Situata su un antico albero, si staglia una bellissima Casa Vittoriana che per 30 anni ha popolato l’immaginario della città di Brooksville.
Questa meraviglia architettonica è stata costruita da James Talmage “Tokey” Walker, un veterano della seconda guerra mondiale e allevatore di bestiame.
La sua storia ha origini umili, ma come molti casi diventa motivo di grandezza. James inizialmente si occupa di vendere giornali per permettersi gli studi all’università dell’Alabama, dove intende laurearsi in legge.
Viene assunto nel più grande supermercato della zona, dove ben presto il suo duro lavoro viene riconosciuto, procurandogli una promozione a manager.
Purtroppo, la crisi bancaria della Grande Depressione coinvolge anche Walker, che vede andare in fumo i suoi sogni: tutti i suoi risparmi sono andati persi e la sua vita cambia completamente, prendendo una direzione inaspettata.
Ispirato da un cugino paterno decide di imparare a volare. Con l’aiuto economico di un amico compra il primo velivolo al costo di 600 dollari e come presidente dell’Acme Club, un gruppo simile al rotary, supervisiona la costruzione di un piccolo aeroporto nella zona di Huntsville.
Durante la Seconda Guerra Mondiale si occupa di insegnare volo presso l’University of Georgia Naval ROTC il cui programma è localizzato ad Atene. Al termine di questo periodo di lavoro, si trasferisce con la moglie Sarah a Marietta, Georgia, dove intraprende il lavoro di test pilot per il bombardiere B-29.
Nell’ottobre del 1945, la famiglia si trasferisce a Clearwater dove James dà vita alla Clearwater Flying Company, insieme a Robert J. Word, Roy A. Workman e il figlio Roy Jr.
L’obiettivo della società è quello di affittare e vendere aeroplani e fornire lezioni di volo.
Quando il governo taglia i fondi per le lezioni di volo ai veterani, i proprietari convertono la società nella Metal Industries, adibita alla produzione di schermi di alluminio.
Tokey fu un cittadino rispettato dalla comunità e dedito ad attività filantropiche che gli hanno valso numerosi premi e riconoscimenti come il Golden Flame Philantropy Award nel 2000.
Il suo nome può essere trovato sulla Wall of Honor del National Air and Space Museum a Washington D.C.
Ma facciamo un passo indietro…
Negli anni ’60 Tokey compra un terreno a Brooksville e comincia ad allevare bestiame. Solo negli anni ’80 comincia a costruire l’imponente Victorian House al 17346 Powell Road, Brooksville, Florida.
La dimora, pensata per servire ai nipoti, era provvista di camere da letto, cucina, bagno e tutte le comodità di una casa su terra ed era dipinta di un baby blue che ricorda molto le case delle bambole ottocentesche.
La casa, Abandoned in Florida.com
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Dopo la sua morte, la proprietà cade in stato di abbandono, anche se rimane formalmente di proprietà della J. T. Walker Industries.
Per oltre 30 anni rimase in piedi, silenziosa ed abbandonata, come una dimora costruita dalle fate nel mezzo della foresta. Nel corso dei decenni la casa subì diversi atti vandalici, fino a diventare un luogo adibito alle colture di Marijuana.
Ad ottobre 2015 la casa, ormai irrecuperabile, viene rasa al suolo, probabilmente dai costruttori.
Photo taken in May 1991 at the Brooksville Treehouse. Photo Courtesy of Deborah Crevier
Di lei rimane solo il ricordo sbiadito presente in qualche fotografia del tempo.
Margaret Ithell Colquhoun (Shillong 9.10.1906- Cornovaglia 11.4.1988) nasce da funzionari britannici in Bengala, nell’India Britannica.
In tenera età si trasferisce con i genitori in Inghilterra dove entra nel Chentenham Ladies College e successivamente, nel 1927, alla Slade School of Art di Londra.
Si appassiona di occultismo a 17 anni grazie alla lettura di “Abbey of Thelema” di Aleister Crowley e da questo momento alimenta una ricerca interiore fatta di pratiche esoteriche volte alla conoscenza e alla celebrazione del Femminile Sacro.
Nel 1929 vince lo Slade’s Summer Composition Prize per il suo “Judith Showing the Head of Holofernes” che viene successivamente esposto alla Royal Academy di Londra, un passaggio fondamentale per la sua carriera artistica. In questo periodo Ithell produce molte opere di stampo biblico, con eroine femminili forti e potenti che alcuni credono essere una celebrazione di Artemisia Gentileschi.
Attratta da tutti i tipi di arte, comincia a scrivere, un’abilità che porta avanti parallelamente alla pittura e al disegno, e pubblica il suo primo articolo, “The Prose of Alchemy”, per la Quest Society, nel 1931 .
“Judith Showing the Head of Holofernes”, Ithell Colquhoun, oil on canvas, 1929.
Una tappa essenziale della sua evoluzione pittorica è il suo peregrinaggio in Europa, dove tocca le sponde di Grecia, Corsica, Tenerife e Francia. In questi territori marittimi e opposti all’uggiosa Inghilterra si esercita nella rappresentazione ad acquarello, documentando fedelmente i suoi viaggi e la realtà attorno a sè. La componente umana è totalmente assente nelle sue opere, ma percettibile. I disegni e gli acquarelli, 91 in totale, sono finestre aperte sugli istanti della vita, sulle tracce dell’uomo e dei suoi gesti passati: un letto disfatto, vestiti dismessi, cancelli ed interni popolano il panorama delle sue tele. Ed è proprio con questa produzione che Ithell sfonda con la sua prima mostra alla Cheltenham Art Gallery nel 1936.
