tutti, al punto tale che le persone non chiudevano le porte di casa poiché non si vedeva nell’altro il “nemico”. Girava moltissima droga, acidi per lo più, e prevalevano i party sulle colline Hollywoodiane.
La stessa Didion ricorda quegli anni come un periodo in cui non era inconsueto trovarsi un estraneo in casa. Dichiarerà nel suo “The White Album”, riferimento all’album dei Beatles da cui prenderà spunto Charles Manson per il suo Helter Skelter, che gli anni sessanta finirono proprio con la morte della Tate.
E ripensandoci fu così.
L’uccisione di una ventiseienne, incinta, nella propria casa, fu un segno chiaro del cambiare dei tempi, della nuova mentalità che si stava affacciando nelle vite delle persone. La spensieratezza e la leggerezza di quegli anni si persero inevitabilmente nei fatti drammatici di quella notte.
Tuttavia, nonostante la tragedia che la vide protagonista, la Tate rimane un’icona di stile e di bellezza, di carisma e talento. Ancora oggi ricordata positivamente da coloro che l’hanno conosciuta, porta avanti il suo status di sex symbol e di ispirazione per le nuove tendenze.
Ogni città ha le sue particolarità, alcune, più di altre, riescono a custodire dei piccoli gioielli di storia.
Tra le colline Hollywoodiane che si stagliano verso il blu intenso, si trovano delle rovine piuttosto singolari.
La spider Pool, una volta sfondo di una bellissima dimora appartenuta a Jack McDermott, è ora una parete abbandonata, rotta, tra piccoli arbusti che crescono incontaminati.
Tuttavia il suo fascino permane.
Jack comprò un esteso appezzamento di terreno situato sulle colline Hollywoodiane nel lontano 1921. Era situato così in alto e così lontano dal resto delle abitazioni che rimase senza strada sino al 1962, isolato e incontaminato nel verde naturale che lo abbracciava.
La casa venne costruita sino dai primi anni venti e divenne ben presto teatro di feste spettacolari e dei gusti decisamente insoliti del suo proprietario. Famosa già alla fine della sua costruzione, ottenne un breve cameo nel film “Hollywood the unusual” del 1927.
La casa, denominata “crazy house”, vantava l’arredamento delle scene cinematografiche che Jack aveva la possibilità di visitare grazie al suo lavoro nell’industria
Incorporati al suo interno c’erano cimeli provenienti da diverse produzioni come “The Mark of Zorro”, “Robin Hood” e molti altri, caratterizzando uno stile eccentrico e seducente, rimando ai tempi antichi e all’elemento orientale.
Tra gli elementi distintivi della villa c’erano tunnel sotterranei, caminetti situati sotto i letti, arte orientale e persino un falso cimitero. E per qualche strano motivo non vi erano sedie.
Ma l’aspetto più affascinanti era sicuramente la piscina, denominata “Spider Pool”, costruita nel 1933, che si vide protagonista di un articolo del 1949:
“A labyrinth of dark subterranean passageways which honeycomb the ground under the hillside, the sliding doors and panels lend an eerie touch to the fantastic abode, which contrasts startlingly with the sun bathed swimming pool inlaid with thousands of hand-painted French and Italian tiles in a spider design. It was inevitable that such a storied castle should become the scene of gay film colony parties, and in the years gone by it rang with merriment by night.”
La casa era luogo di feste sfarzose, quasi surreali, alimentate da musica, alcol e spettacoli per intrattenere gli ospiti, prevalentemente le élite Hollywoodiane e i grandi ricchi del tempo.
Per immaginarci il tipo di vita che si svolgeva all’apice della collina, dobbiamo far riaffiorare alla mente il personaggio stravagante di Gatsby con un briciolo, o forse un bel po’, di amore per le pin-up.
Quando gli ospiti erano troppo ubriachi si dice che Jack, con fare scherzoso, li conducesse nella “upside down room”, una stanza costruita appositamente per creare confusione, molto simile a quella che si trova nel film “Rose red” di Stephen King.
I party finirono quando Jack, 53enne, prese una dose massiccia di pillole per dormire. La proprietà venne quindi lasciata al nipote, ma non sopravvisse la prova del tempo senza il suo naturale possessore. Quasi sei mesi dopo la sua morte, il 31 Gennaio 1947, un incendio di origine sconosciuta rovinò la villa danneggiando parte della struttura originaria. Tra il 1947 e il 1949 la casa venne venduta a un altro eccentrico personaggio: Carl Brainard.