“Bed II-Greece”, Ithell Colquhoun, Watercolor and pencil, 1933.
“Gateway”, Ithell Colquhoun, Watercolour and crayon on two sheets of joined paper, 1937.
Ma è a Parigi che la sua strada prende una svolta importante: introdotta al mondo surrealista dei circoli artistici parigini, Ithell si appassiona di questo filone artistico tanto da farlo proprio per tutta la sua vita. Incontra André Breton e Dalì che diventa l’artista che più di tutti riesce a scuoterla e ispirarla.
Nel ’36 partecipa alla International Surrealist Exhibition e qui assiste alla celebre lezione di Dalì in cui, presentatosi vestito con una tuta da immersione, rischia di soffocare. L’esposizione la motiva ulteriormente e comincia a far maturare dentro di lei la consapevolezza che la porta a rielaborare la sua arte da realismo a surrealismo.
I soggetti che dipinge sono piante e fiori, simbolo di fertilità, creatività e sessualità, dove applica strenuamente e con precisione le tecniche apprese.
Innamorata dell’idea surrealista, si unisce al British Surrealist Group nel ’39 e, sempre nello stesso anno, espone con Roland Penrose 14 dipinti a olio e due oggetti alla Mayor Gallery.
Il gruppo surrealista, però, impone l’esclusività e l’artista non può partecipare a nessun altro gruppo, indipendentemente dalla sua natura. Questo limita Ithell che si considera libera e a causa della sua partecipazione ad altri gruppi di stampo occultista, viene espulsa solo un anno dopo.
“Birds of Paradise Flowers”, Ithell Colquhoun, oil on board, c.1936.
“Flowers in a Greenhouse”, Ithell Colquhoun, oil on cavas, 1934.
Ithell non demorde e continua per la sua strada praticando l’arte surrealista a suo modo, sia con le tecniche apprese dai maestri, sia con altre inventate da lei.
Colquhoun infatti utilizza diversi metodi: la decalcomania nell’opera “Gorgone” del 1946; il superautomatismo nell’opera “Curving Forms in skein shapes” del 1948; la stillomanzia nell’opera “Horus” del 1957; il parsemage nell’opera “Sea Mother” del 1950; la grafomania entottica nell’opera “Torn Veil” del 1947 e molte altre.
“Gorgone”, Ithell Colquhoun, oil on board, 1946
“Curving forms in skein shapes”, Ithell Colquhoun, ink, c.1948.“Horus”, Ithell Colquhoun, ink and wash, c.1957.
“Torn Veil”, Ithell Colquhoun, ink drawing, 1947.
Nel 1943 sposa Toni del Renzo, artista e critico d’arte, che inizialmente aveva recensito una sua mostra. Il matrimonio dura solo quattro anni e si conclude con un aspro divorzio.
Parallelamente all’attività pittorica si dedica alla poesia e alla prosa, che ritiene forme di espressione altrettanto surrealiste.
Durante gli anni ’50 abbandona la pittura. Di questo periodo si contano anni senza una singola produzione.
Nel 1955 pubblica “The Crying of the Wind”, un diario di viaggio; nel 1973 il “Grimore of the entangled Thicket” una raccolta di poesie e disegni ispirato a favole Gallesi pre cristiane, nel 1983 “Osmazone”, un’antologia di prosa e poesia.
Nel 1957 si trasferisce a Paul, in Cornovaglia, dove trascorre i restanti anni della sua vita.
Negli ultimi anni ritorna alle rappresentazioni naturali che continuano a ricalcare il suo mondo interiore. Le tecniche sono le stesse imparate negli anni della gioventù, in particolare la decalcomania, mentre la componente sessuale che contraddistingueva i suoi primi lavori, qui risulta diminuita o totalmente assente. Le composizioni sono semplici ed immediate, come in “A Rose is a Rose is a Rose” del 1980. Anche la tecnica del collage diventa predominante nei suoi lavori. Ne sono un esempio “Cornish Landscape” del 1971 e “Bird of Passage” del 1963.
“A Rose is a Rose is a Rose”, Ithell Colquhoun, Acrylic on board, 1980.
“Birds of Passage”, Ithell Colquhoun, Collage, 1963.
Alla sua morte lascia i diritti delle sue opere all’associazione The Samaritans, il suo lavoro sull’occulto alla Tate e le restanti opere al National Trust.
Nel 2019 Tate compra la partecipazione delle opere del National Trust.
Ithell fu un’artista autodidatta, come disse lei:
“I am teaching myself to carve and to write. Sometimes I copy nature, sometimes imagination: they are equally useful.”1
Le sue opere nascono nei temi classici del surrealismo: il subconscio, i sogni, la psicanalisi tanto cara agli esponenti di questo movimento, ma si incarnano profondamente in temi come il genere e la sessualità, il Divino Femminile, l’ordine del cosmo, la transizione e la trasformazione così come l’influenza orientale.
Troviamo però anche temi politici come in “Tepid Waters” per la guerra civile spagnola.
Ithell è rimasta per tutta la vita legata al surrealismo e alle sue tradizioni rappresentative. L’occultismo, una parte fondamentale della sua vita, si è articolato perfettamente nelle sue opere dove ha realizzato opere fortemente simboliche e ricche di significato.
È possibile vedere le sue opere nella mostra “Ithell Colquhoun: Between Worlds”, Tate, fino al 5 maggio 2025.
Colquhoun, I. “What do I need to paint a picture?” London Bulletin, No. 17, 15th June 1939. p13 ↩︎
Alessandra Izzo, By Francesco Escalar, Los Angeles
Correva l’anno 1982 quando allo Stadio San Paolo di Napoli, tra facce sudate e sguardi sognanti, si esibisce il più grande compositore moderno del ‘900: Frank Zappa.
Tra la folla urlante c’è una giovane donna, appassionata di musica e del baffo più famoso del mondo.
Alessandra Izzo nasce a Napoli e vive a Roma. Ho modo di incontrarla soltanto in videochiamata o al telefono, ma non ci impedisce di scoprire che abbiamo qualcosa in comune.
È una donna forte Alessandra, un’artista. Della sua poliedricità ha fatto un mestiere e della sua passione la sua vita.
Ci chiamiamo un venerdì mattina sotto una Milano uggiosa. La sento all’altro capo del telefono: un’esplosione di positività e gioia. Alessandra è così, un vulcano.
Mi racconta della sua vita e della sua passione per la musica, nata in seno alla famiglia. Già dall’infanzia si innamora di quest’arte. “Mia madre cantava” mi dice, “faceva concorsi.” Mi sembra naturale che il suo percorso abbia intrecciato legami e conoscenze con i grandi, anche se è stata la sua determinazione a portarla lontano.
Parliamo di Frank e della musica eclettica che ha creato, di come tutto è cominciato. Al tempo c’erano ancora i vinili con le loro sfolgoranti e magnifiche copertine. Si frequentavano i ragazzi più grandi che portavano i dischi, si ascoltava musica insieme. “Amavo gli Hippie” ricorda, e in quel periodo, gli anni ’70, rappresentavano l’estetica per eccellenza. Un amore nato prima su carta e poi riversatosi nella sua musica considerata da molti come un’innovazione, un’ode del grande guru.
Le chiedo quale sia il suo ricordo più bello con lui. Mi dice che è Viareggio, due anni dopo il loro primo incontro.
“Ha puntato il dito e ha detto “Eccoti, sei tu!”.”
Al tempo è poco più che maggiorenne, ma ricorda ancora l’intensità di quel momento, seguito da altri. Non parla di amore quando si riferisce a lui, ma di un’intensa connessione. A Frank piaceva molto l’Italia e amava le sue origini italiane. Insieme ridevano e avevano trovato dei punti in comune.
Alessandra con l’allora fidanzato, Il principe Dado Ruspoli, al party di Rocco Barocco, Capri 1989.
Alessandra non è una groupie, ma una donna libera piena di dignità.
Ciononostante mi ritrovo a chiederle di loro, del loro mondo e di come erano viste. Mi dice che è un termine ormai considerato dispregiativo e di come al tempo la parola era odiata. Le vere groupie erano quelle a cavallo degli anni ’60-’70, ben prima della sua entrata nel mondo della musica. Molte donne hanno cavalcato l’onda del termine per potersi fare pubblicità, soprattutto all’estero. Per Alessandra si tratta di qualcosa di diverso, più profondo: dell’amore per la musica e per una band e della sua naturale evoluzione per il cantante. Questo amore si percepisce da come ne parla, dal modo in cui si accende al ricordo del passato. “Siamo donne che amano la musica, non c’è età, religione o colore della pelle.”
Alessandra non è solo un’appassionata di musica. Giornalista, Corrispondente estera, Autrice teatrale, ha lavorato anche in Radio.
Ha fatto molto in un ambiente tosto, si è scontrata con il sessismo di quegli anni e con le sue limitazioni, ma ne è uscita vincitrice. Parla della luce nuova che risplende con il movimento del girl-power. Parla anche del suo libro, She Rocks!- giornaliste musicali raccontano (Volo Libero). “è dedicato in parte alle donne” e dà voce alle donne nel mondo della musica.
Alessandra, fotografie per la prima del libro su Frank Zappa
Le chiedo se pensa che il femminismo di oggi sia cambiato, si sia un po’ perso insieme alle libertà di un tempo.
Ripercorre il periodo che ha vissuto con la forza di una leonessa. “Eravamo le ragazze del topless” esordisce, “Sembra di essere tornati indietro di mille anni, una come me si sentiva libera nella mia generazione” sottolinea. Chiacchieriamo ancora di limitazioni, di perbenismo, di politically correct e delle sue implicazioni. “C’era una grande libertà” incalza “che è durata negli anni ’80. Le cose sono cambiate negli ultimi 15 anni, noi facevamo militanza. Io sono felice di aver fatto quelle battaglie che mi hanno dato la libertà. Importa che noi donne siamo libere di fare quello che vogliamo.”