Dopo anni di negligenza dovuti anche alla responsabilità di Brainard, fu acquistata da Darrell e Frances Gregory. L’idillio durò poco, la casa venne infatti dichiarata pericolosa e rasa al suolo nel 1962. Di questa rimase solamente la piscina, di cui nessuno si interessò per molto tempo, lasciandola in stato di abbandono.
Fu solo negli anni 2000, grazie a internet, che riemersero diverse fotografie di giovani donne che posavano seminude di fronte alla muraglia intarsiata di mattonelle blu. Tra queste vi erano importanti figure del mondo del pin-up, come Tura Satana, Betty Blue e Jaqueline Prescott.
Le foto, risalenti agli anni 50, mostrano però la bellezza della costruzione originaria. Un Murales gigante con una grossa vedova nera sovrastava la piscina orientaleggiante.
Nel 2004 fu ritrovato il sito e il murales ancora intatto, e fu così che si scoprirono dettagli della casa e delle sue avventure, fino a identificare le opere di vari fotografi come Harold Lloyd e John Willie.
Nel corso degli ultimi anni la bellissima struttura acquatica è andata in rovina, generalmente grazie allo stato di negligenza in cui verteva da ormai troppo tempo. La proprietà iniziale è stata acquistata e si è proceduti con lo smantellamento delle strutture rimaste, lasciando solamente piccoli frammenti di ceramica colorata ai piedi di una collina.
Era Norma Jeane prima di diventare Marilyn. Una ragazza in preda a famiglie d’affido e una vita molto difficile. Fu solo nel 1947, all’età di ventun anni che riesci a sbarcare con il suo primo ruolo Hollywoodiano. Inizialmente reputata inadatta a ruoli drammatici, con uno scarso futuro d’attrice, nel 1953 ebbe l’anno della sua consacrazione a stella del cinema. Fu una strenua lavoratrice, sempre pronta a mettersi in gioco e migliorarsi.
Fino alla fine della sua vita, avvenuta per un’overdose di barbiturici all’età di 36 anni, fu considerata dall’industria maschilista e patriarcale del tempo solamente una bomba sexy, un’attricetta di commedie che riusciva a canticchiare e ballare, ma non ancora un’artista a 360 gradi, con capacità ben oltre i ruoli che le venivano affidati.
La sua vita amorosa fu turbolenta e spesso instabile. Ebbe diversi mariti, alcuni dei quali si rivelarono violenti, come Joe di Maggio, altri che la sminuivano come persona come Arthur Miller, che scrisse nel suo diario quanto fosse deluso dalle abilità dell’attrice.
Il suo sogno nel cassetto rimase sempre la maternità, cercata, sperata e pregata, che non arrivò mai a compimento (sembra che avesse avuto alcuni aborti). Reduce di una situazione materna difficile alle spalle, con questioni di natura psichiatrica e un abbandono piuttosto traumatico, Marilyn cercava conforto nell’idea di un figlio che potesse ridarle la gioia e l’amore che non aveva mai potuto provare.
Fu senza dubbio un’icona di stile e grazia. Estremamente colta, intelligente e perspicace si dava alla lettura ogni volta che poteva, a dispetto di coloro che la definivano una bionda stupida.
Attenta allo stile, inizialmente abbracciò la rigidità imposta dalla moda degli anni ’50, usando vestiti volti a valorizzare le sue curve e farci cadere l’occhio.
Celebre è la vicenda del vestito color Nude, costellato da brillanti che indossò per cantare “Happy Birthday Mr President” a John Kennedy, suo amante e allora presidente degli Stati Uniti. Fu battuto all’asta per 5,5 milioni di dollari.
Verso la fine degli anni ’50, con il suo esordio cinematografico più “serio”, la Monroe optò per uno stile meno costruito sul modello pin-up per indossare abiti piuttosto semplici.
Pantaloni capri e dolcevita, piedi nudi e un buon libro rappresentano appieno lo stile di questa donna ormai al culmine della sua carriera.
Il trucco sempre presente e l’acconciatura apposto l’hanno resa un classico che per generazioni continua ad affascinare. La vicenda drammatica l’hanno elevata a sogno proibito, anima estremamente gentile e sensibile che è andata incontro alla morte prematuramente.
è facile immaginarsi quell’estate. Con un po’ di fantasia si riesce perfino a sentire le risate e le chiacchiere delle persone. Fa caldo sulla costa francese. All’hotel Vaste Horizon, una modesta pensioncina, alloggiano alcuni amici che fanno baccano e si danno principalmente al bere e alle risate. Da fuori potrebbe sembrare un quadretto qualunque, in realtà il gruppo è formato da alcuni degli artisti più illustri del ‘900.