Mi ritrovo appassionata dalle sue parole, smuovono in me un sentimento di appartenenza. È un dono, mi sento capita dal suo flusso di pensiero e dal suo modo di vedere il mondo.
Mi parla del cinema, che ama profondamente, e della scrittura. Mi parla delle donne che ha amato nella sua vita: Monica Vitti, Valeria Golino, Jane Fonda, Julia Roberts e molte altre.
Ha passato vent’anni a scrivere di cinema nell’ufficio stampa di due importanti aziende del settore. Per lei era divertente lavorare, l’appassionava. Ama incontrare le persone, intervistarle ed avere un rapporto con loro. Il suo calore umano si sente anche a kilometri di distanza.
Ha vissuto negli Stati Uniti, a Los Angeles, NY, Memphis, Nashville, Miami e mantiene un rapporto profondo con la California, la sua “chosen family”.
Stare al telefono con Alessandra porta una ventata di aria fresca. È spensierata, combattiva eppure estremamente radicata. Le sue storie sono coinvolgenti, ti rapiscono. La sua vita sembra un sogno ad occhi aperti, fatto di mille possibilità. Le chiedo se ci sono progetti futuri all’orizzonte, nell’ambito della scrittura o nell’ambito teatrale.
C’è un nuovo libro che ha in mente di scrivere su un personaggio che non è ancora riuscita a incontrare, ma specifica che ci tiene a vivere il rapporto con mano prima di parlarne.
Prima di lasciarci discutiamo ancora un po’ della vita, dei sogni, delle ambizioni e dei cambiamenti. Parliamo di forza e di motivazione.
“La devi trovare, vai oltre, respira, non staccare mai la tua curiosità.”
Alessandra, fotografia scattata per un magazine Americano, 1989.
Christina, Katha e Megan, tre gemelle identiche e bellissime.
La loro storia si intreccia con quella della rivista “LIFE” dove compaiono sin da bambine mettendo in mostra la loro grazia ed eleganza.
A partire dal 1956 intrattengono un rapporto professionale con la fotografa Nina Leen che decide di ritrarle nel corso degli anni.
Con le loro lunghe trecce cominciano a diventare presto popolari e spesso posano come modelle. La principale caratteristica che attirava il pubblico e la fotografa non era solo la loro evidente bellezza e gli occhi da cerbiatte, ma anche e principalmente il loro taglio di capelli.
Innovative, sensuali, eclettiche, hanno introdotto un nuovo modo di portare i capelli che è diventato sinonimo di moda e modernità.
Il taglio, operato da Vidal Sassoon, al tempo astro nascente del panorama della moda europea, prevedeva un taglio corto portato a coprire l’occhio.
Le tre gemelle avevano deciso di sacrificare la propria individualità in favore dello stretto rapporto che intercorreva tra loro, cercando di sembrare l’una l’esatta copia dell’altra.
Dopo il primo momento di popolarità, le gemelle caddero nel dimenticatoio e si sa pochissimo della loro vita (o della loro morte).
Rimane però interessante notare i magnifici scatti fatti nel corso degli anni da Leen e divenuti così emblematici e alternativi.
Triplets Christina Dees (L), Katha Dees (C) and Megan Dees modeling their braids before getting haircuts.Look-alike dresses being modeled by Dees triplets
Madeleine Vionnet nacque nel 1876 e già dall’età di 11 anni cominciò il lavoro di sarta che le avrebbe garantito un futuro brillante.
Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi divenendo Première solo due anni dopo. Nel frattempo si era sposata e aveva avuto una figlia. Infelice del risultato ottenuto e per niente adatta alla vita classica e convenzionale di madre di famiglia, partì per l’Inghilterra dove divorziò dal marito. La bimba morì in un incidente solo un mese dopo l’arrivo a Londra. Qui intraprese diversi lavori che la videro impegnata sempre nel mondo del cucito, finché tornò a Parigi con l’inizio del nuovo secolo.
Al tempo si stava sviluppando una nuova corrente di pensiero che proponeva una riforma dell’abbigliamento femminile in favore di un modello ispirato all’abito alla greca. Le donne cominciavano a stancarsi degli stretti corsetti e delle imposizioni pompose che fino ad allora avevano regnato in tutta Europa.
Nello stesso periodo inoltre, una giovane ballerina e artista di nome Isadora Duncan cominciava a danzare a piedi scalzi indossando una tunica che le permetteva movimenti ampi. La riforma stava cominciando ad espandersi e anche se non sappiamo con certezza quanto influì sullo stile di Vionnet, sappiamo che ne fu in qualche modo pilastro portante.
A Parigi lavorò per diverse case di moda e nel 1907 realizzò una collezione di abiti innovativi, ispirati alle performance della stessa Duncan.
Propose un nuovo modello di abito femminile privo del famoso busto, commentando:
“Io stessa non ero mai stata capace di sopportare corsetti, quindi perché mai avrei dovuto infliggerli alle altre donne?”
ed escogitando nuove tendenze che di lì a poco divennero chic e in voga.
Nel 1912 aprì il suo primo atelier dove potè di fatto coronare le sue idee e realizzare abiti innovativi e moderni e al tempo stesso comodi e pratici.
Finanziata da Germaine Lillaz, Madeleine fu protagonista assoluta di una storia di donne, per le donne, per la loro cultura, la loro creatività e la loro bellezza. L’emancipazione che realizzò grazie a Madame Lillaz, fu un punto cardine della sua filosofia di moda e di vita, anticipando quella che sarebbe diventata ben presto una rivoluzione sociale a tutti gli effetti.
Non abbiamo molte informazioni in merito ai modelli dei primi anni della maison, sappiamo solo che l’ispirazione del tempo era il kimono orientale che affascinava le giovani donne e sembrava pratico e confortevole non solo per passare le giornate in casa, ma anche per uscire all’aria aperta.
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale che la vide costretta a chiudere l’atelier e rifugiarsi a Roma, aprì una nuova società.
Da questa nuova avventura, cominciata dopo lunghi e tormentati anni di battaglia e morte, nacque una delle innovazioni più moderne e popolari del secolo: l’abito in sbieco.
Negli anni ’20, quando gli uomini erano impegnati sul fronte bellico, le donne avevano preso parte alla vita sociale e collettiva in maniera diversa. Per la prima volta avevano avuto la possibilità di lavorare, di aiutare e di diventare più emancipate che mai. Curare feriti, guidare automobili, fabbricare munizioni richiedeva un abbigliamento pratico e comodo, nulla a che vedere con quanto si indossava in passato. I corsetti vennero nascosti negli armadi, lontani dalla vista, le gonne si accorciarono abbandonando la loro lunghezza plateale in favore della praticità, i capelli si portavano ora corti per potersi dedicare ad altro, mettendo in secondo piano la seduzione e la bellezza.
Dove Chanel aveva proposto un modello maschile, Vionnet rimase fedele allo sguardo femminile che apprezzava tanto.
Ritornò all’abito mediterraneo, su ispirazione Greca, lavorando il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in modo che potesse seguirle e abbracciarle in maniera autonoma.
Il primo modello fu composto da quattro quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. Quattro cuciture tenevano insieme il tutto e una cintura annodata in vita rappresentava l’accessorio finale. Il risultato era una sorta di chitone greco con una caduta semplice e nuova che aderiva al corpo.
Madeleine Vionnet, abito da sera, 1918-19. A destra abito da sera, inverno 1920, Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La robe “quatre mouchoirs” è confezionata in crêpe di seta avorio
Il taglio in sbieco che cominciò da qui ad utilizzare prevede che la stoffa venga usata in obliquo invece che secondo il senso della tessitura (drittofilo).
Madeleine Vionnet, abito da sera, in “Vogue France”, ottobre 1935, foto Horst P. Horst
Anche se Vionnet negò sempre la maternità dell’invenzione che di fatto era già utilizzata nell’ottocento per realizzare colletti e cuffie, fu la prima stilista ad utilizzarlo per la realizzazione di abiti interi.
Altro elemento che utilizzò moltissimo fu quello geometrico, la chiave fondamentale della sua idea creativa.
Le figure geometriche che utilizzò nel taglio garantivano un effetto mai visto prima, portando gli abiti ad avere una complessità straordinaria (per certi versi quasi impossibile da comprendere) e una fantasia minimale che sfociava in leggi matematiche precise.
Madeleine Vionnet, abito da sera
Una delle particolarità della filosofia di Vionnet fu quella di utilizzare un manichino per la realizzazione dei vestiti e solo in seguito creare uno schizzo dell’abito. In questo modo e lavorando in maniera privata in una stanza separata, riusciva a creare abiti che si adattassero perfettamente al corpo, lasciandolo libero di muoversi e creando anche una sfarzosità minimal che viene ricercata anche al giorno d’oggi.
Madeleine Vionnet al lavoro sul suo manichino
Famosissime furono le realizzazioni delle sue rose, realizzate utilizzando precisione e ripetizione, in maniera meccanica, per renderle tutte uguali e il più possibile verosimili ai fiori.
Madeleine Vionnet, cappa da sera con rose, 1921 Parigi, Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, collezione UFAC. La fotografia si trova in uno degli album di copyright della Maison Vionnet
Negli anni ’30 il metodo Vionnet divenne famoso anche oltreoceano, dove venne valorizzato dalle dive Hollywoodiane che indossavano ora abiti a sirena realizzati proprio attraverso il taglio in sbieco. Questo modello classico serviva a far emergere tutta la potenza seduttrice del corpo della diva rendendo però facile la recitazione.
Sempre negli stessi anni introdusse anche la gonna ampia, un nuovo modello che piacque moltissimo a Hollywood che la incorporò insieme allo sbieco e alla forma a sirena. I tessuti che vennero utilizzati erano estremamente delicati e decorativi. Il crêpe Rosalba di Bianchini-Férier, il crêpe Romain o quello broccato aux tonneaux di Ducherne divennero il simbolo della maison.
Madeleine Vionnet, abito da sera, estate 1938 New York, The Metropolitan Museum of Art. Il modello, di Crêpe di seta avorio, è ricamato ad applicazione di frange in tinta che formano un disegno a festoni
La popolarità di Vionnet rimane tale anche per la sua personalità vivace e distante dalla mentalità del tempo. Un’innovatrice a tutti gli effetti fu anche portavoce dello stare bene con sé stesse e andò contro le imposizioni dietetiche che ancora oggi son presenti.
Come disse in una celebre frase:
“In fondo, non ho avuto che una cosa da soddisfare nella mia vita, la mia indipendenza”.