Nelle fotografie in bianco e nero possiamo scorgere Pablo Picasso accompagnato da Dora Marr, Rolan Penrose con la bellissima compagna Lee Miller, Man Ray, Paul Eluard e sua moglie Nusch.
In questo contesto festoso e surrealista sboccia l’amore tra lo stesso Pablo e Dora, ex amante di Bataille, con cui ebbe per anni una relazione malata e tossica, fatta di tradimenti continui, fughe d’amore e sadomasochismo.
Dora, sedotta e abbandonata, conobbe Pablo in un cafè parigino. La giovane, al tempo 28enne, stava cercando di colpire gli spazi tra le dita ben aperte sul tavolo con un coltello. Era incurante e impassibile di fronte a ogni ferita che poteva provocarle la lama. Picasso, affascinato da questo insolito gioco, si avvicinò e le chiese in dono i suoi guanti, che poi appese in casa sua come un preziosissimo cimelio d’arte. Da lì in avanti i due rimasero in contatto e proprio sulle Costa Azzurra diventarono amanti. Lei era molto bella, e a dire di Picasso, anche insolitamente alta per una giovane donna. La relazione durò dieci anni, un lungo periodo in cui lo stesso Pablo ebbe moltissime altre amanti, giovani e vecchie, ma rimase fedele sotto certi aspetti a quella che considerava essere la sua musa.
Lei lo fotografò numerose volte, arte che affinò dalla frequentazione dello studio di Man Ray, mentre lui la dipinse in diverse opere. Picasso però non era un uomo semplice. Con alle spalle un divorzio spinoso e due figli, avuti da due donne differenti, una schiera troppo numerosa di amanti, si sentiva un dio nella sua arte. L’unico dio. Nessuno poteva eguagliarlo.
Lei, artista della fotografia, non voleva in nessun modo competere con il suo talento, ma Picasso la costrinse ad abbandonare la sua arte per dedicarsi alla pittura, sicuro di umiliarla per bravura e stile. Inutile dire che questa relazione finì tragicamente, con Dora sull’orlo di un esaurimento nervoso per via delle cattiverie narcisiste e imposizioni di Pablo.
Lee, che da poco aveva intrapreso una relazione con il curatore d’arte Rolan, aveva posato per Man Ray in numerose occasioni e ne era stata per anni l’amante. La sua bellezza le aveva garantito un lavoro da modella per Vogue nel 1929, carriera che era finita a causa di una scandalosissima pubblicità per assorbenti a cui aveva prestato il volto. La cosa non sembrava dispiacerle troppo, dal momento che era più interessata a stare dietro l’obiettivo piuttosto che esserne ritratta. Da qui avviò una carriera come reporter che durante la II guerra mondiale la vide impegnata a documentarne le atrocità.
Sempre fedele al surrealismo all’interno dei suoi scatti, imparò la tecnica da Man Ray, spesso sollevandolo da lavori di natura più femminile. Fu così brava nell’imparare dal maestro che le tecniche utilizzate rendono difficile ancora oggi identificare l’autore di uno scatto.
Man Ray, del canto suo, era giunto in Costa Azzurra con il suo nuovo interesse, una ballerina di nome Adrienne Fidelin.
I rapporti tra lui e Lee erano buoni e amicali e se la cosa ci pare strana basti ricordare che nel contesto surrealista del tempo le amanti venivano scambiate volentieri tra amici e i rapporti amorosi piuttosto che intimi erano materiale energetico per le arti.
Affascinato dalla luce celeste della costa e dalla situazione che si era creata tra i partecipanti della vacanza, scattò numerose foto, ispirandosi principalmente alle figure femminili che rappresentavano delle muse moderne, delle ninfe capaci di rapire le attenzioni di ogni uomo con i loro seni nudi e abbronzati e i capelli al vento.
In questo contesto festoso e decadente sono sicuramente nati dei capolavori. Per esempio Picasso cominciò a formulare la sua opera più celebre: Il Guernica. Man Ray e i Penrose invece realizzarono dei reportage fotografici di un’intensa bellezza che ancora oggi ci rendono possibile immergerci in questa realtà magica ed eterea, fatta di sale, mare, sole, arte, alcol e sesso.
Un connubio così azzeccato non sarà più possibile per i nostri artisti e generalmente la spensieratezza con cui vissero questa estate potrà riemergere solo a cavallo degli anni ’60. Alle porte di una tragedia mondiale, poco prima del terrore e della disperazione, quell’estate rappresentò il fulcro e l’apice della vita stessa. Un sogno lontano, che noi moderni non possiamo rivivere se non attraverso l’immaginazione.