Madeleine morì all’età di 99 anni e rimane un faro per la moda internazionale e una grandissima voce innovativa per la società.
Ricordando i favolosi sixties e le avventure cinematografiche che hanno portato, ci viene in mente subito l’iconico Barbarella.
Film di fantascienza con protagonista una frizzante e bellissima Jane Fonda, si ispira al fumetto omonimo di Jean-Cloude Forest che mixa più o meno sapientemente avventura, erotismo e comicità.
La trama è piuttosto semplice.
Barbarella è una giovane eroina e viaggiatrice dello spazio che deve risolvere la misteriosa sparizione dello scienziato Durand Durand.
I famosi titoli di testa, poi censurati, venivano proiettati sulle parti scoperte della giovane protagonista che posava nuda in assenza di gravità. Questo era uno degli elementi erotici, soft-porn, che animavano la commedia.
In effetti la protagonista assecondava la sua performance di “Regina della Galassia” con ammiccamenti e doppi sensi esuberanti in un connubio che non tutti potevano trovare divertente.
Cover Image from the March 29,1968, Issue of LIFE: Jane Fonda in the title role of the movie, Barbarella. Ph by Carlo Bavagnoli
Il ruolo fu inizialmente offerto a Virna Lisi, per poi passare alla Bardot e alla Loren che rifiutarono proprio per gli elementi erotici alquanto spinti della trama.
Infine Jane Fonda accettò, su consiglio del marito che ne era anche il regista.
Il film incassò i favori del pubblico e della critica diventando un vero e proprio cult nel corso dei decenni.
Importantissimi furono anche i costumi, ispirati dall’arte di Paco Rabanne, che avevano cenni futuristici e rimangono tutt’ora elementi iconici della cultura pop, avendo consacrato definitivamente l’attrice a sex symbol dell’universo intero..
Jane Fonda as Barbarella in the “excessive machine”Jane Fonda and her husband, the director Roger Vadim, on the set of Barbarella, 1968.Jane Fonda in una fotografia promozionale per BarbarellaJane Fonda nell’iconico costume verde della “Queen of the Galaxy”Jane Fonda in uno scatto promozionale di Barbarella
«A tutti coloro che vengono in questo luogo felice: Benvenuti. Disneyland è la vostra terra. Qui l’età rivive i bei ricordi del passato, e qui i giovani possono assaporare le sfide e le promesse del futuro. Disneyland è dedicato agli ideali, ai sogni e ai fatti che hanno creato l’America, con la speranza che sarà una fonte di gioia e ispirazione per tutto il mondo.»
Recitò queste parole Walt Disney, il 17 Luglio del 1955 quando, di fronte a una folla di seimila invitati e oltre ventiduemila non invitati, apriva le porte del famoso parco che ancora oggi è protagonista delle fantasie di bambini e adulti di tutto il mondo.
Situato in un aranceto ad Anaheim, Los Angeles, la sua costruzione cominciò nel 1954 e si protrasse per l’intero anno successivo, con oltre duemila addetti ai lavori. L’idea di un parco a tema sorse al signor Disney tra gli anni ’30 e ’40, quando, memore delle sue avventure giovanili nei Trolley Park e negli Electric Park, tanto in voga all’epoca e fulcro dei divertimenti e delle serate danzanti della società americana tra l’800 e il 900, decise di costruire qualcosa che fosse sia un luogo di svago per i più piccini, sia un luogo di svago per gli adulti.
In quel lontano 1954 non si sapeva ancora che ben presto quel parco che sembrava un’idea troppo grande per essere realizzata sarebbe diventato negli anni il fulcro di una cultura che si estende fino al XXI secolo.
Il costo fu di 17 milioni di dollari, alcuni ricavati tramite ipoteche e altri in prestito da emittenti televisive, come l’ABC, in cambio di vari benefici.
Il giorno dell’inaugurazione, presieduto anche da Ronal Reagan, fece un boom di ascolti mai visto prima per l’apertura di un parco. Si stima che circa 70 milioni di persone si collegarono per assistere allo spettacolo, con inno nazionale, che doveva dare il via alla storia di Disneyland.
Quel medesimo giorno a causa della troppa affluenza non prevista, a causa del caldo, dello sciopero degli idraulici che dovevano fare manutenzione alle fontane, e a molti altri imprevisti, fu un giorno definito come nero. Poche persone si divertirono e generalmente le opinioni furono negative poiché erano finite le scorte di cibo e di bevande (la famosa pepsi che sponsorizzava).
Ma passato il primo ostacolo il parco trovò presto il suo ritmo aprendo, in meno di due mesi, varie attrazioni nuove e garantendo divertimento per tutta la famiglia. Così questa storia inaspettatamente ebbe e tutt’ora ha il suo lieto corso e da questo singolo parco ne aprirono molti altri in varie parti del mondo. Il giorno dell’inaugurazione di Disneyland rimane il compleanno più famoso che un parco a tema abbia mai visto, con dozzine di facce felici e meravigliate di fronte alla grandiosità di questa impresa.
Bambini che corrono per l’apertura di Disneyland,1955Bambini sulle tazze,1955Parata di Disneyland,1955Ballerine che si riposano gustando una pepsi, Disneyland,1955Bambina su una giostra, Disneyland,1955L’attore Ronald Reagan,17 Luglio 1955, DisneylandBambini in posa con Topolini e Minnie, Disneyland, 1955Parata di Dumbo, Disneyland, 1955Barca piena di turisti sul laghetto artificiale di Disneyland,1955Walt Disney, Disneyland, 17 Luglio 1955Parata in Main Street, Disneyland, 17 Luglio 1955Debbie Reynolds, Disneyland, la prima settimana di apertura,1955Bar a Disneyland, 1955Giostra a Disneyland,1955Famiglia a Disneyland,1955
Nel periodo della sperimentazione cinematografica degli anni ’70 abbiamo avuto diverse produzioni rilevanti e meravigliose. Ad occidente, come a oriente, ci si stava affacciando su nuove metodologie d’avanguardia e interessi diversificati nella produzione cinematografica.
In America c’era David Lynch, ancora oggi regista di estremo talento e grande capacità visionaria che ha realizzato film fuori dal comune, sia per la trama che per le immagini.
Sul filone di questa novità in ambito cinematografico, il Giappone rispose con un altrettanto talentoso e eccentrico artista.
Era il 1977 quando uscì House, un film realizzato dall’allora emergente regista Nobuhiko Obayashi.
Fino ad allora Obayashi si era occupato esclusivamente di spot pubblicitari di vario calibro, pur avendo studiato cinema e avendo appreso tecniche innovative che furono il pilone portante dei suoi lavori successivi.
Il film, capolavoro trash tra il comico e l’horror, vede protagoniste 7 ragazzine durante le vacanze estive e una casa infestata.
La trama, piuttosto semplice, come i nomi delle ragazze che corrispondono alle loro caratteristiche portanti, è imbevuta di bellezze del genere e di scene alquanto particolari che hanno reso il film un cult per diverse generazioni.
Le idee, innovative e mai banali (vedi micetti assassini), riescono a strappare un misto di orrore e sdegno, ma alimentano l’eclettismo ricercato con inquadrature nuove e elementi iconici. Le atmosfere oniriche e idilliache vi coinvolgeranno, così come la colonna sonora e le continue grida delle povere sventurate mandate al macello.
La particolarità più rilevante rimane però la tecnica fotografica che viene usata in maniera inusuale, ma che non sfocia mai in qualunquismi convenzionali e preconfezionati. Il film merita, non tanto per la trama, quanto proprio per l’idea che sta alla base della sua realizzazione. Guardare per credere!
Svedese, nata nel lontano 1862. Sin da giovane si interessa di matematica e botanica, ma è la pittura che finirà per coinvolgerla totalmente.
Abilissima nei paesaggi, che le permisero un certo guadagno, rimase tuttavia affascinata ad un altro tipo di arte che la rapì totalmente anche sul piano personale.
Dopo la morte della sorella minore, avvenuta nel 1880, Hilma si avvicinò sempre di più ad una dimensione spirituale che fino ad allora era mancata nella sua realtà.
Cominciò a interessarsi ad astrazione e simbolismo soprattutto a seguito del suo coinvolgimento nello spiritismo, tanto in voga al periodo.
Si avvicinò alla teosofia di Madame Blavatsky, alla filosofia di Christian Rosenkreutz e infine conobbe l’illustre Rudolf Steiner, fondatore della società antroposofica.
Influenzata da questi studi, incominciò a sperimentare nella sua arte la dimensione spirituale, filosofica ed esoterica che al tempo influenzò artisti di alto calibro come lo stesso Kandinsky.
Durante la stesura dei suoi lavori, la Klint si reputava un tramite attraverso cui poteva essere materializzato il volere di una coscienza superiore.
Durante la sua permanenza all’accademia delle belle arti, conobbe e strinse amicizia con Anna Cassel, una delle quattro donne con cui formò un solido gruppo chiamato “le cinque”. Queste, attive dal 1896 al 1908, si dedicarono a registrare messaggi da entità superiori in stati di trance usando la tecnica della scrittura automatica per tramandare i loro messaggi.
Questa esperienza influenzò moltissimo la sua produzione.
Estremamente prolifica nella sua arte, nel suo testamento lasciò l’istruzione di pubblicare i suoi lavori spirituali solo vent’anni dopo la sua morte, in quanto non credeva che il mondo fosse pronto a comprenderli.
Per vedere alcune delle sue opere è necessario collegarsi al sito della fondazione responsabile dei diritti d’autore dell’artista che riporta alcune immagini dei più bei dipinti da lei realizzati.
Ad oggi rimane una delle più illustri pittrici simboliste dei primi del novecento.
Nelle sue opere si può notare la ricercatezza delle forme, mai banali, sempre cariche di significato e dei colori, vivaci, vivi, preludio a un mondo immaginario – o forse reale- che spazia dal simbolico all’esoterico con una bellezza non indifferente, carica di significato catartico.
Per ammirare queste straordinarie opere è necessario osservarle senza porre l’accento sulle loro contraddizioni interne, fatte da ripetizioni, sovrapposizioni, linee e ghirigori che incontrando lo spettatore non esperto parrebbero essere realizzate da una mano infantile.
Hilma af Klint, Altar piece, Group X, 1907
Il suo sapiente uso del colore è caratterizzato da un forte simbolismo interno: il giallo sta a significare l’aspetto maschile, il blu lo spirito femminile, il rosso l’amore spirituale e fisico.
Hilma af Klint, Primordial Chaos, No 16, 1906-1907Hilma af Klint, Svanen, No 17, 1915
Per comprendere appieno i suoi lavori si può usare uno sguardo intellettivo piuttosto razionalista, oppure, come forse era lo stesso volere dell’artista, lasciare che questi ti parlino senza porre alcun freno al messaggio che intendono porti.
Hilma af Klint fu una visionaria del tempo, piuttosto avanti rispetto alla società in cui si trovava.
Ossessionata dalla necessità di conoscenza e comprensione di ciò che la circondava, rimarrà per sempre un’innovatrice, una matriarca dell’arte.
Quante volte ci è capitato di discutere con gli amici di nuove serie tv che ci appassionano? Spesso si tratta di cose estremamente mainstream, proiezioni di una visione comune.
The Oa scardina questo mito retrogrado e porta avanti una profonda intuizione.
Τhe Oa, ovvero Original Angel, è stata scritta e diretta dal genio creativo di Brit Marling (classe ’82) e Zal Batmanglij (classe ’81), amici di vecchia data e partner lavorativi in diversi progetti. Questa serie anticonformista tratta di temi piuttosto profondi che incoraggiano una riflessione tutt’altro che banale.
La trama si incentra su questioni di natura spirituale: la vita dopo la morte, vista come passaggio, la reincarnazione e l’anima immortale. La protagonista, Prairie Johnson, si ritrova a subire una NDE, un’esperienza pre-morte, che la vede poi tornare sulla terra, in questa dimensione, con un grande limite: la cecità. La volontà di ritrovare il padre la porta poi a subire un’avventura spiacevole che la vede cavia di laboratorio proprio perché ha visto cosa c’è “oltre” e perché questa visione le ha lasciato un talento che ha un qualcosa di mistico e soprannaturale.
Studiata in ogni minimo dettaglio, questa perla cinematografica ci permette di riflettere su questioni ben più ampie della nostra mera esistenza e ci immerge in qualcosa che è al di là di ciò che ci aspettiamo, provocando una catarsi interiore che ci eleva verso nuovi orizzonti.
Qualcuno, di fronte a questi temi impegnati, potrebbe storcere il naso. In fondo una serie televisiva deve principalmente (o solamente?) garantire divertimento e leggerezza. Essere uno spiraglio di positività nella nostra solita routine. Quel programma che guardiamo di fronte a un buon calice di vino.
Sì, sicuramente c’è una componente di disimpegno nel guardare qualcosa di “superficiale”, ma se siete un minimo interessati a temi non convenzionali, ve la consiglio.
Il cast vede come protagonisti la stessa Marling, già vista in “The East”, “Another Earth”, “I Origins”, solo per citarne alcuni, Kingsley Ben Adir, Jason Isaacs, meglio noto come il famigerato Lucius Malfoy in Harry Potter, e molti altri dall’inconfutabile talento.
Parliamoci chiaro, non attorini alle prime armi.
Scritta per essere sviluppata in diverse stagioni, non ha superato il critico limite di Netflix, che l’ha vista concludersi (per ora) alla seconda stagione.
La narrazione porta avanti una story-telling di incredibile ricchezza, data proprio dalla partnership di cui sopra, indice di una spiccata sensibilità verso il mondo e verso sé stessi.
La recitazione è, come già detto, della miglior fattura. La Marling riesce con il suo talento a coinvolgere lo spettatore senza risultare esosa, egocentrica, ma delicata, dolce, sensibile ed estremamente convincente.
I personaggi sono caratterizzati in maniera completa e ben orientati in una narrazione già di per sé complessa. Interessante notare che Brit mollò un lavoro certo da Goldman Sachs dopo una laurea in economia ottenuta con eccellenti risultati ( era la migliore del corso) per dedicarsi all’arte cinematografica, un po’ contro il parere comune. Tra gli esperimenti che ha condotto anche il vivere per strada e nutrirsi solo di ciò che trovava, cosa che non si addice a una giovane donna estremamente brillante-probabilmente ai limiti della genialità-, promettente e di buona famiglia. Lei stessa definì quell’esperienza una NDE personale.
In un contesto che vede nella superficialità il fulcro dell’esistenza umana, non sorprende che poche persone si siano appassionate a questa esperienza televisiva di natura metafisica. Eppure raccoglie i suoi fan in tutto il mondo. Fan che continuano a punzecchiare Netflix per riavere la loro serie preferita. Interessante è inoltre notare come la fandom di questa serie sia estremamente eterogenea. Si può notare come molte identità siano persone che appaiono emarginate, diverse dagli standard, appassionate di esoterismo, padrone di una vita che va al di là degli stereotipi sociali.
Di sicuro è una serie per pochi.
Se siete appassionati di cose “easy” è meglio che non proviate nemmeno a guardare il primo episodio. Vi annoiereste e basta. Se siete interessati ad analizzare i vari “perché” allora siete nel posto giusto. Potrete aprirvi a qualcosa di innovativo, spiazzante, profondo, divertente, che forse potrebbe darvi una piccola soluzione a quei grandi interrogativi che tutti ci poniamo.